giovedì 9 aprile 2015

Elogio dell'inettitudine (III parte)


III. Montale: l’ombra

A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[1], o “inadattamento” (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non appare diverso dal senso di estraneità al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita.

Si rileggano i seguenti versi:

Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

È la strofa centrale di uno dei più noti fra gli ossi di seppia, quello in cui il poeta, enunciando i principi della sua poetica, dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare qualche storta sillaba e secca come un ramo e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci è estranea, non è quella che vorremmo (Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo).

Al centro, la strofa sopra citata esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’uomo che se ne va sicuro perché non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io.

Proprio questo indica la bella immagine di colui che l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa.

La vita, immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere agli altri ed a se stesso amico”, perché fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni della quotidianità: è un inetto.



[1] E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592.

Nessun commento:

Posta un commento