domenica 5 aprile 2015

La poetica di Leopardi (I parte)


Avvertenza: per quanto riguarda il Discorso di un Italiano, le indicazioni delle pagine fanno riferimento all'edizione commentata da Francesco Flora, Milano 1968 (1940); invece, per quanto riguarda lo Zibaldone, vengono indicate, oltre alle date del testo leopardiano, le pagine dell'edizione a cura di Walter Binni, Firenze 1989 (1969).

1) Leopardi teorico della poesia, oltre che poeta

Intendiamo per poetica di un autore l’insieme delle idee che l’autore ha sulla poesia, ciò che lui crede che sia la poesia, quindi i principi cui si attiene nel fare poesia. Una poetica può essere esplicita o implicita. Il primo caso si ha quando l’autore dichiara esplicitamente tali principi, quando il lettore dispone di testi in cui l’autore ha esplicitamente enunciato le sue idee sulla poesia. Il secondo caso si ha quando, al contrario, non esistono tali documenti, ma è dalla poesia stessa che il lettore desume il pensiero del poeta sulla poesia, sulla sua natura, sulle sue finalità; la poetica, insomma, è implicita nell'opera.[1] Nel caso di Leopardi la riflessione sulla poesia è costante ed accompagna per tutta la vita il suo fare poetico. Abbiamo un documento fondamentale per capire il suo pensiero sulla poesia (il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica) ed abbiamo nello Zibaldone le riflessioni continue che egli viene svolgendo nel corso degli anni. E’ una riflessione tormentata, anche contraddittoria, che si innesta originariamente sulla polemica allora viva fra classicismo e romanticismo, ma che arriva ad esplorare territori nuovi e giunge a conclusioni originali.

2) Una riflessione tormentata e contraddittoria: l’opinione di Ungaretti

Dicevo, riflessione tormentata e contraddittoria. E infatti se noi leggiamo il Discorso e a questa facciamo seguire la lettura delle pressoché contemporanee o di poco successive riflessioni rintracciabili nello Zibaldone, non possiamo non stupirci di fronte a certi cambiamenti di prospettiva, di più, a certi rovesciamenti di giudizio. Ma anche restando al solo Discorso, lo stesso Leopardi appare talmente consapevole della problematicità del proprio pensiero che sente il bisogno di avvertire il lettore:

forse in progresso mi toccherà di combattere due opinioni contrarie, l'una delle quali s'avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto, gli dovrà parere ch'io combatta me medesimo. (p.476)

Lo fa attribuendo la contraddittorietà all'avversario, ma è fin troppo evidente che la precisazione denuncia una difficoltà nel contestare idee che, per qualche verso, sono anche sue (o che, se si preferisce, per qualche verso, hanno fatto breccia in lui[2]). Del resto le stesse poesie di quegli anni (gli idilli, scritti fra il 1819 e il 1821: e leggeremo qualche testo esemplare in questo senso, La sera del dì di festa e L’infinito) testimoniano un fare poetico che non corrisponde ai principi enunciati polemicamente nel Discorso, ma sembra piuttosto accettare ciò che lì era stato contestato. Al punto che Ungaretti, in uno scritto su Leopardi (Secondo discorso su Leopardi, 1944) giunge a sostenere che il Discorso non è più di un’esercitazione accademica, mentre in verità Leopardi, come poeta, sarebbe fortemente influenzato dalle opinioni del Di Breme, insomma quelle stesse opinioni che contesta nel Discorso, Leopardi le farebbe proprie nella poesia; e cerca di dimostrarlo, Ungaretti, con qualche forzatura, a mio giudizio, ma indubbiamente ha buon gioco nel rilevare che Leopardi finisce per accogliere, teoricamente e praticamente, i principi dei cosiddetti "moderni", ovvero dei romantici.

3) L’occasione del Discorso e l’equivoco patriottico

Il Discorso è scritto nel 1818 come risposta alle Osservazioni di Di Breme sullo "Spettatore italiano" (si tratta di due articoli che compaiono nel gennaio;[3] nel marzo Leopardi ha già elaborato la risposta, ma non viene pubblicata né dallo "Spettatore", né, successivamente, in opuscolo; vedrà la luce nel 1906). Era questo un vero e proprio manifesto di adesione al romanticismo, e la risposta di Leopardi intende controbattere a quelle idee in nome della tradizione classica e italiana.[4] Tradizione classica e italiana: notate che Leopardi ritiene la tradizione letteraria italiana erede, continuatrice di quella classica; dunque per lui la difesa della classicità è anche una difesa patriottica della italianità contro l’invadenza di caratteri e gusti di origine nordica: tale gli sembra appunto il romanticismo, nient’altro che una moda proveniente dalla Germania e dall’Inghilterra ed estranea alla sensibilità latina.[5] Per capire come questo spirito patriottico sia una componente fondamentale del Discorso (che non a caso è "di un italiano"), si pensi che dello stesso anno sono le canzoni Sopra il monumento di Dante e All’Italia, dove si leva alto il lamento per la sorte della patria ("di catene ha carche ambo le braccia" e "siede a terra negletta e sconsolata"): lo stesso lamento, traboccante di amor patrio, si distende nelle pagine finali del Discorso:

vedo negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e i latini antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate e magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco sentimentale e poetico ci scola giù dalle Alpi e c’è vomitato sulle rive del mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova. (p.546-47).

E’ un rilievo importante, perché proprio questo amor patrio sembra far velo, in Leopardi, alla comprensione ed accettazione delle idee romantiche. Idee che, come vedremo, finisce per accogliere nella loro sostanza.

4.1) I principi del Discorso: imitazione della natura, immaginazione, diletto

Leggiamo il Discorso. Ci sono parole e concetti ricorrenti su cui Leopardi insiste per definire quello che per lui è l’”ufficio” della poesia, il suo fine, il suo fondamento: imitazione della natura, diletto, illusioni, immaginazione. Al centro c’è il seguente principio: la poesia è imitazione della natura (e quindi è immutabile, poiché è immutabile la natura), si fonda sull’immaginazione ed ha come fine il diletto.

 “Le bellezze dunque della natura (…) non variano pel variare de' riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse mai cambiamento nella natura, la quale vincitrice dell'esperienza e dello studio e dell'arte e d'ogni cosa umana mantenendosi eternamente quella, a volerne conseguire quel diletto puro e sostanziale ch'è il fine proprio della poesia (giacchè il diletto nella poesia scaturisce dall'imitazione della natura), ma che insieme è conformato alla condizione primitiva degli uomini, è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e però la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi caratteri principali, sia, come la natura, immutabile. E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in rimetterci coll'immaginazione come meglio possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie.” (p. 477-78)

Il poeta sceglie “dentro i confini del verosimile quelle migliori illusioni che gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch’è imitar la natura, e al fine, ch’è dilettare” (p. 474)

il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov'è un diletto poetico altrettanto vero e grande e puro e profondo?” (p. 481)

4.2) I principi del Discorso: la poesia non è filosofia

Sbaglia quindi Di Breme (e i romantici con lui) quando sostiene che la poesia moderna si fonda sulla ragione e sulla conoscenza del vero; sbaglia, perché questo è proprio della filosofia, non della poesia (la poesia è cosa "corporale", non "metafisica"):

Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che possono la poesia dal commercio coi sensi, per i quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e tramutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale (p. 470)

La poesia si fonda sul falso, non sul vero, sull’inganno dell’immaginazione non sulla conoscenza della verità, perché è quell’inganno (quella illusione) che procura il diletto:

Non è del poeta ma del filosofo il guardare all’utile e al vero: il poeta ha cura del dilettoso, e del dilettoso alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal falso, anzi per lo più mente e si studia di fare inganno, e l’ingannatore non cerca il vero ma la sembianza del vero (p. 477)

Si pensi alla famosa formula manzoniana: la poesia ha per oggetto il vero e per fine l’utile (e per mezzo l’interessante). Quella formula è rovesciata: la poesia ha come oggetto il falso e per fine il diletto (e per mezzo l’inganno).

4.3) I principi del Discorso: contro la mitologia e contro le regole

Ma che vuol dire “imitare la natura”? Vuol dire porsi davanti alla natura (che è immutabile) con la stessa freschezza spirituale degli antichi (p. 478: dobbiamo "rimetterci coll’immaginazione… nello stato primitivo de’ nostri maggiori"). Ma questo non vuol dire imitare gli autori classici, riprendendo la loro mitologia e osservando le loro regole, sia perché le favole greche sono "invenzioni arbitrarie" (e quindi appartengono ai popoli antichi, non sono "comuni con noi"):

quando noi disputiamo che la poesia moderna non si dee né si può diversificare dall’antica, non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ gentili. Vogliamo che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina con la presente e con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue, non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri non le forme speciali di questo o quel poeta; le favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura… ma fabbricate da altri, non da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le immaginazioni altrui… (p. 510)

sia perché "l’osservanza cieca e servile delle regole" produce una "imitazione esangue e sofistica", non poesia:

noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di roba altrui… vogliamo che i poeti dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che sieno gli imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? (p. 511)

E questa, come si vede, è già una bella concessione agli avversari romantici, i quali avevano come bersaglio polemico proprio l’uso e l’abuso della mitologia nelle opere letterarie, nonché l’osservanza delle regole.

4.4) Immaginazione e ragione: filogenesi e ontogenesi

Ma le riflessioni più interessanti del Discorso sono quelle relative alla immaginazione. La poesia si fonda sulla capacità immaginativa, capacità particolarmente sviluppata presso i popoli antichi, a misura che negli stessi, invece, è ridotta la capacità di conoscere razionalmente, scientificamente la natura.[6] Senonché il divenire storico, mentre fa crescere la conoscenza scientifica della natura, produce inevitabilmente una riduzione dello spazio immaginativo. E’ la stessa cosa che succede nella crescita individuale: l’ontogenesi (ovvero, il processo di sviluppo dell’individuo) ripete la filogenesi (ovvero, il processo di sviluppo della società), o viceversa:

 

quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia” (p. 479-80)[7]

Analogamente a quel che succede nello sviluppo della civiltà, l’immaginazione (la capacità di creare favole, di interpretare miticamente la natura, di animarla), particolarmente sviluppata nei fanciulli, si riduce man mano che cresce nell’individuo la capacità raziocinante.

4.5) Il poeta è il liberatore dell’immaginazione dall’oppressione dell’intelletto

Con tutto ciò, l’idea dei romantici, secondo cui, di conseguenza, la poesia moderna non può che servirsi dell’intelletto e fondarsi sulla conoscenza del vero, è un’idea assolutamente inaccettabile, perché l’intelletto e la conoscenza del vero restano sempre la negazione della poesia:

l’esperienze le scoperte gli effetti dell’incivilimento daranno lena… alla fantasia? Quelle cose che l’affogano l’avviveranno? La ragione ch’a ogni poco la mette in fuga e la perseguita e l’assalisce e quasi la sforza a confessare ch’ella sogna, l’esperienza che l’assedia e la stringe e le oppone al volto la sua molestissima lucerna, la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col vero, queste cose alimenteranno e conforteranno l’immaginativa? (p. 482-483)

Lo spazio dell’immaginazione, per quanto ridotto, esiste ancora, deve solo essere liberato dai vincoli e dall’oppressione imposta dall’intelletto, e il poeta è questo liberatore:

Non però va creduto, come pare che molti facciano, che col tempo sia scemata all’immaginazione la forza, e venga scemando tuttavia secondoché s’aumenta il dominio dell’intelletto: non la forza, ma l’uso dell’immaginazione è scemato e scema… e a volere che l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla all’oppressione dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti: questo può fare il poeta, questo deve (p. 483-484)

A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti sovrumani della natura, dal poeta (p. 508)

In altre parole, si può dire che il poeta è colui che è in grado di ridestare in noi adulti la memoria dell’infanzia, allo stesso modo in cui ce la ridestano le opere degli antichi:

dal genio che tutti abbiamo della puerizia si deve stimare quanto sia quello che abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le ricordanze della prima età… sono appunto quelle che ci ridesta l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e sbandiscono dalla poesia, gridando che non siamo più fanciulli: e purtroppo non siamo; ma il poeta deve illudere…(p.481)

Il poeta moderno deve soltanto educare la propria immaginazione, ridarle la vitalità perduta (soffocata dalla ragione), e questo lo si ottiene attraverso lo studio degli antichi:

appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per essere poeti bisogno di sussidio (p. 508)

Gli antichi dunque non sono modelli da imitare ciecamente (come si diceva sopra), ma sono gli educatori della nostra immaginazione, coloro che ci insegnano a guardare la natura con gli occhi dell’immaginazione.

 



[1] A questo riguardo basterà pensare, come esempio, alla differenza fra Ariosto e Tasso: mentre del primo non abbiamo dichiarazioni esplicite di poetica (e però possiamo facilmente dedurla dal Furioso), il secondo ha accompagnato la stesura della Liberata con una continua e faticosa elaborazione teorica su natura, struttura e finalità del poema epico.
[2] Che le idee dell’avversario (Di Breme) lo avessero profondamente colpito, si deduce chiaramente da un contemporaneo commento nello Zibaldone: “Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 91 le Osservazioni di Ludovico Di Breme sopra la poesia moderna, o romantica che la vogliamo chiamare, e perché ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare e inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e si debbono fare, per mia quiete le scrivo”
[3] Si trattava precisamente di una recensione in due puntate alla traduzione italiana del Giaurro di Byron. Di Breme polemizzava proprio con l’idea di poesia come imitazione della natura; il poeta interpreta la natura (e una cosa è interpretarla come facevano gli antichi, altra cosa interpretarla alla luce dell’ampliamento delle cognizioni proprio dei moderni), anzi, gareggia con la natura nella stessa creazione. Dunque la poesia moderna non può prescindere dal carattere riflessivo, raziocinante, del proprio tempo, e trovare fondamento, più che sull’immaginazione, sulla forza del sentimento.
[4] Sarà utile a questo punto una breve digressione, e necessariamente schematica, sul dibattito fra classici e romantici. Le idee romantiche erano arrivate in Italia piuttosto in ritardo, rispetto alle elaborazioni teoriche di tedeschi ed inglesi che risalgono agli ultimi anni del ‘700. Solo nel gennaio del 1816 la pubblicazione sulla Biblioteca Italiana dell’articolo di Madame de Stael “Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni” aveva smosso le acque. La de Stael in quell’ articolo sosteneva la necessità che gli italiani, invece di rimanere fossilizzati nella propria tradizione letteraria, leggessero i moderni autori stranieri (in specie, tedeschi), portatori di nuove forme e nuova sensibilità poetica. In parole povere, la de Stael diceva agli italiani: c’è una poesia moderna, aggiornatevi, siete vecchi, siete fuori dalla storia, mettetevi al passo col nuovo che avanza. Ne seguì un intenso dibattito polemico: da una parte coloro che condividevano l’esortazione della de Stael (i romantici: Di Breme, appunto, Borsieri, Berchet, Pellico, ecc.), dall’altra coloro che intendevano difendere la validità della tradizione letteraria italiana, fondata sui modelli della classicità (i classicisti: Monti, Giordani).
[5] Va ricordato che due anni prima, nel luglio del 1816, Leopardi aveva mandato alla Biblioteca Italiana una lettera di risposta all’articolo della de Stael (lettera mai pubblicata). In essa è evidente l’ironia (anzi, il sarcasmo) nei confronti della presunzione che la lettura degli stranieri possa dare nuovo vigore alla poesia italiana (“Apriamo tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne’ nostri campi le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi italiani correranno in frotta a berne, e a diguazzarvi, e se n’empieranno sino alla gola…”; quindi aggiungeva: “Leggiamo e consideriamo e ruminiamo lungamente e maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini e  degli Italiani che han bellezze da bastare ad alimentarci per lo spazio di tre vite se ne avessimo.”; e infine: “ringrazio il cielo di cuore per avermi fatto Italiano…, e ciò non per il potere d’Italia che niuno ne ha, né per il suo bel clima di cui poco mi cale, né per le sue belle città di cui mi cale ancor meno, ma per lo ingegno degli Italiani, e per la maniera della italiana letteratura che è di tutte le letterature del mondo la più affine alla greca e alla latina, cioè a dire… alla sola vera, perchè la sola naturale, e in tutto vota d’affettazione”)
[6] Andrà notato che l’idea leopardiana delle società antiche è l’idea settecentesca (riconducibile a Rousseau, a Herder, ecc.) di società primitive, ingenue, “fanciulle” appunto, sostanzialmente felici nella loro innocenza, non corrotte dall’incivilimento. Ma si tratta di una idealizzazione dell’antico (storicamente infondata), smascherata già da Nietzsche con la scoperta del dionisiaco come componente fondamentale dell’anima, e della cultura, greca.
[7] A questa considerazione Leopardi fa seguire, come esempio, un appassionato ricordo della propria fanciullezza e si dilunga a raccontare di come la sua fantasia animasse gli elementi della natura (astri, piante, animali), li personificasse, derivandone sentimenti di commozione, di piacere, di paura.

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