III. Montale: l’ombra
A tale
problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di
Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due
autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il
primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene,
quel senso di “totale disarmonia con la
realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[1],
o “inadattamento” (davvero
significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue
raccolte, non appare diverso dal senso di estraneità al mondo circostante che
caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e
simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo,
espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita.
Si rileggano i
seguenti versi:
Ah, l’uomo che
se ne va sicuro,
agli altri ed a
se stesso amico
e l’ombra sua
non cura che la canicola
stampa sopra uno
scalcinato muro!
È la strofa
centrale di uno dei più noti fra gli ossi
di seppia, quello in cui il poeta, enunciando i principi della sua poetica,
dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti “come un croco / perduto
in mezzo a un polveroso prato”)
che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo,
ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare “qualche storta sillaba e
secca come un ramo” e
limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di
inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci
è estranea, non è quella che vorremmo (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”).
Al centro, la
strofa sopra citata esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il
desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo
iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’“uomo
che se ne va sicuro” perché
non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria
condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda
vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio
perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di
riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo;
proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la
distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice
immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità
di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità.
Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già
sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra
tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io.
Proprio questo
indica la bella immagine di colui che “l’ombra sua non cura che la canicola /
stampa sopra uno scalcinato muro”:
non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la
proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più
normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece
l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta
si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla
volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla
propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce
se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile.
Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso
di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti
della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili,
è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa.
La vita,
immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve;
resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità
dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere “agli altri ed a se stesso amico”, perché
fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non
c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone,
impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni
della quotidianità: è un inetto.
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