III. Ma nemmeno si tratta di un
pessimismo di tipo mistico-religioso, che svaluta la vita terrena, in quanto la
intende come luogo (e tempo) dell’espiazione, e vede la morte come un bene
perché l’anima può finalmente liberarsi dalla prigionia del corpo: il corpo (sîma)
si identifica con la tomba (sÁma), come la stessa affinità fonica
delle due parole sembra indicare. E’ questo un motivo (di origine orfica)
ampiamente presente in Platone, ma espresso anche, fra gli altri, da
Aristotele, in un frammento di grande efficacia rappresentativa:
Poiché è una divina
sentenza, quella detta da ben antichi, che la nostra anima paga quaggiù e
sconta in questa vita la pena di grandi colpe precedenti... Onde noi siamo qui
in un supplizio simile a quello di coloro che, quando cadevano nelle mani dei
predoni etruschi, per essere uccisi con raffinata crudeltà venivano legati con
cadaveri, strettamente il vivo faccia a faccia col morto: le nostre anime sono
unite ai corpi come quei vivi ai morti. [1]
E’ evidente che all’interno di
questa concezione l’assurdità del “male di vivere” trova un senso, una
giustificazione: ci si deve liberare da una sorta di peccato originale connesso
con la materialità corporea, e si apre quindi, per l’anima individuale, la
prospettiva di un’altra vita, finalmente felice, dopo la morte. E’ la
prospettiva indicata, ad esempio, da Pindaro per chi abbia superato tre volte
la prova della vita:
E quanti, per tre volte dimorando
nei mondi alterni, ressero
da colpe aliena l’anima,
fanno la via di Zeus fino alla torre
di Crono, e
là c’è l’isola
dei beati, le brezze dell’Oceano
fiatano intorno, brillano
i fiori d’oro,
quali da piante sulla terra splendide,
altri l’acqua li pasce,
E’ la concezione, come si può ben
capire, che, confluendo poi nel cristianesimo, diventerà dominante nella
civiltà occidentale: questo mondo è una valle di lacrime, la speranza di
felicità è relegata fuori della vita terrena, nel Paradiso (o “isola dei beati”
che dir si voglia), per chi abbia ben meritato.
Non si tratta di questo, perché
il Sileno, nel momento in cui connette inestricabilmente esistenza ed
infelicità, non fa riferimento ad un’altra possibilità di esistere, non indica
la morte come la liberazione dell’anima incarcerata nel corpo e il suo avviarsi
verso una dimensione alternativa e soddisfacente; semplicemente, dichiara che
il nulla, il non-essere, sia dell’anima che del corpo (o anche, ma è la stessa
cosa: il lasciarsi inghiottire dal c£oj, senza più memoria della propria
individualità), è l’unica condizione per la cessazione del dolore.
IV. Tutto il fulgore degli dei
olimpici impallidisce dinnanzi alla sapienza di Sileno. Il precettore di
Dioniso insegna una verità terribile: non c’è un senso, né terreno né
ultraterreno, per la vita umana. E l’ebbrietà, di cui il dio è portatore, è la
sola medicina in grado di lenire, per il tempo in cui essa dura, la malattia
del vivere; l’ebbrietà che consente, tanto nella sua forma frenetica quanto in
quella letargica, di spezzare i vincoli del principium
individuationis e di perdersi nel
tutto.
Su tale sapienza si fonda la
tragedia, la forma d’arte in cui Dioniso si concilia con Apollo, ed attraverso
cui l’uomo greco, che ha intravvisto con orrore l’assurdità dell’esistenza, si
difende dalla minaccia del c£oj e si salva dal pericolo di
perdere se stesso. Ma quell’orrore non può essere dimenticato, esso percorre la
cultura greca come un fiume sotterraneo, e riemerge più volte nella forma,
caratteristica ed inequivocabile, dell’aspirazione all’annientamento. Così si
lamenta il coro nell’Edipo a Colono di
Sofocle:
Non veder mai la luce
vince ogni confronto,
ma una volta venuti al mondo
tornar subito là onde si giunse
Analogo concetto è espresso più
volte da Euripide:
Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo,
a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce,
considerando i molteplici mali dell’umana vita;
ma chi morendo pose fine ai gravi travagli,
a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie
Quelli dei mortali che vedono la luce sono afflitti
da morbi,
Ma è una sapienza conosciuta
anche dai lirici. Così canta Teognide:
Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere
nato,
né i raggi vedere del sole abbagliante,
e, quando si è nati, al più presto varcare le soglie
di Ade
E così Bacchilide ammonisce il sire Gerone dei
siracusani, vincitore col cavallo veloce ad Olimpia:
Non esistere:
è ben questa per l’uomo la ventura
La stessa concezione è espressa
da Erodoto attraverso alcuni episodi narrati nelle Storie . Così ci dice a proposito di una popolazione della Tracia:
Quanto ai Trausi...
quando nasce o muore loro qualcuno, si comportano come segue: alla nascita di
un bambino, i parenti, sedutigli attorno, piangono i mali che dovrà sopportare
dal momento che è venuto al mondo ed elencano tutte le sciagure umane. Quando
invece uno muore, tutti, lieti e gioiosi, lo sotterrano, dicendo che egli
ormai, liberato da tanti affanni, vivrà nella perfetta felicità. [9]
In un altro momento, quando
Serse, scrutando l’Ellesponto tutto coperto di navi e le spiagge formicolanti
di uomini, si mette a piangere al pensiero di quanto sia breve la vita umana, è
Artabano a consolarlo con una verità ben più dolorosa:
In questa vita, che
pure è così breve, non esiste nessun uomo, né di questi né di altri, felice al
punto che non gli capiti spesso, e non una volta sola, di desiderare di essere
morto piuttosto che di vivere. Le sciagure che ci colpiscono e le malattie che
ci affliggono ci fanno trovare lunga questa vita, per breve che sia. Così,
essendo la vita travagliata, la morte è per l’uomo il rifugio più desiderabile.
[10]
Ma il più significativo, ed anche
il più famoso sin dall’antichità, è l’episodio di Cleobi e Bitone:
Di loro si racconta
che un giorno celebrando gli Argivi la festa in onore di Era, la loro madre
doveva essere necessariamente trasportata al santuario con un carro, ma i buoi
non erano tornati in tempo dai campi; allora i due giovani, poiché l’ora
incalzava, si misero sotto al giogo e tirarono il carro, su cui viaggiava la
madre, per quarantacinque stadi, fino al tempio; dopo di che, al cospetto della
folla dei fedeli, incontrarono la morte più bella. E di essi gli dei si
servirono per dimostrare che per gli uomini è meglio morire che vivere. Gli
Argivi, stringendosi attorno a loro, li felicitavano per la loro robustezza e
le Argive chiamavano beata la loro madre che aveva figli siffatti; la madre
infine, al colmo della gioia per l’azione che essi avevano compiuta e per le
lodi che ne avevano ricevute, ritta davanti alla statua della dea, le chiese
per i figli Cleobi e Bitone, che tanto l’avevano onorata, la cosa più bella che
potesse toccare ad un uomo. Dopo il sacrificio e il banchetto, i due giovani si
addormentarono nel tempio e non si svegliarono più, sorpresi dalla morte nel
sonno. [11]
Una simile vicenda veniva
attribuita a Trofonio ed Agamede, gli architetti del tempio di Apollo a Delfi[12]: costoro chiesero ed ottennero
dal dio come compenso per la loro opera “ciò che fosse meglio per l’uomo”: e il
dio concesse loro la morte. La morte come premio, dunque, e non per passare a
miglior vita, ma per passare al nulla.
E’ un pensiero, per altro, non
estraneo alla cultura ebraica: se ne sente l’eco nel Vecchio Testamento,
laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò
che era nato un figlio[13], e ancora, laddove l’Ecclesiaste
esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento
caratterizzante al “non essere nato”,
ricordano proprio quelle del Sileno:
E proclamai i morti più beati dei vivi,
Nel mondo latino, all’angoscia di
Lucrezio che canta il lugubre vagitum
del neonato, sbattuto come un naufrago sulla spiaggia della vita[15], risponde, in tutt’altro
contesto, l’acuta ironia dell’autore del Satyricon[16]: in mezzo alla volgarità
trionfante alla cena di Trimalchione, ci sono, attribuite alla Sibilla, parole
di ben altro peso: il responso della profetessa cumana alla domanda dei
fanciulli (“S…bulla, t… qέλεις;”)[17]
è secco e apparentemente assurdo: “Apoqane‹n
qšlw”[18].
E quel responso sorvola le teste
troppo ottuse dei liberti convitati per
giungere fin nel cuore del Novecento: Eliot lo raccoglie e lo pone ad epigrafe
de La terra desolata, siccome un
viatico per chi voglia visitarla.
[1]Aristotele,
fr. 60 Rose (trad. Carlini).
[5]Euripide, TGF, fr. 833.
[6]Euripide, TGF, fr. 908. Espressioni
analoghe si trovano anche in fr. 285 e in Ippolito,
vv. 189-90.
[7]Teognide, vv. 425-28 Young.
[12]Ce
la attesta Plutarco (Consolatio ad
Apollonium, 14), il quale peraltro dichiara di assumerla da Pindaro.
[17]“Sibilla,
che cosa vuoi?”
[18]“Voglio
morire”
Nessun commento:
Posta un commento