domenica 12 aprile 2015

"Rosa fresca aulentissima..." e l'equivoco di Dario Fo (III parte)


VI. Si deve concludere che l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati dall’autore-attore del Mistero buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere popolare del nostro testo. Ed anche: il fatto che i due protagonisti del Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco “cortese”: “A lo letto ne gimo a la bon’ora”), nulla dice sull’autore e sul pubblico destinario del componimento: non è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e situazioni popolari.

La questione, piuttosto, andrà affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per l’altra.

E’ vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione (secundum quod prodit a terrigenis mediocribus[1]); ma cita non a caso il terzo verso (“tragemi d’este focora, se t’este a boluntate”), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due  (“Rosa fresca aulentissima, c’apari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell’ e maritate”) erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.

 Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nell’intero componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi) si mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza realistica sia per i tratti marcatamente dialettali[2]; e qualcosa di simile si può dire anche per il metro, sulla cui origine e natura - colta o popolare? - molto si è discusso. Sono dati incontestabili, confermati dagli studi più recenti e più accurati, ai quali rinvio[3].

A me piace far notare, a mo’ di esempio, come l’amante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5 “madonna mia”, 65 “sovrana di meve te prese”), ad altre che contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 “l’omo... l’ha in sua podesta”, 55 “besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino”).

Tale dualismo, secondo alcuni, dimostrerebbe proprio la letterarietà del componimento, e quindi anche l’appartenenza del poeta ad ambienti culturalmente e socialmente elevati: costui conosce gli stilemi “cortesi”, padroneggia sapientemente la materia poetica, e solo parodisticamente si compiace di usare volgarità di lingua e di pensiero[4].

A me pare invece che altrettanto fondatamente si possa sostenere il contrario: un “mestierante” di poesia, quale era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica, e servirsene, in un contesto tutt’altro che aulico quale quello del Contrasto, magari con intenzioni parodistiche.

O forse ha ragione Pagliaro che riconosce, sì, la matrice giullaresca del componimento[5], ma ne individua il tono dominante in una sorta di “medietas” linguistica (e così si recupererebbe anche il significato di quel riferimento di Dante ai “terrigenae mediocres”) propria di un ceto socialmente e culturalmente intermedio fra l’aristocrazia della corte e il popolo della piazza[6].

Questi, all’incirca, i termini della questione. E prenderne atto con fatica e pazienza, dico ai ragazzi, invece di tentare avventurose scorciatoie, è sempre il modo migliore per avvicinarsi alla verità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




[1]De vulgari eloquentia, I, xii, 6.
[2]Anche se resta problematica l’individuazione precisa dell’area, sicuramente meridionale, cui tale dialetto appartiene: si è pensato al pugliese (Vigo e Caix), al campano (D’Ovidio) e, soprattutto, al siciliano (per Ugolini sarebbe il dialetto di Scicli, in provincia di Ragusa; per Pagliaro, quello della Sicilia nord-orientale).
[3]Per gli aspetti linguistici mi riferisco, oltre alle opere già citate di A. D’Ancona, F. D’Ovidio e V. De Bartholomaeis, a A. Monteverdi, Rosa fresca aulentissimma... tragemi d’este focora, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954; A. Pagliaro, Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1953; id., Il contrasto di Cielo d’Alcamo, in Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958.
Per le questioni relative al metro si possono vedere A. Jeanroy, La lirica francese in Italia nel periodo delle origini, trad. it. Firenze, 1897; De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica italiana, op. cit.; Ph. A. Becker, Rosa fresca aulentissima, in Volkstum und Kultur der Romanen, VIII, 1935; W. Th. ELWERT, Appunti sul Contrasto di Cielo D’Alcamo, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXV, 1948.
[4]Così intende, ad esempio, Monteverdi (Rosa fresca aulentissima... tragemi d’este focora, op. cit.), il quale proprio nella difficoltà di localizzare l’ambito geografico del dialetto in questione riconosce il carattere, per così dire, letterario di tale dialetto, che l’autore userebbe intenzionalmente e non perché fondo ineliminabile del suo abituale modo di esprimersi.
[5]A tale matrice rimanda, come già aveva notato De Bartholomaeis (Le origini della poesia drammatica italiana, op. cit.), l’evidente carattere teatrale del testo (recitato o cantato che fosse, secondo le diverse opinioni in merito di De Bartholomaeis e Pagliaro)
[6]A. PAGLIARO, Poesia giullaresca e poesia popolare, op. cit., pp. 202-207.

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