IV. Pirandello: il doppio
Dunque,
“curarsi” della propria ombra, è segno di una più alta umanità, che può
appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento;
o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo
spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e
perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in
società dall’“uomo che se ne va sicuro”.
Ma il motivo
dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello
sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a
Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa
perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla
condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi
pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare
di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si
ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa
ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua
aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato,
ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può
legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia
per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente
come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma
da cui non riesce a separarsi (“se mi
metto a correre, mi seguirà”):
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via
Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno;
poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a
contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non
potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la
testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.
L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le
quattro zampe, poi le ruote del carro.
– Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo,
sì: alza un’anca! alza un’anca!
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via,
spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra,
meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i
piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi
adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia
ombra; avrei voluto scuotermela dai
piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per
farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita
era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui.
Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le
vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare;
aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma
per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una
testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il
cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente
fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram,
e vi montai.[1]
L’ombra è
dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo
dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso
l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che
riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi
non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi
per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto
questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl),
vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e
inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si
rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e
successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una
deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce
l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il
diavolo è disposto a restituirgliela.
Il cerchio si
chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno
scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si
accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi
l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri
ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è
più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità
di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a
prezzo del “malcontento” e
dell’inettitudine, la propria umanità.
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