1) A ben guardare, con questa
unificazione si supera quel dualismo che aveva caratterizzato una certa fase
del pensiero leopardiano (rilevato da Timpanaro, v. sopra, punto 14), secondo
cui ad una natura benefica si contrapponeva una malefica volontà divina (o del
fato): nella figura di Arimane malvagità della natura e degli dei si
identificano.[1] E comunque questa
personificazione della natura in una divinità malvagia non è più di una
allegoria, perché, per il materialista L., la natura resta sempre un meccanismo
incosciente e non intenzionalmente finalizzato. Lo dice già la stessa natura
all’Islandese:
Or sappi che nelle fatture, negli
ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho
l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o alla infelicità.
Ma è una verità che si ritrova anche nelle ultime
opere; nel canto Sopra un bassorilievo antico sepolcrale:
Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o
nostro ben si cura (vv. 107-109)
Nei Paralipomeni, dopo averla chiamata
“capital carnefice e nemica” dei suoi figli, si corregge:
piuttosto ad ogni fin rivolta, / che al nostro che diciamo o
bene o male; / e confessar che de’ suoi fini è tolta / la vista al riguardar
nostro mortale, / anzi il saper se non da fini sciolta / sia veramente… (strofa
13)
2) Quanto al pensiero di L.
sulla ragione, si può vedere, corrispondentemente allo sviluppo del suo
pensiero sulla natura, un rovesciamento di posizione, dal punto di vista
iniziale (quando la ragione viene vista come la causa della fine dell’età
felice – infanzia dell’individuo e infanzia dell’umanità – in quanto
apportatrice di quella conoscenza del vero che distrugge senza rimedio il mondo
delle piacevoli immaginazioni: vedi Ad Angelo Mai, ma vedi anche le
pagine dello Zibaldone, già citate, in cui si interpretano la favola di
Psiche e il mito biblico della genesi) al punto di vista finale (quando viene
vista come l’unico valore cui fare riferimento, in un’età, quella
contemporanea, in cui l’umanità preferisce consolarsi con favole religiose o
laico-progressiste: vedi il percorso dalla Palinodia alla Ginestra)
3) Se si vuole individuare il
passaggio intermedio che conduce a questo approdo, si può far riferimento
all’anti-platonismo di L., o meglio, allo sviluppo (anche in questo caso, fino
a un rovesciamento) dell’atteggiamento di Leopardi nei confronti di Platone. Si
tratta di questo: il romanticismo, in un clima di recupero della religiosità,
privilegiava Platone come filosofo antimaterialista e spiritualista (e quindi
da valorizzare contro il materialismo e l’ateismo diffusi). E Carlo Antici
aveva esortato Leopardi a tradurre i Dialoghi in questa prospettiva. Ma
Leopardi non aveva mai amato Platone, appunto perché misticheggiante e
irrazionale[2]. Insomma, quando L.
polemizza con Platone, lo fa in nome del valore della ragione: già nel novembre
del ’20 contrapponeva la filosofia scientifica di Aristotele, fondata sul vero
e sull’esperienza, alla “filosofia artistica” di Platone; diceva, parlando di
Teofrasto:
“Il sapere… egli non lo faceva
servire, come Platone, all’immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul
brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere
delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza” (Zib. 351).
Ma tale antiplatonismo trova la sua più chiara
espressione in un pensiero del 17/10/26 (Zib. 4219-22), laddove L. riporta e
commenta un passo della Vita di Isidoro (neoplatonico del V sec. d. C.)
di Damascio (neoplatonico del VI sec.); dopo aver detto che il misticismo
irrazionale di Isidoro gli pare ridicolo e peraltro simile al misticismo
irrazionale dei tempi presenti che svaluta la ragione ed esalta il sentimento,
aggiunge:
“che altro è questo sentimento,
questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni… che ci si dà per il
principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba subordinare ogni altro
mezzo compresa la ragione…?… Pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così
posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o
sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione… deprimere e
condannare Aristotele, appunto perché seguace tou anankàiou, cioè dei metodi
esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principi
incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone,
Pitagora, ec., perché non ragionatori, perché pistèuontas al libero sentimento,
all’immaginario, che Isidoro chiama divino”.
4) Si potrà obiettare che qui
si parla di filosofia e che quindi è ovvio che si faccia riferimento alla
ragione (che è la facoltà per conoscere il vero) e si deplori l’uso di ogni
altra facoltà non razionale (il sentimento, l’immaginazione). Ma non si
dimentichi che L. aveva esaltato la superiorità, anche conoscitiva,
dell’immaginazione poetica sulla fredda razionalità scientifico-filosofica. E
si avverte pienamente il cambiamento di pensiero in L. se si confronta il passo
sopra citato con il seguente, del 22/8/23, a conclusione del quale elogiava
proprio Platone (in quanto filosofo-poeta, dotato di immaginazione e cuore)
quel Platone che, per la stessa ragione, nel sopra citato passo del 26 viene
trattato in modo così sprezzante:
“Chiunque esamina la natura delle
cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione, né del sentimento,
né dar loro alcun luogo… potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè
risolvere e disfare la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’
non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e
generale conseguenza…”
Insomma, continua, potrà conoscere le singole parti
della natura, ma gli sfuggiranno sempre l’insieme, i rapporti fra le parti, le
finalità; gli sfuggirà sempre la poeticità della natura, che, della natura, è
la verità più profonda; quindi
“tutto ciò ch’è poetico si sente
piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si
conosce e s’intende, né altrimenti può essere conosciuto, scoperto ed inteso,
che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno.
Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le
sopraddette cose… e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico
ch’è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molto più atte e
potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome
alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire, e quindi il conoscere
ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il
penetrare ne’ grandi misteri… della natura… Finalmente la sola
immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse, o la ragione non altrimenti
che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato
le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali verità
filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti,
intimi misteri che si conoscano della natura delle cose.” (3238-45).
5) Fondamentale è anche la
rivalutazione della civiltà moderna intesa come un risorgimento dalla barbarie
medievale; lo strumento di liberazione è stato il pensiero filosofico e
scientifico, a partire dal Rinascimento fino al secolo dei lumi: quest’ultimo,
quindi, non l’antichità, diventa il termine di riferimento per misurare la
decadenza del presente. Si veda l’elogio del metodo scientifico di Newton, in
opposizione all’”arbitrarietà” degli antichi (4/4/24):
… gli spiriti e nella fisica e
nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero… si sono volti all’esame fondato
dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e
alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione,
all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrari, tanto del gusto de’ secoli
antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e
si spegnevano, e succedevansi e distruggansi l’un l’altro (4057).
E ancora, nel Discorso sopra lo stato presente
del costume degl’Italiani (marzo del
24), in polemica con Chateaubriand, pur mantenendo l’antichità come termine di
confronto irrinunciabile, indica il Medioevo come momento estremo di decadenza
da cui si è risorti[3]:
E’ un falsissimo modo di vedere
quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo
stato antico… Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi, non dallo
stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e
propagandosi, non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e
orribili corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel
Quattrocento in Europa, ma rinacque…Il grande e incontrastabile beneficio della
rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello
stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi,
cioè di tempi correttissimi… Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna;
da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando
sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e
dalle opinioni che li favoriscono procura e sforzasi di liberarci la nuova
filosofia, nata, si può dire, non ancor sono due secoli…
6) Ma la valorizzazione della
ragione da parte di L. si intravede anche se si segue l’evoluzione del suo
pensiero sul cristianesimo. Di questo si dice non solo che è stato negativo per
l’umanità perché ha insegnato il disprezzo del mondo e del corpo (1426-27,
13/9/21, 2/2/22), ma anche che, dopo secoli di dominio incontrastato, da un
secolo e mezzo a questa parte è stato soppiantato – e per sempre – dalla
filosofia dei lumi: è il 7/8/21, e per Leopardi è ancora valido il sistema
fondato sull’opposizione natura-ragione, ma già riconosce la positività di
quella ragione che ha demolito le false credenze religiose.
7) Dunque, cambia il pensiero
di L. sulla ragione e l’ultimo canto, la Ginestra, è la celebrazione
della ragione come unico valore a cui appigliarsi dopo la strage delle
illusioni, unica bussola nel deserto della vita. Ed è proprio la ragione
settecentesca, la ragione illuminista nel senso etimologico, se solo si guarda
a quell’epigrafe evangelica (vangelo di Giovanni) con cui si apre il
componimento: un’epigrafe in cui i termini “luce” e “tenebra” hanno perso i
connotati religiosi originari per acquisire quelli settecenteschi di “luce
rischiarante della ragione” e “tenebra dell’ignoranza e della superstizione”.
Del resto, la polemica contro lo spiritualismo dell’età contemporanea, contro
il ritorno di fideismi consolatori, e la rivendicazione della superiorità
dell’età precedente, quella settecentesca (che aveva avuto il coraggio di
guardare in faccia la verità con la luce della ragione), sono evidenti non solo
nella Ginestra:
Qui mira e qui ti specchia, /
secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier
segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti
vanti, / e procedere il chiami… Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e
del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo / vigliaccamente
rivolgesti al lume / che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli / vil chi lui
segue.. (vv. 52-58, 78-83)
ma in tutta la fase finale della produzione poetica
leopardiana (la fase dei canti “fiorentini” e “napoletani”, ovvero della
“poesia eroica”, secondo la definizione di Binni), caratterizzata dalla
polemica politica e culturale nei confronti dei moderati toscani (i
cattolici-liberali) che si riunivano attorno all’Antologia. Si vedano, ad
esempio, le ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni, dove è
presente la stessa irridente polemica contro i fideismi consolatori che
caratterizza la Ginestra:
In quell’età (e intende quella
settecentesca), d’un aspra guerra in onta / altra filosofia regnar fu
vista, / a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrassi appena
avvista / di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in sostanza
amara e trista (strofa 16)
8) Infine, l’intera Ginestra
non è altro che una celebrazione del dovere di non rinunciare a quella
conoscenza della verità della condizione umana che la ragione, dalla sua
rinascita al Settecento, ha palesato (v. in particolare la seconda strofa). Ma
la ragione, scientifica e filosofica, che viene valorizzato non è quella che
fonda la moderna società industriale e tecnologica (la cui negatività è
denunciata esemplarmente nella Palinodia), bensì quella laica che
demistifica l’ideologia del progresso e consente la possibilità di una società,
se non “buona” (che non può esistere), almeno meno “cattiva”[4]:
Così fatti pensieri / quando fien,
come fur, palesi al volgo, / e quell’orror che primo / contra l’empia natura /
strinse i mortali in social catena, / fia ricondotto in parte / da verace
saper, l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade,
altra radice / avranno allor che non superbe fole/ (vv. 145-154)
E la stessa ginestra è allo stesso tempo simbolo
della poesia (il suo profumo “il deserto consola”) e della ragione (in quanto,
più saggia dell’uomo, priva di “fetido orgoglio”, umile ma tenace, conosce e
non si nasconde il destino che l’aspetta).
[1]
Lo fa notare Angiola Ferrarsi, L’ultimo Leopardi, p.38-39.
[2]
Non fa testo la lettera al Bunsen del 3/8/25, perché si tratta di una “lettera
insincera” (Timpanaro, p. 283)
[3]
In questo sarà anche da vedere una polemica contro il cristianesimo,
responsabile della mortificazione del corpo (S. Paolo: castigo corpus meum et
in servitutem redigo), e quindi della decadenza (Io riguardo l’indebolimento
corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran
mangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno, p.
163, 11/7/20)
[4]
E’ l’espressione usata nella lettera al Giordani del 29/7/28: “Io tengo (e non
a caso) che la società umana abbia principi ingeniti e necessari
d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa
essere buono.”
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