Avvertenza: per quanto riguarda il Discorso di un Italiano,
le indicazioni delle pagine fanno riferimento all'edizione commentata da
Francesco Flora, Milano 1968 (1940); invece, per quanto riguarda lo Zibaldone,
vengono indicate, oltre alle date del testo leopardiano, le pagine
dell'edizione a cura di Walter Binni, Firenze 1989 (1969).
1) Leopardi teorico della poesia, oltre che poeta
Intendiamo
per poetica di un autore l’insieme delle idee che l’autore ha sulla poesia, ciò
che lui crede che sia la poesia, quindi i principi cui si attiene nel fare
poesia. Una poetica può essere esplicita o implicita. Il primo caso si ha
quando l’autore dichiara esplicitamente tali principi, quando il lettore
dispone di testi in cui l’autore ha esplicitamente enunciato le sue idee sulla
poesia. Il secondo caso si ha quando, al contrario, non esistono tali
documenti, ma è dalla poesia stessa che il lettore desume il pensiero del poeta
sulla poesia, sulla sua natura, sulle sue finalità; la poetica, insomma, è
implicita nell'opera.[1]
Nel caso di Leopardi la riflessione sulla poesia è costante ed accompagna per
tutta la vita il suo fare poetico. Abbiamo un documento fondamentale per capire
il suo pensiero sulla poesia (il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica) ed abbiamo nello Zibaldone le riflessioni continue che
egli viene svolgendo nel corso degli anni. E’ una riflessione tormentata, anche
contraddittoria, che si innesta originariamente sulla polemica allora viva fra
classicismo e romanticismo, ma che arriva ad esplorare territori nuovi e giunge
a conclusioni originali.
2) Una riflessione tormentata e contraddittoria: l’opinione di
Ungaretti
Dicevo,
riflessione tormentata e contraddittoria. E infatti se noi leggiamo il Discorso
e a questa facciamo seguire la lettura delle pressoché contemporanee o di poco
successive riflessioni rintracciabili nello Zibaldone, non possiamo non
stupirci di fronte a certi cambiamenti di prospettiva, di più, a certi
rovesciamenti di giudizio. Ma anche restando al solo Discorso, lo
stesso Leopardi appare talmente consapevole della problematicità del proprio
pensiero che sente il bisogno di avvertire il lettore:
forse
in progresso mi toccherà di combattere due opinioni contrarie, l'una delle quali
s'avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto, gli
dovrà parere ch'io combatta me medesimo. (p.476)
Lo
fa attribuendo la contraddittorietà all'avversario, ma è fin troppo evidente
che la precisazione denuncia una difficoltà nel contestare idee che, per
qualche verso, sono anche sue (o che, se si preferisce, per qualche verso,
hanno fatto breccia in lui[2]).
Del resto le stesse poesie di quegli anni (gli idilli, scritti fra il 1819 e il
1821: e leggeremo qualche testo esemplare in questo senso, La sera del dì di
festa e L’infinito)
testimoniano un fare poetico che non corrisponde ai principi enunciati
polemicamente nel Discorso, ma sembra piuttosto accettare ciò che lì era
stato contestato. Al punto che Ungaretti, in uno scritto su Leopardi (Secondo
discorso su Leopardi, 1944) giunge a sostenere che il Discorso non è
più di un’esercitazione accademica, mentre in verità Leopardi, come poeta,
sarebbe fortemente influenzato dalle opinioni del Di Breme, insomma quelle
stesse opinioni che contesta nel Discorso, Leopardi le farebbe proprie
nella poesia; e cerca di dimostrarlo, Ungaretti, con qualche forzatura, a mio
giudizio, ma indubbiamente ha buon gioco nel rilevare che Leopardi finisce per
accogliere, teoricamente e praticamente, i principi dei cosiddetti
"moderni", ovvero dei romantici.
3) L’occasione del Discorso
e l’equivoco patriottico
Il
Discorso è scritto nel 1818 come risposta alle Osservazioni di
Di Breme sullo "Spettatore italiano" (si tratta di due
articoli che compaiono nel gennaio;[3]
nel marzo Leopardi ha già elaborato la risposta, ma non viene pubblicata né
dallo "Spettatore", né, successivamente, in opuscolo; vedrà la
luce nel 1906). Era questo un vero e proprio manifesto di adesione al romanticismo,
e la risposta di Leopardi intende controbattere a quelle idee in nome della
tradizione classica e italiana.[4]
Tradizione classica e italiana: notate che Leopardi ritiene la tradizione
letteraria italiana erede, continuatrice di quella classica; dunque per lui la
difesa della classicità è anche una difesa patriottica della italianità contro
l’invadenza di caratteri e gusti di origine nordica: tale gli sembra appunto il
romanticismo, nient’altro che una moda proveniente dalla Germania e dall’Inghilterra
ed estranea alla sensibilità latina.[5]
Per capire come questo spirito patriottico sia una componente fondamentale del Discorso
(che non a caso è "di un italiano"), si pensi che dello stesso anno
sono le canzoni Sopra il monumento di Dante
e All’Italia, dove si leva alto il lamento per la sorte della patria
("di catene ha carche ambo le braccia" e "siede a
terra negletta e sconsolata"): lo stesso lamento, traboccante di amor
patrio, si distende nelle pagine finali del Discorso:
vedo
negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e i latini
antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate e
magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco
sentimentale e poetico ci scola giù dalle Alpi e c’è vomitato sulle rive del
mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran
parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e
dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova.
(p.546-47).
E’
un rilievo importante, perché proprio questo amor patrio sembra far velo, in
Leopardi, alla comprensione ed accettazione delle idee romantiche. Idee che,
come vedremo, finisce per accogliere nella loro sostanza.
4.1) I principi del Discorso: imitazione della natura, immaginazione,
diletto
Leggiamo
il Discorso. Ci sono parole e concetti ricorrenti su cui Leopardi
insiste per definire quello che per lui è l’”ufficio” della poesia, il suo
fine, il suo fondamento: imitazione della natura, diletto, illusioni,
immaginazione. Al centro c’è il seguente principio: la poesia è imitazione
della natura (e quindi è immutabile, poiché è immutabile la natura), si fonda
sull’immaginazione ed ha come fine il diletto.
“Le bellezze dunque della natura (…) non
variano pel variare de' riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse
mai cambiamento nella natura, la quale vincitrice dell'esperienza e dello
studio e dell'arte e d'ogni cosa umana mantenendosi eternamente quella, a
volerne conseguire quel diletto puro
e sostanziale ch'è il fine proprio della poesia (giacchè il diletto nella
poesia scaturisce dall'imitazione della natura), ma che insieme è
conformato alla condizione primitiva degli uomini, è necessario che, non la
natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e però la poesia non si venga
mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi caratteri principali, sia, come
la natura, immutabile. E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in
rimetterci coll'immaginazione come
meglio possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa
fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie.” (p. 477-78)
Il
poeta sceglie “dentro i confini del verosimile quelle migliori illusioni che
gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch’è imitar la natura, e al fine, ch’è
dilettare” (p. 474)
“il poeta deve illudere, e illudendo
imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov'è un diletto
poetico altrettanto vero e grande e puro e profondo?” (p. 481)
4.2) I principi del Discorso: la
poesia non è filosofia
Sbaglia
quindi Di Breme (e i romantici con lui) quando sostiene che la poesia moderna
si fonda sulla ragione e sulla conoscenza del vero; sbaglia, perché questo è
proprio della filosofia, non della poesia (la poesia è cosa
"corporale", non "metafisica"):
Già
è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che
possono la poesia dal commercio coi sensi, per i quali è nata e vivrà
finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla
dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e tramutarla di materiale e
fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale (p.
470)
La
poesia si fonda sul falso, non sul vero, sull’inganno dell’immaginazione non
sulla conoscenza della verità, perché è quell’inganno (quella illusione) che
procura il diletto:
Non è del poeta ma del filosofo il
guardare all’utile e al vero: il poeta ha cura del dilettoso, e del dilettoso
alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal falso, anzi per
lo più mente e si studia di fare inganno, e l’ingannatore non cerca il vero ma
la sembianza del vero (p. 477)
Si
pensi alla famosa formula manzoniana: la poesia ha per oggetto il vero e per
fine l’utile (e per mezzo l’interessante). Quella formula è rovesciata: la poesia
ha come oggetto il falso e per fine il diletto (e per mezzo l’inganno).
4.3) I principi del Discorso: contro la
mitologia e contro le regole
Ma
che vuol dire “imitare la natura”? Vuol dire porsi davanti alla natura (che è
immutabile) con la stessa freschezza spirituale degli antichi (p. 478: dobbiamo
"rimetterci coll’immaginazione… nello stato primitivo de’ nostri
maggiori"). Ma questo non vuol dire imitare gli autori classici,
riprendendo la loro mitologia e osservando le loro regole, sia perché le favole
greche sono "invenzioni arbitrarie" (e quindi appartengono ai popoli
antichi, non sono "comuni con noi"):
quando
noi disputiamo che la poesia moderna non si dee né si può diversificare
dall’antica, non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ gentili. Vogliamo
che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina con la presente e
con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue,
non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze
non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri non le
forme speciali di questo o quel poeta; le
favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime
dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura… ma fabbricate da altri, non
da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono
comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le
immaginazioni altrui… (p. 510)
sia
perché "l’osservanza cieca e servile delle regole" produce una
"imitazione esangue e sofistica", non poesia:
noi non vogliamo che il poeta imiti
altri poeti, ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di
roba altrui… vogliamo che i poeti
dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che
sieno gli imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene
agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle
regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù
e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? (p. 511)
E
questa, come si vede, è già una bella concessione agli avversari romantici, i
quali avevano come bersaglio polemico proprio l’uso e l’abuso della mitologia
nelle opere letterarie, nonché l’osservanza delle regole.
4.4) Immaginazione e ragione: filogenesi e
ontogenesi
Ma le riflessioni più
interessanti del Discorso sono quelle relative alla immaginazione. La
poesia si fonda sulla capacità immaginativa, capacità particolarmente sviluppata
presso i popoli antichi, a misura che negli stessi, invece, è ridotta la
capacità di conoscere razionalmente, scientificamente la natura.[6]
Senonché il divenire storico, mentre fa crescere la conoscenza scientifica
della natura, produce inevitabilmente una riduzione dello spazio immaginativo.
E’ la stessa cosa che succede nella crescita individuale: l’ontogenesi (ovvero,
il processo di sviluppo dell’individuo) ripete la filogenesi (ovvero, il
processo di sviluppo della società), o viceversa:
quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e
quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno,
dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei
diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia”
(p. 479-80)[7]
Analogamente
a quel che succede nello sviluppo della civiltà, l’immaginazione (la capacità
di creare favole, di interpretare miticamente la natura, di animarla),
particolarmente sviluppata nei fanciulli, si riduce man mano che cresce
nell’individuo la capacità raziocinante.
4.5) Il poeta è il liberatore dell’immaginazione
dall’oppressione dell’intelletto
Con
tutto ciò, l’idea dei romantici, secondo cui, di conseguenza, la poesia moderna
non può che servirsi dell’intelletto e fondarsi sulla conoscenza del vero, è
un’idea assolutamente inaccettabile, perché l’intelletto e la conoscenza del
vero restano sempre la negazione della poesia:
l’esperienze
le scoperte gli effetti dell’incivilimento daranno lena… alla fantasia? Quelle
cose che l’affogano l’avviveranno? La ragione ch’a ogni poco la mette in fuga e
la perseguita e l’assalisce e quasi la sforza a confessare ch’ella sogna,
l’esperienza che l’assedia e la stringe e le oppone al volto la sua
molestissima lucerna, la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col
vero, queste cose alimenteranno e conforteranno l’immaginativa? (p. 482-483)
Lo
spazio dell’immaginazione, per quanto ridotto, esiste ancora, deve solo essere
liberato dai vincoli e dall’oppressione imposta dall’intelletto, e il poeta è
questo liberatore:
Non
però va creduto, come pare che molti facciano, che col tempo sia scemata
all’immaginazione la forza, e venga scemando tuttavia secondoché s’aumenta il
dominio dell’intelletto: non la
forza, ma l’uso dell’immaginazione è scemato e scema… e a volere che
l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli
antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla all’oppressione
dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti:
questo può fare il poeta, questo deve (p. 483-484)
A noi l’immaginazione è liberata
dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali,
rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo,
rifatta capace dei diletti sovrumani della natura, dal poeta (p. 508)
In
altre parole, si può dire che il poeta è colui che è in grado di ridestare in
noi adulti la memoria dell’infanzia, allo stesso modo in cui ce la ridestano le
opere degli antichi:
dal
genio che tutti abbiamo della puerizia si deve stimare quanto sia quello che
abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella
natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la
fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le
ricordanze della prima età… sono appunto quelle che ci ridesta
l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e
secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano
divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e
sbandiscono dalla poesia, gridando che non siamo più fanciulli: e purtroppo non
siamo; ma il poeta deve illudere…(p.481)
Il
poeta moderno deve soltanto educare la propria immaginazione, ridarle la
vitalità perduta (soffocata dalla ragione), e questo lo si ottiene attraverso
lo studio degli antichi:
appena
mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio
della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo
tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per essere
poeti bisogno di sussidio (p. 508)
Gli
antichi dunque non sono modelli da imitare ciecamente (come si diceva sopra),
ma sono gli educatori della nostra immaginazione, coloro che ci insegnano a
guardare la natura con gli occhi dell’immaginazione.
[1]
A questo riguardo basterà pensare, come esempio, alla differenza fra Ariosto e
Tasso: mentre del primo non abbiamo dichiarazioni esplicite di poetica (e però
possiamo facilmente dedurla dal Furioso),
il secondo ha accompagnato la stesura della Liberata
con una continua e faticosa elaborazione teorica su natura, struttura e
finalità del poema epico.
[2]
Che le idee dell’avversario (Di Breme) lo avessero profondamente colpito, si
deduce chiaramente da un contemporaneo commento nello Zibaldone: “Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 91 le Osservazioni di Ludovico Di Breme sopra la poesia moderna, o
romantica che la vogliamo chiamare, e perché ci ho veduto una serie di
ragionamenti che può imbrogliare e inquietare, e io per mia natura non sono
lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però avendo nella
mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e si debbono fare, per mia
quiete le scrivo”
[3]
Si trattava precisamente di una recensione in due puntate alla traduzione
italiana del Giaurro di Byron. Di
Breme polemizzava proprio con l’idea di poesia come imitazione della natura; il
poeta interpreta la natura (e una cosa è interpretarla come facevano gli
antichi, altra cosa interpretarla alla luce dell’ampliamento delle cognizioni
proprio dei moderni), anzi, gareggia con la natura nella stessa creazione.
Dunque la poesia moderna non può prescindere dal carattere riflessivo,
raziocinante, del proprio tempo, e trovare fondamento, più che
sull’immaginazione, sulla forza del sentimento.
[4]
Sarà utile a questo punto una breve digressione, e necessariamente schematica,
sul dibattito fra classici e romantici. Le idee romantiche erano arrivate in
Italia piuttosto in ritardo, rispetto alle elaborazioni teoriche di tedeschi ed
inglesi che risalgono agli ultimi anni del ‘700. Solo nel gennaio del 1816 la
pubblicazione sulla Biblioteca Italiana
dell’articolo di Madame de Stael “Sulla
maniera e sull’utilità delle traduzioni” aveva smosso le acque. La de Stael
in quell’ articolo sosteneva la necessità che gli italiani, invece di rimanere
fossilizzati nella propria tradizione letteraria, leggessero i moderni autori
stranieri (in specie, tedeschi), portatori di nuove forme e nuova sensibilità
poetica. In parole povere, la de Stael diceva agli italiani: c’è una poesia
moderna, aggiornatevi, siete vecchi, siete fuori dalla storia, mettetevi al
passo col nuovo che avanza. Ne seguì un intenso dibattito polemico: da una
parte coloro che condividevano l’esortazione della de Stael (i romantici: Di
Breme, appunto, Borsieri, Berchet, Pellico, ecc.), dall’altra coloro che
intendevano difendere la validità della tradizione letteraria italiana, fondata
sui modelli della classicità (i classicisti: Monti, Giordani).
[5]
Va ricordato che due anni prima, nel luglio del 1816, Leopardi aveva mandato alla
Biblioteca Italiana una lettera di
risposta all’articolo della de Stael (lettera mai pubblicata). In essa è
evidente l’ironia (anzi, il sarcasmo) nei confronti della presunzione che la
lettura degli stranieri possa dare nuovo vigore alla poesia italiana (“Apriamo
tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne’ nostri campi
le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i
poetuzzi italiani correranno in frotta a berne, e a diguazzarvi, e se
n’empieranno sino alla gola…”; quindi aggiungeva: “Leggiamo e consideriamo e
ruminiamo lungamente e maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini
e degli Italiani che han bellezze da
bastare ad alimentarci per lo spazio di tre vite se ne avessimo.”; e infine:
“ringrazio il cielo di cuore per avermi fatto Italiano…, e ciò non per il
potere d’Italia che niuno ne ha, né per il suo bel clima di cui poco mi cale,
né per le sue belle città di cui mi cale ancor meno, ma per lo ingegno degli
Italiani, e per la maniera della italiana letteratura che è di tutte le
letterature del mondo la più affine alla greca e alla latina, cioè a dire… alla
sola vera, perchè la sola naturale, e in tutto vota d’affettazione”)
[6]
Andrà notato che l’idea leopardiana delle società antiche è l’idea settecentesca
(riconducibile a Rousseau, a Herder, ecc.) di società primitive, ingenue,
“fanciulle” appunto, sostanzialmente felici nella loro innocenza, non corrotte
dall’incivilimento. Ma si tratta di una idealizzazione dell’antico
(storicamente infondata), smascherata già da Nietzsche con la scoperta del
dionisiaco come componente fondamentale dell’anima, e della cultura, greca.
[7]
A questa considerazione Leopardi fa seguire, come esempio, un appassionato
ricordo della propria fanciullezza e si dilunga a raccontare di come la sua
fantasia animasse gli elementi della natura (astri, piante, animali), li
personificasse, derivandone sentimenti di commozione, di piacere, di paura.
.
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