lunedì 13 aprile 2015

Leggere la Divina Commedia (II parte)


5)      Vediamo ora un aspetto diverso, quello linguistico. Per dimostrare come Dante adegui il registro stilistico all’ambiente e ai personaggi incontrati, mi pare che il canto XIII dell’Inferno, il canto dei suicidi, sia esemplare. Leggiamo i primi versi e, soprattutto, il discorso di Pier della Vigna. E’ evidente al lettore come questo canto si caratterizzi per la ricercatezza sia di suoni aspri (si vedano soprattutto i primi versi) sia di figure retoriche diverse (ci sono anafore, duplicazioni, antitesi, personificazioni) che ora sembrano rendere elegante il discorso, ora sembrano togliergli linearità, contorcerlo, farlo aggrovigliare su se stesso.

a.       Nessun dubbio che i suoni aspri vogliano rendere l’asprezza dell’ambiente (la selva impervia e spinosa) e che la elaborata costruzione dei periodi abbia a che fare con il personaggio protagonista del canto (Pier della Vigna, maestro dell’ars dictandi alla corte di Federico II);

b.      Ma a me pare che tale scelta abbia anche a che fare con la particolare natura del peccato qui punito, il suicidio, un peccato che per Dante ha una contraddittorietà intrinseca, gli deve sembrare frutto di una distorsione dell’intelletto (si pensi a quel luogo del Purgatorio, XVII, 106-108, in cui Virgilio, per spiegare l’origine del peccato, dice che le creature non possono volere il male né del creatore né di se stesse). Il discorso di Piero è esemplare, e il culmine dell’artificiosità retorica è raggiunto con la terzina 70-72, laddove l’atto del suicidio è spiegato mettendo in luce la contraddittorietà sia del movente che degli effetti.

6)      Se cerchiamo un esempio di intensa umanità, che mette in campo, come dicevo prima, passioni e aspirazioni proprie dell’uomo di ogni tempo, possiamo scegliere, fra i tanti, l’episodio che ha come protagonista Ulisse. Dante non conosceva l’Odissea, forse solo qualche sunto medievale (“forse”, perché le parole con cui Ulisse inizia il suo racconto lasciano dei dubbi), ma certo conosceva la fama che di quel personaggio avevano tramandato gli autori latini. Ed era una fama “doppia”, perché

a.       da una parte Ulisse era lo “scelerum inventor” (così lo definisce Virgilio nell’Eneide),

b.      dall’altra era l’uomo bramoso, sopra ogni cosa, di conoscenza (così Orazio in Epistulae I, 2, Seneca nel De constantia sapientis, ma soprattutto Cicerone nel De finibus). E di questa doppiezza il canto XXVI dell’Inferno rende testimonianza.

7)      Come “scelerum inventor” Ulisse è dannato nella bolgia dei consiglieri frodolenti (è detto esplicitamente da Virgilio, laddove indica le colpe per cui Ulisse e Diomede “insieme vanno”: l’agguato del cavallo, l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Ed è un peccato per il quale Dante si sente particolarmente coinvolto, visto che, al solo ricordo della bolgia, sente il bisogno di ammonire se stesso (vv. 19-24). E’ un peccato che ha a che fare non solo con l’intelligenza (questo vale per tutte le bolge), ma particolarmente con l’uso frodolento della parola, dunque con l’uso distorto di una capacità altamente umana, quella di parlare, di cui un letterato come Dante più di altri dispone: che di questo si tratti non mi pare dubbio, visto che un aspetto del contrappasso consiste proprio nella difficoltà ad articolare parole (come è evidente qui, ma ancora di più nel canto successivo, con Guido da Montefeltro).

8)      Ma il racconto di Ulisse sulla propria morte, non ha a che fare con il peccato per cui è dannato (a meno che non si voglia vedere nell’”orazion picciola” il consiglio frodolento, cosa davvero difficile visto che si fa appello a valori nobilissimi, quali la superiorità dell’uomo sui bruti e l’aspirazione alla conoscenza), è solo la narrazione di una vicenda che si conclude tragicamente perché l’umanissimo desiderio di conoscere del pagano Ulisse non è sostenuto dalla grazia divina. Per questo suo desiderio di conoscere (l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) Ulisse era esaltato dalla tradizione classica (si veda come lo rappresentano gli auctores sopra citati). E così Dante lo recepisce. Ma il cristiano Dante sa anche che senza l’aiuto della grazia la conoscenza non può giungere alla verità. Per questo il “volo” di Ulisse è “folle”, e la follia in Dante (si veda il canto II: “temo che la venuta non sia folle”) indica appunto la presunzione dell’intelletto di giungere alla verità con le sole sue forze, senza la Rivelazione, senza la grazia (se questo fosse stato possibile, “mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio in Pg. III pensando con tristezza alla condizione di pagani dotati di grande intelligenza). Dunque quel viaggio verso una verità inconoscibile con le sole forze umane non può che fallire, la nave di Ulisse non può che naufragare in vista della montagna del Purgatorio.

9)      L’alter ego di Ulisse è Dante stesso, che compie, come lui, un viaggio al di là delle capacità umane (e infatti aveva temuto che fosse “folle”); ma, diversamente dall’eroe omerico, Dante è sostenuto dalla grazia divina, lui potrà giungere alla spiaggia del Purgatorio (dove, non a caso, ricorderà ancora il fallimento del viaggio di Ulisse: non diversamente si deve intendere il riferimento di Pg. I, 130-132). 

 

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