martedì 14 aprile 2015

L'amore e l'altro mondo nell'immaginario medievale (IV parte: Boccaccio)


IV. Alla luce piena del giorno avviene anche la visione di cui narra Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti (20). E questo sarebbe già il segno, se non ci fossero anche altri e ben vistosi elementi, di una mentalità non più ossessionata dalla paura del peccato e della dannazione eterna.

Si tratta, come è noto, di una visione che presenta tali somiglianze con quella del carbonaio di Niversa da far pensare che la fonte sia comune o che Boccaccio conoscesse Passavanti (21).

In breve. Nastagio, non corrisposto nel suo amore per una de’ Traversari, si ritira da Ravenna a Chiassi. Qui un giorno, quasi all’entrata di maggio, essendo uno bellissimo tempo, mentre immerso nei suoi pensieri si inoltra nella pineta, si imbatte, verso il mezzo dì, in una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche, che corre piangendo e gridando, inseguita da due grandi e fieri mastini e da un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano. Nastagio vorrebbe aiutare la fanciulla, ma il cavaliere - che si presenta come Guido degli Anastagi, nobile ravennate, morto quando Nastagio era fanciullo - lo invita a non impicciarsi e gli spiega che ciò che vede è voluto dalla giustizia di Dio: lui infatti, innamorato non corrisposto di quella fanciulla, si era ucciso disperato; lei, tutt’altro che pentita della sua crudele ostinazione, era morta poco dopo; entrambi sono dannati all’inferno (22) e la pena consiste appunto in questa caccia, per cui lui la insegue, la raggiunge ogni venerdì a quell’ora in quel punto, la trafigge con lo stesso stocco con cui si era ucciso, la squarta, estrae il cuore e lo dà da mangiare ai cani; quindi lei si rialza come se niente fosse, ricomincia la fuga e ricomincia la caccia. E così avviene. Nastagio, dopo essere stato per un po’ tra pietoso e pauroso, capisce di poter sfruttare l’informazione a proprio vantaggio. Per il venerdì successivo fa apparecchiare proprio in quel punto un grande banchetto, cui invita parenti, amici e tutta la famiglia Traversari. La bella da lui amata, quindi, assiste alla scena raccapricciante, ascolta la spiegazione del cavaliere e non può non riconoscere che la stessa sorte della fanciulla dannata sarà riservata a lei, se continuerà a rifiutare il suo amore a Nastagio. Pertanto nottetempo gli manda una sua cameriera per fargli sapere che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Nastagio se ne rallegra, ma risponde che con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. Lei acconsente e la storia si conclude con il lieto fine del matrimonio cui fa seguito una lunga vita felice (23).

E dunque qui la caccia infernale ha una funzione esattamente opposta a quella che aveva nell’exemplum di Passavanti. Là doveva insegnare che cedere alla passione amorosa è un peccato degno, dopo la morte, delle pene più terribili; in Boccaccio, al contrario, è la ritrosia in amore ad essere indicata come degna del castigo divino, e la visione serve a persuadere le donne che è bene accondiscendere alla richiesta d’amore (24). L’effetto parodistico è evidente (25), come è evidente che tale effetto è stato ottenuto innestando, sul modello cristiano della caccia tragica, elementi che provenivano da tutt’altra tradizione, e precisamente da quella che fa capo al De amore di Andrea Cappellano (26).

Qualche osservazione basterà a dimostrarlo.

Anzitutto, i protagonisti della novella si muovono in un mondo che richiama alla memoria, col nome stesso delle famiglie dei Traversari e degli Anastagi, ambienti di gioiosa e raffinata cortesia (27); e cortesi sono i modi di Nastagio, sia perché ama una donna di condizione sociale superiore alla sua (troppo più nobile che esso non era), come espressamente raccomandato da Andrea (28), sia perché, per amore, conduce la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, seguendo il precetto della liberalità, fondamentale per un amante cortese (29).

Entrando nel dettaglio, non solo l’ora meridiana (di cui s’è già detto), ma anche la stagione primaverile e il paesaggio ameno della pineta (30), che fanno da sfondo alla visione di Nastagio, ne indicano l’affinità con la visione del cavaliere nel libro di Andrea (31); e il tutto, in Boccaccio, contribuisce a mitigare l’orrore della scena. Al contrario, l’atmosfera cupa e tenebrosa, propria della linea Elinando-Passavanti, intendeva senz’altro accentuare quell’orrore. Quanto alla scena in sé, è vero che il cacciatore è altrettanto spietato e violento (la caccia è altrettanto "tragica") in ambedue le visioni, di Nastagio e del carbonaio di Niversa: ma mentre in Passavanti la distanza dal quotidiano è volutamente marcata con l’insistenza sul soprannaturale (si pensi a quel cavallo e quel cavaliere che spirano fuoco dagli occhi, dal naso e dalla bocca) e sul sangue (cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l’insanguinati capelli), in Boccaccio il soprannaturale è limitato, per così dire, allo stretto necessario (la rinascita della donna dopo lo squartamento), ed anche l’opera del cacciatore, pur con i suoi particolari raccapriccianti, è tutto sommato riconducibile alla quotidianità di un lavoro da macelleria (il coltello sembra maneggiato con una certa professionalità, quando il cacciatore dice aprola per ischiena, e quel cuor... con l’altre interiora insieme... le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani ; e poi, di fatto, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa dattorno, a’ due mastini il gittò); del resto, quel banchetto preparato da Nastagio con cura e raffinatezza (fece le tavole mettere sotto i pini dintorno..., fatti mettere gli uomini e le donne a tavola..., essendo adunque venuta l’ultima vivanda...) fa pensare ad una cortese brigata che si accinge ad assistere ad un piacevole spettacolo, ancorché a tinte forti, invece che ad una terribile visione: tutt’altra atmosfera rispetto a quella, paurosa ed angosciante, che incombe sul conte e il carbonaio di Niversa in attesa dell’evento.

Se ne può concludere, insomma, che Boccaccio tratta quel materiale medievale con una sensibilità che non è più medievale, non solo perché rovescia beffardamente le funzione di un exemplum edificante, ma anche perché, coi modi stessi della narrazione, dimostra di non avvertire, se non pretestuosamente, la presenza del divino (e del diabolico) nelle vicende terrene. Così come, circa un secolo e mezzo prima, non l’avvertiva Andrea Cappellano, il quale, altrettanto pretestuosamente, per trattare d’amore si era servito del soprannaturale.

Nel tramonto del Medioevo, è dunque la voce di Andrea che torna a farsi sentire: la sua idea dell’amore che, fieramente osteggiata dalla Chiesa, per sopravvivere aveva dovuto rinunciare alla sensualità e ricoprirsi di vesti cristiane, torna con la sicurezza sorridente (e irridente) di un autore, Boccaccio, che di certo non si sente trattenuto da scrupoli e obiezioni di tipo religioso.

Ma l’etica cortese, cui Andrea aveva dato sistemazione nel suo trattato, viene rivisitata e corretta alla luce dell’etica borghese, ormai trionfante nella società cui Boccaccio appartiene. Si pensi, ad esempio, a una certa aura di negatività che nella novella, a dispetto del precetto cortese della liberalità, si riverbera da quello spendere smisuratamente di Nastagio (talché i suoi parenti temono per il patrimonio); o anche, ed è elemento davvero vistoso, alla scelta finale del matrimonio ‘onorevole’, che contraddice seccamente quella precettistica. Bisognerà appunto considerare che Boccaccio, per quanto guardi con sincera nostalgia alle idealità di un mondo ormai lontano, è pur sempre l’interprete di una società (borghese) in cui si sono imposti altri valori, si rivolge ad un pubblico per il quale il lieto fine non può essere dissociato dall’amministrazione oculata del patrimonio e dal rispetto delle convenienze sociali (32).

Si potrebbe dire che etica cortese ed etica borghese si sono alleate, individuando nell’etica cristiana il comune nemico. In altre parole, riconoscere il tono parodistico della novella di Nastagio non vuol dire negare a Boccaccio l’intenzione consapevole (del resto evidente in tanti luoghi del Decamerone) di sottrarre l’amore al regno del peccato per collocarlo in quello dei bisogni naturali dell’uomo. Passavanti è lontano, ma è lontano anche Dante. L’amore terreno non è più esecrato come causa di dannazione, ma nemmeno è liberato dal peso della sua materialità perché possa indirizzarsi al cielo: è semplicemente accettato come una forza incomprimibile della natura, che determina, al pari e più di altre, i comportamenti dell’uomo.

E naturalmente non desta meraviglia che a tale mutamento di prospettiva dia voce un autore così rappresentativo di quell’età di transizione in cui comincia ad affermarsi una nuova concezione dell’uomo e del mondo. Non sarà un caso se alla fine del Quattrocento, Botticelli - che pure opera in un ambiente di alta spiritualità quale quello neo-platonico della corte di Lorenzo de’ Medici - illustrerà proprio la novella di Nastagio in quattro tavolette destinate a decorare la cassa da corredo per una sposa (33);









 e se in pieno Rinascimento, Ariosto, visibilmente riallacciandosi a quella tradizione che risaliva ad Andrea Cappellano, immaginerà punite all’inferno, ancora una volta, le donne che non vollero amare ed essere amate (34).

 

Marcello TARTAGLIA

 
Articolo pubblicato su Studi di estetica, 17
III serie, 1998, a. XXVI


NOTE

20) Decamerone, V, 8. Per le citazioni, e per ogni altra osservazione sulla novella, rimando alla edizione a cura di V. BRANCA, Firenze 1960, pp. 657-667.

21) Anche se Boccaccio conosceva lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, e quindi lì poteva aver letto l’exemplum di Elinando, altrettanto accreditata, sulla base dei raffronti linguistici, è l’ipotesi che la sua fonte fosse la narrazione di Passavanti (cfr. A. MONTEVERDI, Gli "esempi" di Iacopo Passavanti, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, cit., pp. 192-93). L’ostacolo cronologico (la composizione del Decamerone precede di qualche anno lo Specchio di vera penitenza) è superato immaginando che Boccaccio ascoltasse dalla viva voce del frate le prediche da lui tenute in Santa Maria Novella. Francamente, a me pare che il problema rimanga, perché è difficile giustificare le analogie linguistiche sulla base di una conoscenza orale di quella narrazione (a meno di non pensare ad un Passavanti che legge la sua predica già scritta e ad un Boccaccio che prende appunti!). D’altra parte c’è anche chi ha voluto vedere nella caccia tragica narrata da Boccaccio il ricordo di una tradizione locale ravennate (A. WESSELOFSKY, nella già citata introduzione alla Novella della figlia del re di Dacia, pp. XLV e sgg.). Certamente evidenti sono le reminiscenze della Commedia dantesca, particolarmente del canto XIII dell’Inferno, dove si descrive la pena dei suicidi e degli scialacquatori (e sono reminiscenze appropriate, visto che quell’amore disperato aveva portato Nastagio a spendere smisuratamente, e poi a desiderare di uccidersi; e davvero si era suicidato il cavaliere-cacciatore della visione). Su questi aspetti, e in particolare sulle influenze dantesche, offre altre indicazioni N. SCARANO, La novella di Nastagio degli Onesti, in Studi letterari e linguistici dedicati a P. Raina, Firenze 1911, pp. 423-451. Infine, analogie (tematico-strutturali, nonché sintattico-lessicali) sono state riscontrate anche con la prima stanza della petrarchesca canzone delle visioni (Rime, CCCXXIII), da M. GIACON, La novella di Nastagio e la canzone delle visioni, in "Studi sul Boccaccio", VIII, Firenze 1974, pp. 226-249.

22) C’è qui una contraddizione, perché il cacciatore parla esplicitamente di condanna alle "pene del ninferno", ma poi precisa che si tratta di una pena temporanea ("tanti anni... quanti mesi ella fu contro a me crudele"). Si può pensare ad un residuo, non risolto, delle fonti, dove la caccia veniva presentata come pena di Purgatorio (e quindi temporanea); o anche, che la caccia sia una specie di pena aggiuntiva provvisoria, nel contesto di altre, e ovviamente eterne, pene infernali.

23) Per la verità c’è anche una piccola coda maliziosa, laddove il narratore ci dice che da allora in poi tutte le donne di Ravenna troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.

24) E’ vero che, come si dice chiaramente, la donna è punita per aver causato il suicidio dell’innamorato respinto e per essersene compiaciuta; ma dal senso complessivo della novella, avvalorato dalla stessa conclusione, si capisce bene che tale aspetto passa in secondo piano (come l’uxoricidio nell’exemplum di Passavanti) rispetto a quello dell’amore negato.

25) L’ha notato V. SKLOVSKIJ, in Una teoria della prosa, Torino 1976 [Mosca 1929], p. 61, e l’ha mostrato, nell’ambito di un’analisi dettagliata della novella di Nastagio, C. SEGRE (La novella di Nastagio degli Onesti: i due tempi della visione, in Semiotica filologica, Torino 1979, pp. 87-96). L’ha negato invece, in nome della serietà artistica della novella, L. RUSSO (Postilla critica a Nastagio degli Onesti, in Il Decamerone, venticinque novelle scelte e ventisette postille critiche, Firenze 1939, pp. 391-398).

26) La conoscenza accurata da parte di Boccaccio del trattato di Andrea è evidente non solo nella novella di Nastagio, ma in tanti altri luoghi della sua opera, giovanile e matura, come ampiamente dimostrato da V. BRANCA, in Boccaccio medievale e altri studi sul Decameron, Firenze 1996 [1956], pp. 20-22, 223-235. E comunque, a dimostrazione di quanto intensi fossero sentiti dai lettori i rapporti di Boccaccio con il De amore, basterà ricordare che nel Seicento si finì per attribuire all’autore del Decamerone la paternità dell’opera di Andrea (Laberinto d’Amore di Messer Giovanni Boccaccio, aggiuntovi nuovamente un Dialogo d’Amore molto dilettevole, Venetia, appresso Gratioso Perchacino, MDCXI). L’esistenza di una vera e propria tradizione, relativamente al motivo delle donne punite perché renitenti all’amore, è stata messa in luce da W. A. NEILSON, The purgatory of cruel beauties, in "Romania", XXIX, Parigi 1900, pp. 85-93. Ma non è dimostrabile che Boccaccio conoscesse altri testi, oltre al De amore . Piuttosto, non bisognerà dimenticare un precedente classico, e cioè il racconto con cui, nelle Metamorfosi di Ovidio (XIV, vv. 622 e sgg.), Vertumno convince Pomona a cedergli.

27) Boccaccio aveva senz’altro in mente i versi in cui Dante, nominando proprio quelle famiglie, rievocava con nostalgia la Ravenna dei primi decenni del Duecento: "... la casa Traversara e li Anastagi / (e l’una gente e l’altra è diretata), / le donne e i cavalier, li affanni e li agi, / che ne ’nvogliava amore e cortesia..." (Purg. XIV, 107-111).

(28) De amore, cit., pp. 33 e sgg.

(29) De amore, cit, p. 94 (Avaritiam sicut nocivam pestem effugias et eius contrarium amplectaris) e p. 282 (Amor semper consuevit ab avaritiae domiciliis exulare ). Ma il valore della liberalità (largueza, in lingua d’oc) è ripetutamente esaltato nella letteratura cortese, sia francese che provenzale.

(30) Anche qui ritorna l’eco dei versi di Dante: "…la divina foresta spessa e viva.../ tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in sul lito di Chiassi, /..." (Purg. XXVIII, 2-20).

(31) E’ un’affinità già notata da C. Grabher (nel già citato Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, pp. 75-88), il quale peraltro estende l’analisi a tutta l’opera del Boccaccio, per riscontrare che il gusto per il paesaggio ameno sia risente del De amore di Andrea sia preannuncia "quel sogno di perfetta armonia a cui in tanti modi anelava il Rinascimento".

(32) E’ la stessa logica riconoscibile nella novella, immediatamente successiva, di Federico degli Alberighi (Decamerone, V, 9), il quale, dopo aver dilapidato il patrimonio spendendo in cortesia, alla fine sposa la donna amata e miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.

(33) Le tavole, presumibilmente dipinte da allievi della scuola su disegni del maestro, sarebbero state realizzate nel 1487 in occasione del matrimonio di Lucrezia di Francesco Pucci con Pier Francesco Bini ("in casa Pucci - scrive il Vasari a proposito di Botticelli - fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degli Onesti in quattro quadri di pittura molto vaga e bella").

(34) Orlando furioso, XXXIV, 6 e sgg. Ricordo peraltro che, fra Boccaccio ed Ariosto, lo stesso motivo ritorna in altri due testi: in un capitolo composto da Francesco Malecarni per il Certame Coronario e nell’Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo anonimo (attribuito a Francesco Colonna), stampato a Venezia nel 1499.

 

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