domenica 12 aprile 2015

"Rosa fresca aulentissima..." e l'equivoco di Dario Fo (I parte)


I. Ogni volta che presento in classe il Contrasto di Cielo d’Alcamo, mi piace leggere ai ragazzi le battute iniziali di quello straordinario pezzo di teatro che è il Mistero buffo, laddove Dario Fo propone un commento anticonformista e provocatorio del testo in questione. Più precisamente, Fo intende dimostrare che il Contrasto di Cielo (o Ciullo, come lui preferisce) d’Alcamo (o dal Camo) appartiene a pieno titolo alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e parla al popolo, e solo a causa della mistificazione (più o meno intenzionale) messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto della cultura “alta”.

Il risultato didattico è, nel complesso, positivo: i ragazzi si divertono, si interessano a quel testo letterario, lo guardano con occhi diversi. E d’altra parte, anche chi ha maggior cultura di loro resta affascinato dalla bravura con cui quel grande istrione sembra improvvisamente svelare una verità finora coperta da censure ideologiche e moralismi bigotti.

Ma io invito i ragazzi ad andarci piano, a non abbracciare una tesi per il solo fatto che ci è simpatica, perché ci piacerebbe che fosse così; li invito a valutare in modo scientifico, per quanto possibile, i termini della questione prima di concedere il proprio consenso.

 
II. Per sostenere il suo punto di vista, Dario Fo fa diverse considerazioni, tutte divertenti, ma non tutte convincenti. In particolare, mi pare che il suo ragionamento si incentri su due argomenti: quello relativo al nome dell’autore del Contrasto e quello relativo all’istituzione della defensa (o difemsa), evocata dall’amante alla quinta strofa.

Cominciamo dall’argomento del nome. Riporto qui il passo in questione[1]:

Viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d’Alcamo, ma come Cielo d’Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine “ciullo”: senza voler fare scurrilità, “ciullo” è il sesso maschile. E notate che anche in Sicilia m’è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato di “ciullo”... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato, medicato, portato via, e naturalmente il professore dice: “C’è un errore”. Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un’altra lettura. Non potevano accettare un soprannome del genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci.... Dunque, non si può dire “ciullo”. Non si può, in una scuola come la nostra, dove l’ipocrisia e la morbosità cominciano fin da quando vai all’asilo.”

 Come è noto, quella del nome è un’antica e tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta[2]. Bisognerà brevemente rimetterci mano, se si vuole stabilire quale fondamento abbia l’argomentare di Fo.

Il testo di cui parliamo ci è pervenuto anonimo. Il nome Cielo (d’Alcamo o dal Camo che sia) è attribuito all’autore da un filologo del ’500, Angelo Colocci, il quale evidentemente disponeva di fonti a noi sconosciute; costui, oltre a chiamarlo Cielo nei codici vat. 3793 e vat. 4823, dice nel codice vat. 4817: “Io non trovo alcuno se non cielo dal camo che tanto avanti scrivesse, quale noi chiameremo Celio. Costui dunque fu celebre poeta dopo la ruina de gothi...” . Ora, a parte la sua personale idea che Cielo possa corrispondere a Celio (ed a parte anche il riferimento cronologico, per noi generico, alla “ruina de gothi”), è chiaro ed inoppugnabile che Colocci ha trovato (chissà dove), e ci ha tramandato, il nome Cielo. Era un nome che sembrava strano anche a lui, visto che ha sentito il bisogno di proporne, con Celio, una sorta di latinizzazione; si può presumere, invece, che si tratti della forma toscanizzata di un siciliano Celi, a sua volta derivato da Cheli, diminutivo di Michele.

La variante Ciulo nasce nel ’600 e non si giustifica se non con una svista, una cattiva lettura, di altri studiosi (Ubaldini prima ed Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo) che del resto non ebbero altre fonti che le carte del Colocci[3]. Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo diminutivo Vincenzullo.

L’idea di Fo che Ciullo sia invece un soprannome osceno affibbiato, come si usava, a un giullare, mi parrebbe acuta e convincente, se si trattasse, appunto, di stabilire etimologia e significato di quel nome; ma quel nome non esiste, almeno per quanto riguarda l’autore del Contrasto Rosa fresca aulentissima; nasce come un fraintendimento, abbiamo visto, e per quanto ci possa parere suggestiva l’ipotesi di una censura per oscenità perpetrata nei confronti di quel nome, essa è fondata sul niente.

Questo, naturalmente, non vuol dire negare che l’autore del Contrasto fosse un giullare (anzi, se - per restare alla questione del nome - invece della forma “d’Alcamo”, che indicherebbe la città siciliana d’origine, si accetta la lettura “dal Camo”, l’ipotesi torna a riproporsi: potrebbe essere un soprannome attribuito, appunto ad un giullare, con riferimento a un certo modo di vestire, essendo il camo un panno[4]); si nega soltanto che lo si possa sostenere con quell’argomentazione.

 
III.  Ma senz’altro più rilevante, e rivelatrice, è la questione della defensa. Riporto la strofa del Contrasto che ne è all’origine e, a seguire, il monologo, tratto dal Mistero buffo, in cui Fo la spiega e commenta:

Se i tuoi parenti tròvanmi, e che mi pozzon fare?
Una difensa mèttoci di dumili’ agostari:
non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
Viva lo ’mperadore, grazi’ a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?[5]

E il ragazzo risponde sbruffone (non dobbiamo dimenticare che sta recitando il personaggio del ricco aristocratico): “Se i tuoi parenti trovanmi che ti ho appena violentata o che ti sto facendo violenza, e che mi posson fare? Una defensa mettoci di dumili’ agostari (duemila augustari)” Cosa vuol dire? L’augustario era la moneta di Augusto, inteso Federico II. Infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in cui in Sicilia governava Federico II di Svevia. Duemila augustari equivalevano, più o meno, a settantacinquemila lire odierne. E che cosa è questa defensa? Fa parte di un gruppo di leggi promulgate a vantaggio dei nobili, dei ricchi, dette “leggi melfitane”, volute proprio da Federico II, per permettere un privilegio meraviglioso a difesa della persona degli altolocati. Così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: “Viva lo ’mperadore, grazi’ a Deo!” Questo era sufficiente a salvarlo. Era come avesse detto: “Arimorta! Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato”. Infatti chi toccava l’altolocato che aveva pagato la defensa veniva immediatamente impiccato, sul posto, o un po’ più in là.
Ecco che la potete immaginare da voi tutta la scena. Grande vantaggio per il violentatore medievale era dato dal fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei pantaloni. Erano staccate: erano delle borse che si appendevano alla cintola, il che poteva permettere una condizione vantaggiosissima dell’amatore: nudo, ma però con la borsa. Perché, nel caso: “Ah, mio marito!” trac... defensa... op... “Arimorta! Ecco i quattrini!” Naturalmente bisognava avere i soldi contati, è logico, non si può: “Scusi, aspetti un attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per favore?” Subito, subito, lì, veloci! Le madri che s’interessavano della salute dei propri figlioli, una madre nobile naturalmente, e ricca, diceva sempre: “Esci? Hai preso la defensa?” “No, no, vado con gli amici...” “Non si sa mai, magari incontri...”
Ah, perché la defensa valeva anche per la violenza a base di coltello. Uno dava una coltellata a un contadino... zac... defensa! Che naturalmente era minore, centocinquanta massimo. Se poi ammazzava l’asino insieme al contadino, allora si faceva cifra tonda.
Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave della “legge” del padrone: la brutalità di una tassa che permetteva di uscire indenni da ogni violenza compiuta da quelli che detenevano il potere. Ecco perché non ce lo spiegano mai questo pezzo a scuola. Mi ricordo che sul mio libro di testo al liceo tutta questa strofa non esisteva, era stata censurata. Su latri testi c’era, ma non veniva mai spiegata. Perché? E’ logico! Per una ragione molto semplice: attraverso questo pezzo si scopre chi ha scritto il testo. Non poteva essere altro che il popolo. Il giullare che si presentava sulla piazza scopriva al popolo quale fosse la sua condizione, condizione di “cornuto e mazziato”, come dicono ancora a Napoli: cioè bastonato, oltre che cornuto. Perché questa legge gli imponeva proprio lo sberleffo, oltre che il capestro.
Dunque per Fo non c’è dubbio che si tratti di una legge “promulgata a vantaggio dei nobili, dei ricchi”, per cui “così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: “Viva lo ’mperadore, grazi’ a deo!”. Questo era sufficiente a salvarlo.”

C’è qui un errore di impostazione, frutto di una conoscenza storica approssimativa (e, direi anche, ideologicamente prevenuta).




[1]Traggo le citazioni da Mistero buffo, in Le commedie di Dario FO, vol. V, Torino 1977, con l’avvertenza che si tratta piuttosto di un canovaccio, rinnovato e modificato sera per sera, con battute e digressioni sollecitate dall’attualità. Ma il senso del discorso, per quanto riguarda la nostra questione, resta fermo e ben definito.
[2]Si vedano soprattutto: A. D’Ancona, Il Contrasto di Cielo dal Camo, in Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Ancona 1884 (pp. 387 e segg.); F. D’OVIDIO, Il Contrasto di Cielo Dalcamo, in Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910 (pp. 627 e segg.)
[3]E’ vero che nel vat. 4817 sopra citato la grafia del Colocci è tale che un inesperto potrebbe scambiare la “e” di Cielo in “v” e quindi in “u”; ma un attento studio di quella grafia impone di leggere Cielo (e del resto in altri luoghi, sempre di mano del Colocci, è inequivocabile la scrittura Cielo).
[4]E’ una congettura di V. DE BARTHOLOMAEIS (v. Le origini della poesia drammatica italiana, Torino 1952 [Bologna 1924], pp. 53-69).
[5]Qui e altrove cito il testo nella edizione di G. CONTINI, Poeti del Duecento, I, Milano-Napoli 1960.

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