mercoledì 8 aprile 2015

Natura e ragione in Leopardi (III parte)


1)    A ben guardare, con questa unificazione si supera quel dualismo che aveva caratterizzato una certa fase del pensiero leopardiano (rilevato da Timpanaro, v. sopra, punto 14), secondo cui ad una natura benefica si contrapponeva una malefica volontà divina (o del fato): nella figura di Arimane malvagità della natura e degli dei si identificano.[1] E comunque questa personificazione della natura in una divinità malvagia non è più di una allegoria, perché, per il materialista L., la natura resta sempre un meccanismo incosciente e non intenzionalmente finalizzato. Lo dice già la stessa natura all’Islandese:

Or sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o alla infelicità.

Ma è una verità che si ritrova anche nelle ultime opere; nel canto Sopra un bassorilievo antico sepolcrale:

Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura (vv. 107-109)

Nei Paralipomeni, dopo averla chiamata “capital carnefice e nemica” dei suoi figli, si corregge:

piuttosto ad ogni fin rivolta, / che al nostro che diciamo o bene o male; / e confessar che de’ suoi fini è tolta / la vista al riguardar nostro mortale, / anzi il saper se non da fini sciolta / sia veramente… (strofa 13)

2)    Quanto al pensiero di L. sulla ragione, si può vedere, corrispondentemente allo sviluppo del suo pensiero sulla natura, un rovesciamento di posizione, dal punto di vista iniziale (quando la ragione viene vista come la causa della fine dell’età felice – infanzia dell’individuo e infanzia dell’umanità – in quanto apportatrice di quella conoscenza del vero che distrugge senza rimedio il mondo delle piacevoli immaginazioni: vedi Ad Angelo Mai, ma vedi anche le pagine dello Zibaldone, già citate, in cui si interpretano la favola di Psiche e il mito biblico della genesi) al punto di vista finale (quando viene vista come l’unico valore cui fare riferimento, in un’età, quella contemporanea, in cui l’umanità preferisce consolarsi con favole religiose o laico-progressiste: vedi il percorso dalla Palinodia alla Ginestra)

3)    Se si vuole individuare il passaggio intermedio che conduce a questo approdo, si può far riferimento all’anti-platonismo di L., o meglio, allo sviluppo (anche in questo caso, fino a un rovesciamento) dell’atteggiamento di Leopardi nei confronti di Platone. Si tratta di questo: il romanticismo, in un clima di recupero della religiosità, privilegiava Platone come filosofo antimaterialista e spiritualista (e quindi da valorizzare contro il materialismo e l’ateismo diffusi). E Carlo Antici aveva esortato Leopardi a tradurre i Dialoghi in questa prospettiva. Ma Leopardi non aveva mai amato Platone, appunto perché misticheggiante e irrazionale[2]. Insomma, quando L. polemizza con Platone, lo fa in nome del valore della ragione: già nel novembre del ’20 contrapponeva la filosofia scientifica di Aristotele, fondata sul vero e sull’esperienza, alla “filosofia artistica” di Platone; diceva, parlando di Teofrasto:

“Il sapere… egli non lo faceva servire, come Platone, all’immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza” (Zib. 351).

Ma tale antiplatonismo trova la sua più chiara espressione in un pensiero del 17/10/26 (Zib. 4219-22), laddove L. riporta e commenta un passo della Vita di Isidoro (neoplatonico del V sec. d. C.) di Damascio (neoplatonico del VI sec.); dopo aver detto che il misticismo irrazionale di Isidoro gli pare ridicolo e peraltro simile al misticismo irrazionale dei tempi presenti che svaluta la ragione ed esalta il sentimento, aggiunge:

“che altro è questo sentimento, questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni… che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba subordinare ogni altro mezzo compresa la ragione…?… Pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione… deprimere e condannare Aristotele, appunto perché seguace tou anankàiou, cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principi incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone, Pitagora, ec., perché non ragionatori, perché pistèuontas al libero sentimento, all’immaginario, che Isidoro chiama divino”. 

4)    Si potrà obiettare che qui si parla di filosofia e che quindi è ovvio che si faccia riferimento alla ragione (che è la facoltà per conoscere il vero) e si deplori l’uso di ogni altra facoltà non razionale (il sentimento, l’immaginazione). Ma non si dimentichi che L. aveva esaltato la superiorità, anche conoscitiva, dell’immaginazione poetica sulla fredda razionalità scientifico-filosofica. E si avverte pienamente il cambiamento di pensiero in L. se si confronta il passo sopra citato con il seguente, del 22/8/23, a conclusione del quale elogiava proprio Platone (in quanto filosofo-poeta, dotato di immaginazione e cuore) quel Platone che, per la stessa ragione, nel sopra citato passo del 26 viene trattato in modo così sprezzante:

“Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione, né del sentimento, né dar loro alcun luogo… potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfare la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza…”

Insomma, continua, potrà conoscere le singole parti della natura, ma gli sfuggiranno sempre l’insieme, i rapporti fra le parti, le finalità; gli sfuggirà sempre la poeticità della natura, che, della natura, è la verità più profonda; quindi

“tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, né altrimenti può essere conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose… e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molto più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire, e quindi il conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare ne’ grandi misteri… della natura… Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse, o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano della natura delle cose.” (3238-45).

5)    Fondamentale è anche la rivalutazione della civiltà moderna intesa come un risorgimento dalla barbarie medievale; lo strumento di liberazione è stato il pensiero filosofico e scientifico, a partire dal Rinascimento fino al secolo dei lumi: quest’ultimo, quindi, non l’antichità, diventa il termine di riferimento per misurare la decadenza del presente. Si veda l’elogio del metodo scientifico di Newton, in opposizione all’”arbitrarietà” degli antichi (4/4/24):

… gli spiriti e nella fisica e nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero… si sono volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione, all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrari, tanto del gusto de’ secoli antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e si spegnevano, e succedevansi e distruggansi l’un l’altro (4057).

E ancora, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani  (marzo del 24), in polemica con Chateaubriand, pur mantenendo l’antichità come termine di confronto irrinunciabile, indica il Medioevo come momento estremo di decadenza da cui si è risorti[3]:
E’ un falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico… Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi, non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi, non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribili corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel Quattrocento in Europa, ma rinacque…Il grande e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi correttissimi… Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono procura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia, nata, si può dire, non ancor sono due secoli… 

6)    Ma la valorizzazione della ragione da parte di L. si intravede anche se si segue l’evoluzione del suo pensiero sul cristianesimo. Di questo si dice non solo che è stato negativo per l’umanità perché ha insegnato il disprezzo del mondo e del corpo (1426-27, 13/9/21, 2/2/22), ma anche che, dopo secoli di dominio incontrastato, da un secolo e mezzo a questa parte è stato soppiantato – e per sempre – dalla filosofia dei lumi: è il 7/8/21, e per Leopardi è ancora valido il sistema fondato sull’opposizione natura-ragione, ma già riconosce la positività di quella ragione che ha demolito le false credenze religiose.

7)    Dunque, cambia il pensiero di L. sulla ragione e l’ultimo canto, la Ginestra, è la celebrazione della ragione come unico valore a cui appigliarsi dopo la strage delle illusioni, unica bussola nel deserto della vita. Ed è proprio la ragione settecentesca, la ragione illuminista nel senso etimologico, se solo si guarda a quell’epigrafe evangelica (vangelo di Giovanni) con cui si apre il componimento: un’epigrafe in cui i termini “luce” e “tenebra” hanno perso i connotati religiosi originari per acquisire quelli settecenteschi di “luce rischiarante della ragione” e “tenebra dell’ignoranza e della superstizione”. Del resto, la polemica contro lo spiritualismo dell’età contemporanea, contro il ritorno di fideismi consolatori, e la rivendicazione della superiorità dell’età precedente, quella settecentesca (che aveva avuto il coraggio di guardare in faccia la verità con la luce della ragione), sono evidenti non solo nella Ginestra:

Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami… Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli / vil chi lui segue.. (vv. 52-58, 78-83)

ma in tutta la fase finale della produzione poetica leopardiana (la fase dei canti “fiorentini” e “napoletani”, ovvero della “poesia eroica”, secondo la definizione di Binni), caratterizzata dalla polemica politica e culturale nei confronti dei moderati toscani (i cattolici-liberali) che si riunivano attorno all’Antologia. Si vedano, ad esempio, le ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni, dove è presente la stessa irridente polemica contro i fideismi consolatori che caratterizza la Ginestra:

In quell’età (e intende quella settecentesca), d’un aspra guerra in onta / altra filosofia regnar fu vista, / a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrassi appena avvista / di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in sostanza amara e trista (strofa 16) 

8)    Infine, l’intera Ginestra non è altro che una celebrazione del dovere di non rinunciare a quella conoscenza della verità della condizione umana che la ragione, dalla sua rinascita al Settecento, ha palesato (v. in particolare la seconda strofa). Ma la ragione, scientifica e filosofica, che viene valorizzato non è quella che fonda la moderna società industriale e tecnologica (la cui negatività è denunciata esemplarmente nella Palinodia), bensì quella laica che demistifica l’ideologia del progresso e consente la possibilità di una società, se non “buona” (che non può esistere), almeno meno “cattiva”[4]:

Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo, / e quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena, / fia ricondotto in parte / da verace saper, l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade, altra radice / avranno allor che non superbe fole/ (vv. 145-154)

E la stessa ginestra è allo stesso tempo simbolo della poesia (il suo profumo “il deserto consola”) e della ragione (in quanto, più saggia dell’uomo, priva di “fetido orgoglio”, umile ma tenace, conosce e non si nasconde il destino che l’aspetta).
 




[1] Lo fa notare Angiola Ferrarsi, L’ultimo Leopardi, p.38-39.
[2] Non fa testo la lettera al Bunsen del 3/8/25, perché si tratta di una “lettera insincera” (Timpanaro, p. 283)
[3] In questo sarà anche da vedere una polemica contro il cristianesimo, responsabile della mortificazione del corpo (S. Paolo: castigo corpus meum et in servitutem redigo), e quindi della decadenza (Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran mangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno, p. 163, 11/7/20)
[4] E’ l’espressione usata nella lettera al Giordani del 29/7/28: “Io tengo (e non a caso) che la società umana abbia principi ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa essere buono.”

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