VI. Si deve concludere che
l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e
coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare
ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati
dall’autore-attore del Mistero buffo:
né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere
popolare del nostro testo. Ed anche: il fatto che i due protagonisti del
Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere
schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco “cortese”: “A lo letto ne gimo a la bon’ora”), nulla
dice sull’autore e sul pubblico destinario del componimento: non è certo
anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a
rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e
situazioni popolari.
La questione, piuttosto, andrà
affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà
riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci
sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi
piuttosto che per l’altra.
E’ vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto
come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli
abitanti di media condizione (secundum
quod prodit a terrigenis mediocribus[1]); ma cita non a caso il terzo
verso (“tragemi d’este focora, se t’este
a boluntate”), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due (“Rosa
fresca aulentissima, c’apari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell’ e
maritate”) erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.
Questa sorta di dualismo linguistico è
rintracciabile nell’intero componimento: parole ed espressioni che appartengono
alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi) si
mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza
realistica sia per i tratti marcatamente dialettali[2]; e qualcosa di simile si può
dire anche per il metro, sulla cui origine e natura - colta o popolare? - molto
si è discusso. Sono dati incontestabili, confermati dagli studi più recenti e
più accurati, ai quali rinvio[3].
A me piace far notare, a mo’ di
esempio, come l’amante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche
concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio
d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5
“madonna mia”, 65 “sovrana di meve te prese”), ad altre che
contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la
posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 “l’omo... l’ha in sua podesta”, 55 “besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino”).
Tale dualismo, secondo alcuni,
dimostrerebbe proprio la letterarietà del componimento, e quindi anche
l’appartenenza del poeta ad ambienti culturalmente e socialmente elevati:
costui conosce gli stilemi “cortesi”, padroneggia sapientemente la materia
poetica, e solo parodisticamente si compiace di usare volgarità di lingua e di
pensiero[4].
A me pare invece che altrettanto
fondatamente si possa sostenere il contrario: un “mestierante” di poesia, quale
era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi
della lirica aulica, e servirsene, in un contesto tutt’altro che aulico quale
quello del Contrasto, magari con intenzioni parodistiche.
O forse ha ragione Pagliaro che
riconosce, sì, la matrice giullaresca del componimento[5], ma ne individua il tono
dominante in una sorta di “medietas”
linguistica (e così si recupererebbe anche il significato di quel riferimento
di Dante ai “terrigenae mediocres”)
propria di un ceto socialmente e culturalmente intermedio fra l’aristocrazia
della corte e il popolo della piazza[6].
Questi, all’incirca, i termini
della questione. E prenderne atto con fatica e pazienza, dico ai ragazzi,
invece di tentare avventurose scorciatoie, è sempre il modo migliore per
avvicinarsi alla verità.
[2]Anche
se resta problematica l’individuazione precisa dell’area, sicuramente
meridionale, cui tale dialetto appartiene: si è pensato al pugliese (Vigo e
Caix), al campano (D’Ovidio) e, soprattutto, al siciliano (per Ugolini sarebbe
il dialetto di Scicli, in provincia di Ragusa; per Pagliaro, quello della
Sicilia nord-orientale).
[3]Per
gli aspetti linguistici mi riferisco, oltre alle opere già citate di A.
D’Ancona, F. D’Ovidio e V. De Bartholomaeis, a A. Monteverdi, Rosa
fresca aulentissimma... tragemi d’este focora, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli,
Milano-Napoli 1954; A. Pagliaro, Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in Saggi di critica semantica,
Messina-Firenze 1953; id., Il contrasto
di Cielo d’Alcamo, in Poesia
giullaresca e poesia popolare, Bari 1958.
Per le questioni relative
al metro si possono vedere A. Jeanroy,
La lirica francese in Italia nel periodo
delle origini, trad. it. Firenze, 1897; De
Bartholomaeis, Le origini della
poesia drammatica italiana, op. cit.; Ph. A. Becker, Rosa fresca aulentissima, in Volkstum
und Kultur der Romanen, VIII, 1935; W. Th. ELWERT, Appunti sul Contrasto di Cielo D’Alcamo, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXV, 1948.
[4]Così
intende, ad esempio, Monteverdi (Rosa
fresca aulentissima... tragemi d’este focora, op. cit.), il quale proprio
nella difficoltà di localizzare l’ambito geografico del dialetto in questione
riconosce il carattere, per così dire, letterario di tale dialetto, che
l’autore userebbe intenzionalmente e non perché fondo ineliminabile del suo
abituale modo di esprimersi.
[5]A
tale matrice rimanda, come già aveva notato De Bartholomaeis (Le origini della poesia drammatica italiana,
op. cit.), l’evidente carattere teatrale del testo (recitato o cantato che
fosse, secondo le diverse opinioni in merito di De Bartholomaeis e Pagliaro)
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