I. In una calda e luminosa giornata d’estate un nobile
cavaliere, insieme ad altri suoi pari, cavalca per la selva reale di Francia al
seguito del suo signore. La compagnia si ferma a riposare in un locus
amoenus, mentre i cavalli si dilettano al pascolo. Quando si tratta di
ripartire, il nostro cavaliere, attardatosi a rintracciare il proprio cavallo
che si era allontanato, si ritrova solo e si mette alla ricerca della
compagnia. Comincia così per lui una straordinaria avventura, che lo porta
prima ad incontrare una cavalleria di morti e poi a visitare la loro sede
ultraterrena.
Il corteo
incontrato è guidato dal dio Amore ed è composto da donne, suddivise in tre
gruppi. Nel primo gruppo ci sono donne molto belle e ben vestite, che cavalcano
un palafreno lussuosamente bardato e sono accompagnate ciascuna da due
cavalieri che procedono al loro fianco e da un terzo appiedato che guida a mano
il loro cavallo: sono, costoro, quelle "beatissime donne" che in vita
concessero il loro amore agli amanti che ne erano degni, e che perciò ora
ricevono, come ricompensa, tale onore. Le donne del secondo gruppo sono
accompagnate da una gran quantità di servitori, a piedi e a cavallo, ma la
moltitudine e la confusione sono tali che esse, invece di essere adeguatamente
servite, ricevono soltanto impaccio nel cavalcare: si tratta delle donne che in
vita si concessero a tutti senza discrezione, e che perciò ora hanno in cambio
tale condizione disagiata. Nel terzo gruppo ci sono donne mal vestite,
costrette a cavalcare senza sella su cavalli macilenti e zoppicanti, senza
alcun cavaliere che le accompagni e le serva, per di più accecate e soffocate
dalla molta polvere sollevata dal gruppo precedente: sono queste le donne che
in vita "mantennero chiusa la porta dell’amore", rifiutarono di
concedersi anche ai cavalieri che degnamente le avrebbero amate, preferirono la
castità e perciò ora subiscono la giusta punizione.
Anche nel regno
governato dal dio Amore, ove il nobile protagonista giunge al seguito del
corteo, le tre schiere hanno una collocazione corrispondente: di premio o di
punizione, secondo criteri analoghi a quelli riscontrati nella cavalcata. In
una radura ci sono tre zone concentriche: quella più interna (Amoenitas)
è una sorta di paradiso terrestre, e lì, all’ombra di un grande albero e presso
il trono del dio Amore, risiedono felici con i loro cavalieri le donne che
amarono e si lasciarono amare cortesemente; nella zona intermedia (Humiditas),
su prati inondati da acqua gelida, sono collocate le donne di facili costumi; in
quella più esterna (Siccitas), arsa da un sole cocente, si trovano le
donne che si vollero mantenere caste, ora costrette, per maggiore tormento, a
sedere su dolorosi fasci di spine.
Tutto ciò è
raccontato da Andrea Cappellano nel primo libro del De amore (1), il
trattato in cui si dà sistemazione teorica a quella concezione dell’"amor
cortese" (o fin’amor) che, nata in Provenza alla fine del sec. XI,
si sarebbe poi diffusa negli ambienti colti di tutta Europa (2).
La narrazione di
visioni d’oltretomba, di defunti che ricevono premi o punizioni a seconda del
loro comportamento in vita, non è infrequente nel Medioevo: ciò che qui è
notevole è non tanto che il comportamento in questione sia esclusivamente
relativo all’amore (come era da aspettarsi, visto l’argomento oggetto del
trattato di Andrea), quanto il fatto che l’amore sia assolutamente dissociato
dall’idea cristiana di peccato, ed anzi esaltato e premiato nell’oltretomba,
quando praticato in vita secondo i canoni della cortesia (3). Né può
sfuggire che, nella visione testé narrata, la condizione peggiore (direi
‘infernale’, adottando una categoria che appartiene all’oltretomba cristiano) è
riservata alle donne che praticarono la castità (4), ovvero
la virtù per eccellenza secondo la morale cristiana, mentre una sorta di ‘regno
intermedio’ c’è per le donne che, vere e proprie lussuriose, si concessero
indiscriminatamente (5); al
‘paradiso’ hanno accesso le donne che non negarono il loro amore, ma
corrisposero, com’era giusto e doveroso, alla richiesta degli amanti cortesi (6).
La dottrina,
dunque, che ispira la visione di Andrea, è in aperto contrasto con la dottrina
cristiana, anzi si struttura come una vera e propria religione antitetica a
quella cristiana: c’è un’oltretomba, come s’è visto, e c’è un dio, Amore, che
attribuisce premi e castighi secondo un rigoroso contrappasso, che determina la
condizione ultraterrena in relazione al comportamento tenuto in vita. Ciò
appare anche più evidente se si nota che, nella concezione cortese, l’amore è
sì sentito come un sentimento nobile e nobilitante, ma non per questo è ridotto
ad un fatto puramente spirituale, depauperato delle sue componenti
erotico-sensuali: al contrario, tali componenti - apertamente valorizzate nel
trattato di Andrea (7)-
costituiscono le fondamenta su cui si innalza la grande elaborazione culturale
dell’amor cortese; e il fatto che l’adulterio ne sia un canone qualificante (8),
dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che l’amore di cui si tratta
è un amore-passione, in forza di ciò legittimato a realizzarsi al di fuori dei
vincoli di interesse e convenienza connessi con il matrimonio. In altre parole
si potrebbe anche dire che la dottrina in questione, di cui Andrea è il grande
divulgatore, intende dare dignità morale a quella passione amorosa da sempre
oggetto della riprovazione della Chiesa.
Nel merito, la
storia secolare dell’atteggiamento della Chiesa, da Paolo di Tarso a Tommaso
d’Aquino, è sostanzialmente una storia di condanne: la passione d’amore, che
travolge la ragione, è peccaminosa, è il segno dell’imperfezione umana dopo la
Caduta; l’amore carnale, fuori del matrimonio, non si giustifica in alcun modo,
nel matrimonio è tollerato ai fini della procreazione, ma, anche in questo
caso, con le dovute cautele, perché il desiderio è intrinsecamente malvagio.
Basterà ricordare, per tutti, Gerolamo che, nell’Adversus Jovinianum,
bolla così il desiderio troppo intenso del marito: "Adulter est in suam
uxorem amator ardentior... Sapiens vir iudicio debet amare coniugem, non
adfectu... Nihil est foedius quam uxorem amare quasi adulteram." (9)
Di tutto ciò
Andrea era ben consapevole, se è vero che la ritrattazione del III libro (De
reprobatione amoris) è motivata anche dalla paura di incorrere in una
condanna per eresia. Il "cappellano", da buon chierico, finiva per
negare, in nome della verità di fede, ciò che per due libri aveva esaltato in
nome della verità di ragione: quello stesso amore che era stato celebrato come
fonte di ogni azione virtuosa e degna di lode, viene ora indicato, nel III
libro, come grave offesa a Dio, origine di ogni comportamento delittuoso, causa
di dannazione eterna. Ma evidentemente quella ritrattazione, così poco
convincente per noi, nemmeno convinse l’autorità ecclesiastica: le "due
verità" non potevano coesistere, e la condanna (che intendeva colpire proprio
la tesi della "doppia verità" sostenuta dagli averroisti latini) si
abbatté sul libro di Andrea il 7 marzo del 1277, per opera del vescovo di
Parigi, Stephen Tempier (10).
Del resto, quella
condanna, che arrivava circa un secolo dopo la pubblicazione del libro, non era
che l’ultimo anello di una catena che aveva finito per strangolare, insieme
all’amor cortese, la possibilità stessa di fondare una morale e un pensiero
alternativi a quelli imposti dalla ortodossia cattolica.
E’ una storia
che, per un verso, rimanda a quella delle dispute teologiche che, nel corso dei
secoli XII e XIII, videro contrapporsi scuole di pensiero di ascendenza
aristotelica e platonica; per altro verso, si intreccia con la vicenda della
persecuzione delle eresie, che ebbe come momento culminante la crociata contro
gli Albigesi voluta da papa Innocenzo III nel 1208.
Per quanto
riguarda il primo aspetto, basterà ricordare che certo ‘naturalismo’ di
ispirazione platonica (si pensi, in particolare, ai poeti e filosofi della
scuola di Chartres, attivi nella prima metà del XII secolo) proprio in quanto
metteva l’accento sulle potenzialità della Natura, vicaria di Dio, finiva anche
per valorizzare l’intrinseca bontà dell’amore terreno fra l’uomo e la donna. Il
prevalere dell’aristotelismo, soprattutto per opera di Tommaso d’Aquino nella
seconda metà del XIII secolo, sia sul piano teologico ristabilì le distanze fra
il cielo e la terra, sia sul piano morale relegò definitivamente nel territorio
del peccato l’etica profana dell’amore cortese (11).
Ma quell’etica
dovette subire il contraccolpo anche sul fronte della guerra che la Chiesa di
Roma combatté e vinse contro le eresie. Quale che fosse la relazione fra il
catarismo, particolarmente vigoroso nel sud della Francia, e la grande cultura
cortese fiorita pressoché contemporaneamente negli stessi luoghi (12), non
c’è dubbio che la crociata contro gli Albigesi non si limitò ad estirpare la
mala pianta dell’eresia, ma determinò anche in modo irreversibile il tramonto
di quella civiltà. In particolare, non poteva avere cittadinanza all’interno
della comunità cristiana la concezione dell’amore che celebrava apertamente una
passione tutta terrena e addirittura idealizzava l’adulterio: fu perseguita
come una peste, come il frutto avvelenato di quella haeretica pravitas
che, in spregio del matrimonio, sembrava aver rovesciato il detto paolino (melius
est nubere quam uri) nel suo contrario (melius est uri quam nubere).
NOTE
1) Dell’autore poco si sa, se non che fu attivo fra la seconda metà del sec. XII e i primi decenni del secolo successivo, e, presumibilmente, fu ‘cappellano’ (da cui l’appellativo con cui è ricordato nei codici) prima alla corte di Maria di Champagne, poi a quella del re di Francia Filippo Augusto. L’opera, a cui è legata la sua fama, il De amore (o De arte honeste amandi), è un trattato in tre libri, scritto in latino e tradotto ben presto nelle principali lingue indo-europee (lo cito nell’edizione a cura di G. Ruffini, Milano 1980).
2) Si tratta di una concezione sulle cui origini (latine, germaniche, celtiche, arabe) molto si è discusso, ma che indubbiamente - quali che siano gli stimoli culturali in essa confluiti: si pensi, soprattutto, all’Ars amandi di Ovidio - si pone come radicalmente nuova, sia rispetto alla tradizione classica (che concepisce l’amore come sensuale, fonte di gioia e dolore, ma sempre, in definitiva, come una malattia che fa perdere il senno), sia, come diremo, rispetto alla concezione cristiana. Nuova è l’idealizzazione della donna, cui l’uomo si sottomette con umiltà e fedeltà di ‘vassallo’, e nuova è l’idea dell’amore come un sentimento nobile e nobilitante, proprio soltanto di chi ha costumi, ed animo, ‘cortesi’ . Ed è una novità che impronterà di sé la cultura occidentale fino ai giorni nostri. Della vastissima bibliografia in merito, mi limiterò a ricordare gli studi più significativi: M. FAURIEL, Histoire de la poésie provençale, Parigi 1846; E. WECHSSLER, Frauendienst und Vassalität, in "Zeitschrift für französiche Sprache und Literature", XXIV, Iena 1902; Das Kulturproblem des Minnesangs, Halle 1909; J. ANGLADE, Les troubadours, leurs vies, leurs œuvres, leur influence, Parigi 1908; A. JEANROY, La poésie lirique des Troubadours, Parigi 1934; C. S. LEWIS, The Allegory of Love, Oxford, 1936 (tr. it., L’allegoria d’amore, Torino 1969); A.J. DENOMY C. S. B., An Inquiry into the Origins of Courtly Love, in "Mediaeval Studies", VI, Londra 1944; Fin’Amors: the Pure Love of the Troubadours, its Amorality, and Possible Source, ibid., VII, 1945; R. NELLI, L’érotique des troubadours, Parigi 1974 [Tolosa 1963]; R. BEZZOLA, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), Parigi 1944-63; M. LAZAR, Amour courtois et "fin’amors" dans la littérature du XII siècle, Parigi 1964; C. CAMPROUX, Le Joy d’Amor des Troubadours, Montpellier 1965; A. VISCARDI, Tradizione latina e origini romanze, in Le Origini, Milano 1966 [1939]; I. MARGONI, Fin’amors, mezura e cortesia. Saggio sulla lirica provenzale del XII sec., Milano 1965; E. KÖHLER, Sociologia della fin’amors. Saggi trobadorici, Padova 1976; H. REY-FLAUD, La nevrose courtoise, Parigi 1983 (tr. it., Parma, 1991). Per altre indicazioni bibliografiche, rimando allo studio di R. Nelli sopra citato (tomo II, pp. 383-397), nonché alla bibliografia ragionata, a cura di A. M. Finoli, in appendice a M. VISCARDI, Le letterature d’oc e d’oil, Firenze-Milano 1967 (pp. 429-452).
3) Ricordo che una visione piuttosto simile si trova nell’anonimo Lai du trot, composto in lingua d’oil (lo si può leggere in P. M. O’HARA TOBIN, Les lais anonymes des XIIe et XIIIe siècles, Genève 1976). Problemi di datazione non consentono di stabilire quale dei due testi sia stato di modello all’altro, anche se è presumibile un’anteriorità del trattato di Andrea.
4) illae omnium mulierum miserrimae, quae, dum viverent, cunctis amoris intrare palatium clausere volentibus... omnes amoris postulantes deservire militiae abiecerunt et tamquam sibi odiosos repulerunt (le donne più miserabili di tutte, che, in vita, chiusero la porta a tutti quelli che volevano entrare nel palazzo di amore... rifiutarono e respinsero come odiosi coloro che chiedevano di servire in amore) (De amore, cit., p. 86).
5) mulieres istae immundae, quae, dum viverent, non sunt veritae cunctorum se voluptati exponere (donne immonde, che, in vita, non ebbero ritegno di offrirsi al piacere di tutti) (ibid.).
6) beatissimae feminae, quae, dum viverent, sapienter se amoris noverunt praebere militibus et amare volentibus cunctum praestare favorem (donne beatissime, che, in vita, seppero saggiamente offrirsi ai cavalieri d’amore e concessero tutto il loro favore a quelli che volevano amarle) (ibid.).
7) In esso si distingue, è vero, fra amor purus e amor mixtus; ma l’amore ‘puro’, che è quello ideale, da praticarsi dai veri amanti, lungi dall’essere un amore spirituale, si risolve in un raffinato gioco erotico fondato sul controllo del desiderio (sono concessi il bacio della bocca, le carezze e l’abbraccio fra gli amanti nudi: extremo praetermisso solatio, escluso il congiungimento carnale); d’altra parte l’amore ‘misto’ è, sì, inferiore, in quanto cede al desiderio e si sazia nell’‘ultimo’ piacere (in extremo opere Veneris terminatur), ma non per questo è da evitarsi assolutamente, giacché "anche l’amore misto è vero amore, da lodarsi, origine di ogni bene" (nam et mixtus amor verus est amor atque laudandus et cunctorum esse dicitur origo bonorum). Cfr. De amore, cit., pp. 162-164; e anche pp. 240-242.
8) Ciò non solo è evidente nella letteratura cortese, dalla lirica provenzale ai romanzi cavallereschi, ma è espressamente dichiarato proprio nel De amore (cit., p. 139: nulla etiam coniugata regis poterit amoris praemio coronari, nisi extra coniugii foedera ipsius amoris militiae cernatur adiuncta; nessuna donna, anche moglie di re, potrà essere degna di elogio in amore, se non amerà fuori del vincolo coniugale).
9) E’ adultero chi ama la propria moglie con troppo ardore... L’uomo saggio deve amare la moglie con giudizio, non con passione... Non c’è niente di più turpe che amare la moglie come un’adultera (Adversus Jovinianum, libro I, § 49, in Patrologia Latina, XXIII, Turnhout 1969, p. 293).
10) Anche la questione della ritrattazione è stata oggetto di varie interpretazioni. A me pare convincente la tesi, sostenuta da M. GRABMANN (Das Werk De amore des Andreas Capellanus und das Verurteilungsdektret des Bischofs Stephan Tempier von Paris vom 7. März 1277, in "Speculum", VII, 1932, pp. 75-79) e successivamente ripresa da A. J. DENOMY C. S. B. (The De amore of Andreas Capellanus and the Condemnation of 1277, in "Mediaeval Studies", VIII, 1946, pp. 107-149), secondo cui, appunto, Andrea intendeva salvarsi l’anima (e probabilmente, aggiungo io, anche il corpo) con la trovata della "doppia verità". Certamente, in ogni caso, così la intese il vescovo di Parigi, che non solo condanna il De amore nella sua totalità (indicandolo con le parole iniziali del I libro e quelle conclusive del III libro), ma fa esplicito riferimento alle tesi di coloro (e sono i cosiddetti averroisti latini, in specie Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia) che "dicunt ea esse vera secundum philosophiam, sed non secundum fidem catholicam, quasi sint due contrarie veritates ".
11) A questa problematica accenna D’ARCO S. AVALLE, in Ai luoghi di delizia pieni, Milano-Napoli 1977, pp. 23 e sgg.. In particolare sulla scuola di Chartres si possono vedere C.S. LEWIS, L’allegoria d’amore, cit. (pp. 85-107) e E. CURTIUS, Europäische und lateinisches Mittelalter, Berna 1948 (tr. it., Letteratura europea e Medioevo latino, Firenze 1992, pp. 123-145).
12) E’ una tesi che ha suggestionato più di uno studioso. Valga, per tutti, il bel libro di D. de ROUGEMONT, L’Amour et l’Occident, Parigi 1939 (tr. it. , L’amore e l’occidente, Milano 1977).
Nessun commento:
Posta un commento