II. Svevo: l’inetto
Leopardi non
figura nell’elenco degli autori che Svevo, nel Profilo autobiografico, indica come significativi per la sua
formazione. E tuttavia è difficile non riconoscere nelle idee sopra esposte una
sorta di diagnosi ante litteram della
malattia patita dai protagonisti dei romanzi dello scrittore triestino. Che si
tratti della “inettitudine” di Alfonso, della “senilità” di Emilio o della
“malattia” di Zeno,[1]
la condizione che accomuna i tre personaggi, al di là delle differenze che
ovviamente esistono, sembra essere quella della inadeguatezza alla vita
pratica; inadeguatezza determinata da un eccesso di pensiero (una ipertrofia
della coscienza) che inibisce (paralizza) la capacità di decidere e di agire. E
per loro sembrano appropriati anche i corollari conseguenti cui fa riferimento
Leopardi: l’inadatto alla vita pratica (l’inetto) è anche goffo fino al
ridicolo nei rapporti interpersonali; gli “adatti”, al contrario, oltre che
capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo
sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità
intellettuale.
In Una vita c’è un passo interessante, che
consente di mettere meglio a fuoco questa affinità di pensiero fra Svevo e
Leopardi. Si tratta del discorso con cui Macario (l’antagonista di Alfonso)
intende dare una lezione di vita all’amico-nemico. I due stanno rientrando in
porto dopo una gita in cutter, durante la quale Macario ha già avuto
modo di mostrare la sua perizia e sicurezza a fronte del disagio, psichico e
fisico, di Alfonso. Attorno alla barca volano gabbiani, che ogni tanto si
precipitano rapidissimi in mare, ad afferrare la preda. Macario invita Alfonso
ad osservarli, quindi così “filosofeggia”:
– Fatti proprio per pescare e per mangiare. Quanto poco cervello
occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che
cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce
che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco,
l’appetito formidabile, per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così
dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar
pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere
inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più.
Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà
giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà
imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per
afferrare o anche inabili a tenere.[2]
È evidente che
Macario contrappone, servendosi dell’esempio del gabbiano, due tipi umani:
l’adatto a vivere (al quale, per afferrare la preda, non occorre cervello) e
l’inetto (il quale, invece, non sa afferrare la preda e passa la vita a nutrire un essere inutile, il cervello
appunto). Davanti a tanta sicurezza, Alfonso si ritrae intimidito, anzi peggio,
con una domanda quanto mai ingenua (“E io ho le ali?”), presta il fianco alla battuta conclusiva e liquidatoria di
Macario (“Per fare dei voli pindarici, sì”).
E certo, il “letterato ozioso” (così viene chiamato
Emilio in Senilità), che coltiva
l’immaginazione e il sentimento, la fantasia e l’intelletto (“nutre” il cervello, come dice Macario),
sempre fuori fase rispetto alla realtà, non può che apparire un ridicolo
sognatore all’uomo di successo, orgogliosamente privo di cervello (entità “da negligersi”), ma ben dotato delle
qualità necessarie per afferrare la preda: e sono, queste ultime, qualità quasi
animalesche (lo dice già il paragone con il gabbiano) che hanno a che fare con
la rapidità di decisione e la spietatezza di esecuzione; qualità rispetto a cui
il cervello è di ostacolo, in quanto, implicando la facoltà di concepire il
possibile, immaginare l’alternativa, pensare l’inesistente, rallenta l’azione
fino a bloccarla.
Ma ciò che
nella filosofia di Macario appare come il negativo, è proprio il positivo indicato
da Leopardi. Quel cervello “essere
inutile”, di cui parla Macario, è la stessa grande anima di cui Leopardi
dice che, “soverchiata dalla grandezza delle proprie facoltà”,
“per l’abito di riflettere e la profondità dell’indole”, si rivela d’impaccio quando si
tratta di decidere e di agire. E poiché il cervello–anima è proprio ciò che
distingue – privilegio e maledizione – l’uomo dagli animali bruti, rinunciarvi
vorrebbe dire rinunciare alla essenza dell’umanità. Da questo punto di vista,
l’inetto sveviano perde ogni connotazione negativa per acquisire quella
positiva, anzi titanica, dell’uomo che, a prezzo di una diversità che lo
emargina dal consorzio civile, ma anche lo distingue dalla massa dei mediocri,
non rinuncia al pensiero, ovvero non rinuncia all’essenza del proprio essere
uomo.
Del resto, se
leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo
e la teoria darwiniana e La
corruzione dell’anima[3]
non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a
vivere l’uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità
dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo perde l’anima
(e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel momento in cui
adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere che
conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio perché
non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo
dell’infelicità (è “torvo e malcontento”),
mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad
affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto
della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente cristallizzato”, “non accorgendosi di aver perduto la vera
vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di
valore).
Ne consegue
paradossalmente che, rovesciando l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella
lotta per la sopravvivenza è l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè
l’uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus,
ovvero “non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità
sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale,
perché si conclude che l’uomo di successo è il mediocre che ha perduto l’anima
(e con essa la vera vita),
assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto,
adattandovisi)[4],
laddove l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto
renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque
eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace
con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui
guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore quando,
nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, parla del “contemplatore”[5]
come dell’“uomo più umano che sia stato
creato”, quindi si chiede:
E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere
all’umanità ciò che essa ha di meglio?[6]
Per altro, il
confronto fra la condizione dell’animale, naturalmente felice, e quella
dell’uomo, tormentato dalle contraddizioni del pensiero, torna in altri momenti
dell’opera sveviana. Oltre al passo sopra citato, in cui – a contrasto con
l’inettitudine di Alfonso – è descritta la perfetta attitudine alla vita del
gabbiano, è ben nota la pagina finale de La
coscienza di Zeno, dove alla salute della rondine (ma anche della talpa e
del cavallo), che non conosce altro progresso che “quello del proprio organismo”, si contrappone la malattia dell’ “occhialuto uomo” che “inventa ordigni fuori del suo corpo”,
sottraendosi così alla selezione naturale. Il fatto è che la rondine – lo
apprendiamo da una delle favole, Rapporti
difficili[7]
– non ha “spazio nel cervello per contenere due concezioni della vita”:
questa è la sua fortuna, ma anche il suo limite. Viceversa, dobbiamo intendere,
la sfortuna (ma anche la superiorità) dell’uomo è proporzionale allo spazio che
c’è nel suo cervello, uno spazio che può contenere due (o più, ovviamente)
concezioni della vita: è, insomma, lo spazio “della ragione e della immaginativa” che condanna i più dotati fra
gli uomini alla “irresoluzione”, per
dirla con parole leopardiane; alla inettitudine (alla senilità, alla malattia)
per dirla con Svevo.
[1] Qualcosa di simile si può
ritrovare anche nei protagonisti di opere minori: ad esempio, in Giorgio de L’assassinio di via Belpoggio o nel
dottor Menghi de Lo specifico del dottor
Menghi.
[2] I.
Svevo, Opera omnia, vol. II,
Milano 1969, pp. 207-8.
[3] Più che di saggi veri e propri,
si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi
di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con
precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si
possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p.
637 e p.641)
[4] In questa tipologia umana
saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti
dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.
[5] Si tratta, come è noto, del
termine (contrapposto a “lottatore”) che Svevo desume da Schopenhauer per
indicare il tipo umano dell’inetto.
[6] I.
Svevo, Opera omnia, vol. I,
Milano 1966, p. 860.
[7] I.
Svevo, Opera omnia, vol. III,
Milano 1968, pp. 755-9.
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