VI. Colpisce, a questo punto, la
somiglianza fra queste riflessioni di Leopardi e quelle che, quasi
contemporaneamente, Schopenhauer veniva formulando nel suo Die Welt als Wille und Vorstellung. Si tratta, come è noto, di una
somiglianza già rilevata in un saggio memorabile da De Sanctis, il quale per
altro, avendo dello Zibaldone una
conoscenza limitata, non poteva avvertire di quella somiglianza tutte le
dettagliate articolazioni.
La “volontà di vivere” (Wille zum Leben) di Schopenhauer,
inesauribile ed incolmabile nel suo “aspirare” (Streben) senza fine, ricorda
quell’“amor proprio”, che alimenta il desiderio perennemente insoddisfatto, di
cui parla Leopardi; parimenti, anche per Schopenhauer tutto ciò che vive è in
condizioni di sofferenza, secondo una scala che conduce dalle forme inferiori
di vita a quelle superiori:
Ogni aspirare
proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il
principio di una nuova aspirazione... Non ha termine l’aspirare, non ha dunque
misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione
scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente,
nella vita animale, il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza
indugiare in questo grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa
conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita
dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così
diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora
sensibilità, e quindi punto dolore; un grado certamente tenue di sofferenza è
insito negli animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la
capacità di sentire e di soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema
nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto
più l’intelligenza si sviluppa...[1]
Già vedemmo la
natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare,
senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione
considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro,
affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno,
mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura...[2]
Simile, in Leopardi e
Schopenhauer, è anche l’idea, logicamente conseguente, secondo cui fra gli
individui umani la capacità di soffrire è direttamente proporzionale
all’intelligenza[3]; ed ancora, simile è la
concezione della noia come sentimento di una mancanza non appagabile da alcun
bene determinato, e quindi come sintomo, più propriamente umano, del “male di
vivere”[4].
La conclusione, anche per
Schopenhauer, ci rimanda alla sapienza silenica. Se il “peccato originale” è
l’esistenza di per sé (la forma fenomenica nella quale la volontà si è
determinata, secondo il principium
individuationis), se è vero che, come dice il “poeta veggente” Calderón de
la Barca, il delitto maggiore dell’uomo è l’essere nato (el delito mayor del hombre es haber nacido)[5], se ne deve concludere che “non
essere, essere nulla” sia la condizione migliore:
E forse non si darà
mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e
in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri
sceglierà il completo non essere. [6]
Ed è la stessa conclusione, è
ancora Schopenhauer a ricordarcelo, cui giunge Amleto nel celeberrimo monologo:
not to be è senz’altro lo stato
preferibile e desiderabilissimo (a
consummation devoutly to be wish’d). Ed Amleto
si trattiene dal suicidio solo perché teme che nemmeno la morte comporti
l’annientamento totale (the dread of
something after death /.... puzzles th will / and makes us rather bear the ills
we have / than fly to others that we know not of )[7].
Ma il suicidio, si sa, non è una
scelta accettabile, né per Leopardi, né per Schopenhauer, apparentemente per
ragioni diverse, sostanzialmente per la stessa. Il filosofo tedesco ritiene che
il suicidio sia, paradossalmente, niente altro che un’estrema manifestazione di
quella stessa volontà di vivere che si vorrebbe negare. Il poeta italiano ne
parla, per bocca di Plotino, come di un atto estremo di egoismo, di amor proprio
(ma l’“amor proprio” in Leopardi, abbiamo visto, sembra essere l’equivalente
della “volontà” in Schopenhauer), un atto che non tiene in alcun conto il
dolore “dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni”. E’ invece da percorrersi - continua Plotino,
ma gli stessi accenti risuonano nella Ginestra
- la strada della solidarietà, dell’aiuto reciproco fra uomini che si
riconoscono partecipi della stessa miseria. E la solidarietà è anche per
Schopenhauer la scelta giusta e necessaria di chi ha visto nell’altro da sé il
ripetersi del suo stesso destino: è il primo atto di chi ha cominciato a
rifiutare di lasciarsi determinare dalla cieca
“volontà di vivere”, il primo atto in un processo che contempla, come
suo compimento, l’annullamento totale della volontà nella scelta dell’ascesi.
VII. E dunque, il cosiddetto
“pessimismo cosmico” di Leopardi viene da lontano: né la sua particolare
biografia, né – con buona pace di Luporini - la “delusione storica” patita
dalla sua generazione[8] possono spiegare appieno un
pensiero che ha radici tanto profonde.
E’ un pensiero che emerge più
volte, ancorché occasionalmente, nella cultura occidentale, trova una
organizzazione sistematica con Leopardi e Schopenhauer, persiste oltre di loro.
Basti pensare a Carlo Michelstaedter, il pensatore goriziano degli inizi del
Novecento, che fa esplicito riferimento a Leopardi e Schopenhauer e che sembra
evocare, ancora una volta, la sapienza silenica, nel momento in cui oppone,
alle falsificazioni della “rettorica”, la verità della “persuasione”[9].
Ma il Sileno non ha bisogno di
sistemi filosofici per far sentire la sua voce. E a me piace ricordare, per
concludere, il più “intellettuale” dei personaggi verghiani, Rosso Malpelo, il
quale così ammaestra Ranocchio presso la discarica ove giace la carcassa del grigio :
Gliele vedi quelle
costole al grigio? Adesso non soffre più. (...) Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle
guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per
andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: - Non più! Non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso
se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta
denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. [10]
Marcello TARTAGLIA
ordinario di Italiano e Latino
presso il Liceo Scientifico “E. Fermi”
di Bologna
Articolo
pubblicato su “Cultura e scuola”
Anno
XXXIV, n. 135-136 (luglio-dicembre 1995)
[1]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. Bari 1984 [1928], p. 409-410.
[2]A. Schopenhauer, ibidem, p. 411-412.
[3]Così
Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno
sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi
i meno infelici degli stati umani.” (Zib.,
4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio
costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano
mai sentire i più ottusi..” (Die Welt...,
op. cit., p. 414).
[4]Così
Schopenhauer: “Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera
tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione:
in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue
monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto
contro il bisogno.” (Die Welt..., op.
cit., p. 414). In Leopardi, come si sa, è un pensiero ampiamente diffuso;
basterà ricordarne la formulazione nei Pensieri
: “... immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e
sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì
fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire
mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di
nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini
di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Pensieri, LXVIII; cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, II, Milano 1968 [1940], p. 42).
[9]
Mi riferisco alla sua opera più significativa, La persuasione e la rettorica, laddove Michelstaedter, per spiegare
lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta, sviluppa, con grande efficacia,
un esempio tratto da Schopenhauer: quello del peso che, in quanto tale, ha
sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe
quello che è, cioè un peso (cfr. A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 176 e 408; e C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano
1982, pp. 39-40).
Interessante, sarebbe da approfondire il rapporto di Michelstaedter con Leopardi
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