Livio, ovvero un repubblicano alla corte
di Augusto
Secondo il Chronicon di Gerolamo (IV sec. d. C.), nacque a Padova nel 59 a. C. e sempre a Padova morì nel 17 d. C.. A Roma godette dell’amicizia di Augusto (anche se in un
libro andato perduto aveva evidentemente esaltato Pompeo - vale a dire,
l’ultimo difensore della libertà repubblicana, e delle prerogative del senato -
se è vero che il principe lo chiamava affettuosamente “pompeianus ”[1]). Da Seneca sappiamo che
scrisse anche dialoghi filosofici. Dal 27[2] fino alla morte si dedicò
alla monumentale opera storica, Ab urbe condita libri (o Annales,
o Historiae
): 142 libri[3], dalla venuta di Enea nel Lazio
alla morte di Druso in Germania nel 9 a. C.
Di tanta
mole, ci restano solo 35 libri[4]: I-X (dalle origini alla terza guerra sannitica, e precisamente
al 293 a. C.); XXI-XLV (dagli
inizi della seconda guerra punica, nel 219 a. C., alla vittoria di Paolo Emilio
nella terza guerra macedonica, nel 167 a. C.). Pochi i frammenti delle
parti perdute, i cui argomenti però conosciamo grazie alle perìochae, ovvero a dei
sommari (epitomi, riassunti) composti da un ignoto professore del IV sec. d. C.
ad uso della scuola.
Lo schema è
quello tradizionale della storiografia annalistica (si narra la storia
anno per anno, cominciando con il nome dei consoli e dei pretori). Livio non
conduce ricerche d’archivio, né propone una discussione delle fonti: per lui la
storia non è una disciplina scientifica (come la intendiamo noi moderni), ma opus
oratorium, in cui si fa uso degli artifici retorici e ci si propone un
insegnamento morale (nella fattispecie, si insegna che la grandezza di Roma è
stata raggiunta grazie alla virtus
del suo popolo[5]; quella virtus, fondata sul mos
maiorum, che ora si rischia di perdere a causa della cupidigia trionfante).
Le fonti
sono gli antichi annalisti (Fabio Pittore e Cincio Alimento; o i più tardi
Valerio Anziate e Claudio Quadrigario) per la prima decade; Celio
Antipatro[6] e Polibio per la terza
decade, Polibio per il resto
(ovvero per le guerre d’oriente).
Il confronto
con Polibio (unica fonte per noi disponibile) è illuminante: laddove il greco
era attento alla valutazione delle cause politiche e sociali, distaccato dagli
avvenimenti, obiettivo, Livio seleziona i fatti, e li amplifica, alla luce
della sua concezione patriottica e
provvidenziale della storia[7]. Tale concezione ha per
protagonista il popolo romano, quasi popolo eletto, nella prima decade, e poi,
via via, prendono corpo i grandi personaggi, quali Scipione l’Africano, nei
quali si incarna la virtus romana.
Racconta le
imprese, ma anche i sogni e i prodigi: non perché (così lo spiega in
XLIII, 13, 1-2) non sappia, nella smaliziata e scettica età in cui vive, che
queste cose sono poco credibili (Non sum
nescius ab eadem neglegentia, qua nihil deos portendere vulgo nunc credant,
neque nuntiari admodum ulla prodigia in publicum neque in annales referri),
ma perché - dice lui stesso - narrando la storia antica, si immerge in
quell’atmosfera e ritiene doveroso riferire quei prodigi e quegli eventi
soprannaturali in cui credettero gli uomini di allora (Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, et quaedam religio
tenet, quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint, ea pro
indignis habere quae in meos annales referam”; e dunque quei sogni e
prodigi vanno riportati perché, in quanto agirono sui protagonisti, agirono
sulla storia[8].
La
concezione provvidenziale lo accomuna a Virgilio (le parole che Romolo,
dopo la sua morte, rivolge a Giunio Proculo, ricordano quelle di Anchise ad
Enea[9]), ma di questi non condivide la celebrazione
della pax Augusti e del principato
come acme della fortuna di Roma (anche se, ovviamente l’opera di Augusto è
apprezzata, sia perché ha posto fine alle guerre civili, sia perché si propone
di restaurare gli antichi valori).
[1]Ce lo dice Tacito: Pompeium tantis laudibus tulit ut pompeianum eum Augustus appellaret (Annales,
IV, 34, 3).
[2]Lo si capisce da un passo della sua opera (I, 19, 3),
dove si accenna ad Ottaviano con il nome di Augusto (accordatogli dal senato
nel 27).
[3]Probabilmente venivano pubblicati a gruppi di dieci
(decadi) o di cinque (pentadi): lo si arguisce dal fatto che ci sono delle
prefazioni, all’inizio del VI libro, del XXI e del XXXI.
[4]Si deve pensare che fosse difficile contenere un’opera
così grande nelle biblioteche (ce lo attesta Marziale: Livius ingens, quem mea non totum bibliotheca capit, 14, 190-191) e
troppo impegnativo ricopiarla.
[5]E dunque, in nome di tale grandezza, è legittimo
riportare, le origini leggendarie e divine che il popolo romano si attribuisce
(senza accettarle né respingerle, come si dice nel proemio).
[6]Alla fine del II sec. a. C. aveva scritto una
monografia sulla seconda guerra punica (di cui ci restano pochi frammenti).
[7]Si può vedere, come esempio, l’episodio della
conquista di Cartagéna, in Spagna, da parte di Scipione, il futuro Africano,
nel 209: Livio è evidentemente attento ad allontanare dal suo eroe l’accusa di
crudeltà (XXVI, 46, 7-10).
[8]Memorabile il racconto della sconfitta del Trasimeno:
Flaminio viene sconfitto non per errori tecnici nella conduzione della
battaglia (come è per Polibio), ma per empietà verso gli dei, per aver
trascurato i riti; e dopo di ciò Fabio Massimo richiamerà il senato alla pietas (XXII, 9, 7-8).
[9]“Abi, nuntia
Romanis caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem
militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis
Romanis resistere posse” (I, 16, 7).
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