venerdì 10 aprile 2015

Leopardi e la sapienza silenica (II parte)


III. Ma nemmeno si tratta di un pessimismo di tipo mistico-religioso, che svaluta la vita terrena, in quanto la intende come luogo (e tempo) dell’espiazione, e vede la morte come un bene perché l’anima può finalmente liberarsi dalla prigionia del corpo: il corpo (sîma) si identifica con la tomba (sÁma), come la stessa affinità fonica delle due parole sembra indicare. E’ questo un motivo (di origine orfica) ampiamente presente in Platone, ma espresso anche, fra gli altri, da Aristotele, in un frammento di grande efficacia rappresentativa:

Poiché è una divina sentenza, quella detta da ben antichi, che la nostra anima paga quaggiù e sconta in questa vita la pena di grandi colpe precedenti... Onde noi siamo qui in un supplizio simile a quello di coloro che, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, per essere uccisi con raffinata crudeltà venivano legati con cadaveri, strettamente il vivo faccia a faccia col morto: le nostre anime sono unite ai corpi come quei vivi ai morti. [1]
 
E’ evidente che all’interno di questa concezione l’assurdità del “male di vivere” trova un senso, una giustificazione: ci si deve liberare da una sorta di peccato originale connesso con la materialità corporea, e si apre quindi, per l’anima individuale, la prospettiva di un’altra vita, finalmente felice, dopo la morte. E’ la prospettiva indicata, ad esempio, da Pindaro per chi abbia superato tre volte la prova della vita:

E quanti, per tre volte dimorando
nei mondi alterni, ressero
da colpe aliena l’anima,
fanno la via di Zeus fino alla torre
 di Crono, e là c’è l’isola
dei beati, le brezze dell’Oceano
fiatano intorno, brillano
i fiori d’oro,
quali da piante sulla terra splendide,
altri l’acqua li pasce,
e monili ne intricano e serti. [2]

E’ la concezione, come si può ben capire, che, confluendo poi nel cristianesimo, diventerà dominante nella civiltà occidentale: questo mondo è una valle di lacrime, la speranza di felicità è relegata fuori della vita terrena, nel Paradiso (o “isola dei beati” che dir si voglia), per chi abbia ben meritato.

Non si tratta di questo, perché il Sileno, nel momento in cui connette inestricabilmente esistenza ed infelicità, non fa riferimento ad un’altra possibilità di esistere, non indica la morte come la liberazione dell’anima incarcerata nel corpo e il suo avviarsi verso una dimensione alternativa e soddisfacente; semplicemente, dichiara che il nulla, il non-essere, sia dell’anima che del corpo (o anche, ma è la stessa cosa: il lasciarsi inghiottire dal c£oj, senza più memoria della propria individualità), è l’unica condizione per la cessazione del dolore.

 
IV. Tutto il fulgore degli dei olimpici impallidisce dinnanzi alla sapienza di Sileno. Il precettore di Dioniso insegna una verità terribile: non c’è un senso, né terreno né ultraterreno, per la vita umana. E l’ebbrietà, di cui il dio è portatore, è la sola medicina in grado di lenire, per il tempo in cui essa dura, la malattia del vivere; l’ebbrietà che consente, tanto nella sua forma frenetica quanto in quella letargica, di spezzare i vincoli del principium individuationis  e di perdersi nel tutto.

Su tale sapienza si fonda la tragedia, la forma d’arte in cui Dioniso si concilia con Apollo, ed attraverso cui l’uomo greco, che ha intravvisto con orrore l’assurdità dell’esistenza, si difende dalla minaccia del c£oj e si salva dal pericolo di perdere se stesso. Ma quell’orrore non può essere dimenticato, esso percorre la cultura greca come un fiume sotterraneo, e riemerge più volte nella forma, caratteristica ed inequivocabile, dell’aspirazione all’annientamento. Così si lamenta il coro nell’Edipo a Colono di Sofocle:

Non veder mai la luce
vince ogni confronto,
ma una volta venuti al mondo
tornar subito là onde si giunse
è di gran lunga la miglior sorte [3]

Analogo concetto è espresso più volte da Euripide:

Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo,
a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce,
considerando i molteplici mali dell’umana vita;
ma chi morendo pose fine ai gravi travagli,
a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie
con ogni lode e gioia [4]

Quelli dei mortali che vedono la luce sono afflitti da morbi,
e i morti nulla soffrono né patiscono mali [5]

Meglio per i mortali sarebbe non nascere che nascere. [6]

Ma è una sapienza conosciuta anche dai lirici. Così canta Teognide:

Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere nato,
né i raggi vedere del sole abbagliante,
e, quando si è nati, al più presto varcare le soglie di Ade
e sotto gran massa di terra giacere. [7]

 E così Bacchilide ammonisce il sire Gerone dei siracusani, vincitore col cavallo veloce ad Olimpia:

                              Non esistere:
è ben questa per l’uomo la ventura
delle venture, non vedere il sole. [8]

La stessa concezione è espressa da Erodoto attraverso alcuni episodi narrati nelle Storie . Così ci dice a proposito di una popolazione della Tracia:

Quanto ai Trausi... quando nasce o muore loro qualcuno, si comportano come segue: alla nascita di un bambino, i parenti, sedutigli attorno, piangono i mali che dovrà sopportare dal momento che è venuto al mondo ed elencano tutte le sciagure umane. Quando invece uno muore, tutti, lieti e gioiosi, lo sotterrano, dicendo che egli ormai, liberato da tanti affanni, vivrà nella perfetta felicità. [9]

In un altro momento, quando Serse, scrutando l’Ellesponto tutto coperto di navi e le spiagge formicolanti di uomini, si mette a piangere al pensiero di quanto sia breve la vita umana, è Artabano a consolarlo con una verità ben più dolorosa:

In questa vita, che pure è così breve, non esiste nessun uomo, né di questi né di altri, felice al punto che non gli capiti spesso, e non una volta sola, di desiderare di essere morto piuttosto che di vivere. Le sciagure che ci colpiscono e le malattie che ci affliggono ci fanno trovare lunga questa vita, per breve che sia. Così, essendo la vita travagliata, la morte è per l’uomo il rifugio più desiderabile. [10]

Ma il più significativo, ed anche il più famoso sin dall’antichità, è l’episodio di Cleobi e Bitone:

Di loro si racconta che un giorno celebrando gli Argivi la festa in onore di Era, la loro madre doveva essere necessariamente trasportata al santuario con un carro, ma i buoi non erano tornati in tempo dai campi; allora i due giovani, poiché l’ora incalzava, si misero sotto al giogo e tirarono il carro, su cui viaggiava la madre, per quarantacinque stadi, fino al tempio; dopo di che, al cospetto della folla dei fedeli, incontrarono la morte più bella. E di essi gli dei si servirono per dimostrare che per gli uomini è meglio morire che vivere. Gli Argivi, stringendosi attorno a loro, li felicitavano per la loro robustezza e le Argive chiamavano beata la loro madre che aveva figli siffatti; la madre infine, al colmo della gioia per l’azione che essi avevano compiuta e per le lodi che ne avevano ricevute, ritta davanti alla statua della dea, le chiese per i figli Cleobi e Bitone, che tanto l’avevano onorata, la cosa più bella che potesse toccare ad un uomo. Dopo il sacrificio e il banchetto, i due giovani si addormentarono nel tempio e non si svegliarono più, sorpresi dalla morte nel sonno. [11]

Una simile vicenda veniva attribuita a Trofonio ed Agamede, gli architetti del tempio di Apollo a Delfi[12]: costoro chiesero ed ottennero dal dio come compenso per la loro opera “ciò che fosse meglio per l’uomo”: e il dio concesse loro la morte. La morte come premio, dunque, e non per passare a miglior vita, ma per passare al nulla.

E’ un pensiero, per altro, non estraneo alla cultura ebraica: se ne sente l’eco nel Vecchio Testamento, laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio[13], e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”,  ricordano proprio quelle del Sileno:

E proclamai i morti più beati dei vivi,
e più felici d’entrambi chi non è nato ancora...[14]

Nel mondo latino, all’angoscia di Lucrezio che canta il lugubre vagitum del neonato, sbattuto come un naufrago sulla spiaggia della vita[15], risponde, in tutt’altro contesto, l’acuta ironia dell’autore del Satyricon[16]: in mezzo alla volgarità trionfante alla cena di Trimalchione, ci sono, attribuite alla Sibilla, parole di ben altro peso: il responso della profetessa cumana alla domanda dei fanciulli (“S…bulla, t… qέλεις;”)[17]  è secco e apparentemente assurdo: “Apoqane‹n qšlw[18].

E quel responso sorvola le teste troppo ottuse dei liberti convitati  per giungere fin nel cuore del Novecento: Eliot lo raccoglie e lo pone ad epigrafe de La terra desolata, siccome un viatico per chi voglia visitarla.

 



[1]Aristotele, fr. 60 Rose (trad. Carlini).
[2]Pindaro, Ol. 2, vv. 68-74 (trad. Pontani).
[3]Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1225-28 (trad. Ferrari).
[4]Euripide, Cresfonte, TGF, fr. 449 = fr. 5 Musso.
[5]Euripide, TGF, fr. 833.
[6]Euripide, TGF, fr. 908. Espressioni analoghe si trovano anche in fr. 285 e in Ippolito, vv. 189-90.
[7]Teognide, vv. 425-28 Young.
[8]Bacchilide, 5 Snell, vv. 160-164 (trad. Pontani).
[9]Erodoto, Storie, V, 4 (trad. Mattioli).
[10]Erodoto, Storie, VII, 45.
[11]Erodoto, Storie, I, 31.
[12]Ce la attesta Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 14), il quale peraltro dichiara di assumerla da Pindaro.
[13]Giobbe, 3, 3-22.
[14]Ecclesiaste, 4, 2-3.
[15]De rerum natura,  V,  vv. 222-227.
[16]Satyricon,  XLVIII.
[17]“Sibilla, che cosa vuoi?”
[18]“Voglio morire”

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