venerdì 10 aprile 2015

Leopardi e la sapienza silenica (I parte)


I. Quando faccio lezione su Leopardi, mi trovo a dover sbrogliare il campo dal  pregiudizio (diffuso, peraltro, anche presso i contemporanei del poeta, come ampiamente testimoniato[1]) secondo cui sarebbero le personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo. Ed è un pregiudizio, a dir poco, fastidioso, in quanto inficia la comprensione di quel pensiero, lo svaluta, quasi fosse un pensiero dimidiato, lo riduce al miserevole lamento di chi non è capace di astrarre dalla propria condizione individuale per dire parole di verità.  Né vale citare come testimone a difesa lo stesso Leopardi, quando nella esemplare lettera al De Sinner si ribella con forza a questo trattamento liquidatorio riservatogli da critici e lettori sbrigativi[2]; e nemmeno serve cercare di spiegare, con Timpanaro, come quelle disgrazie fisiche, caso mai, si trasformino in un “formidabile strumento conoscitivo”, giacché consentono uno sguardo più acuto su verità altrimenti misconosciute dalla “normalità” dominante.

Certo, i ragazzi amano il grande Leopardi degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, il poeta del maggio odoroso, delle care speranze, degli ameni inganni, perché lì avvertono, prima ancora di averne sentito parlare,  la profonda verità di quel giudizio di De Sanctis, secondo cui “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...”[3]. Ma permane una sorta di diffidenza verso il pensatore che sembra incattivito con la vita, quando argomenta, con Porfirio, a favore del suicidio[4], o quando dichiara, con Tristano, di desiderare solo la morte[5], o quando, senza altri travestimenti, dice direttamente, nello Zibaldone, di vedere un ospedale laddove gli altri vedono un giardino[6].

Mi sembra utile, allora, compiere un altro percorso, del resto indicato dallo stesso Leopardi nel sopra citato Dialogo di Tristano ed un amico[7]: si tratta di mostrare come quel pensiero, lungi dall’essere un pensiero singolare, frutto occasionale di una vita singolarmente “strozzata”, appartiene a buon diritto alla cultura occidentale, la pervade sin dalle sue origini greche, preesiste quindi a Leopardi e persiste oltre di lui.

In altre parole, Leopardi - e in questo, il solo Schopenhauer gli può stare a fianco - non è che un discepolo di Sileno, un divulgatore della sua sapienza.

Di che si tratta?


II. Nella Nascita della tragedia Nietzsche svela, attraverso il mito del Sileno[8], l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta armonia del mondo greco:

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non  essere, essere  niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”. [9]

 Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Chi parla è il precettore di Dioniso, la divinità che si contrappone ad Apollo così come al kÒsmoj si contrappone il c£oj, senza ordine e senza misura; e il suo non è un lamento occasionale, dettato dall’esperienza di sventure particolari. Ciò che nelle sue parole si deve intendere è che il dolore, al di là delle condizioni personali, o sociali, o comunque contingenti, è connaturato all’esistenza, al punto che non esistere è la condizione migliore. Né Sileno si rivolge ad un miserabile che conduce una vita di stenti e di privazioni, e per il quale quindi il “non essere nato” o il “morire presto” sarebbero ben comprensibili; si rivolge ad un re, ricco e potente, chiamandolo “figlio del caso e della pena” (da…monoj ™pipÒnou kaˆ tÚchj calepÁj ™f»meron spšrma) e svelandogli una verità inaspettata, paradossale, scandalosa: per un re, come per l’ultimo dei suoi sudditi, meglio sarebbe “non essere nato” (tÕ m¾ genšsqai) o, in secondo luogo, “morire presto”  (¢poqane‹n æj t£cista).

  Altra cosa, come si può ben capire, è lo sconforto che sorprende, ad esempio, anche Omero quando fa esclamare a Zeus:

Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo 
fra tutto ciò che respira e cammina sopra la terra [10]

 Non si tratta di questo, perché la visione omerica resta sostanzialmente una visione serena, “apollinea”, convinta della bellezza della vita e fiduciosa nel favore degli dei; gli eroi omerici amano la vita, ne deprecano la brevità, sono rattristati dal pensiero della morte: famoso, ed emblematico, è il passo dell’Odissea dove Achille, incontrato da Ulisse fra le ombre dell’Ade, rimpiange la vita perduta:

Vorrei essere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezza
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte [11]

E’ lo stesso ordine di idee per cui Semonide e Mimnermo, pur compiangendo la miseria della condizione umana, esortano a godere le gioie della vita. E Mimnermo vuole vivere, non morire, quando esclama:

Senza malattie, senza funesti pensieri,
il destino di morte mi colga a sessant’anni ! [12]

Così pure vuole vivere Solone, che, avendo già varcato il limite dei sessant’anni, rilancia l’augurio un po’ più in là:

Il destino di morte mi colga ad ottant’anni ! [13]

Ed anche Saffo, per citare un ultimo esempio, dimostra di essere ben lontana dalla sapienza silenica quando, pur fra i tormenti d’amore, si chiede perché mai gli dei sarebbero immortali se la vita non fosse un bene[14].

 
 




[1]A parte Tommaseo, che manifestava normalmente il suo “dissenso” da Leopardi con riferimenti insultanti alla gobba, anche Capponi, il “candido Gino”, si esprimeva così, pochi anni dopo la morte del poeta: “Io per me credo proprio... che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole. Il povero Leopardi aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il non sapere vivere gobbi?” (da Pensieri diversi, in Scritti editi e inediti di Gino Capponi, a c. di M. Tabarrini, Firenze 1877, vol. II, p. 445).
[2] “Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione... E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, in francese nell’originale; cfr. Leopardi, Le lettere, Milano 1963 [1949], p. 1033).
[3]F. De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Bari 1965, p. 184.
[4]nel Dialogo di Plotino e Porfirio .
[5]nel Dialogo di Tristano e un amico .
[6]Zib., 4176. Cito, qui e in seguito, le pagine del manoscritto leopardiano nell’edizione a cura di G. Pacella, Milano 1991.
[7]“Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.” (cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, I, Milano 1968 [1940], p. 1021).
[8]Era ritenuto il precettore di Dioniso. Sul suo incontro con il re Mida circolavano diverse versioni. Quella riportata da Nietzsche è tramandata da Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 27), il quale a sua volta dichiara di assumerla da un dialogo di Aristotele, l’Eudemo  (fr. 44 Rose).
[9]F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie. Oder: Griechenthum und Pessimismus, tr. it. Milano 1982, pp. 31-32.
[10]Omero, Iliade, XVII, vv. 446-47 (trad. Calzecchi Onesti); ma un’esclamazione analoga si trova anche in Odissea, XVIII, vv. 130-131.
[11]Omero, Odissea, XI, vv. 489-91 (trad. Calzecchi Onesti). Bisognerà dire, quindi, che sia il Tristano di Leopardi (vedi sopra, alla nota 7) sia Schopenhauer negli Ergänzungen  (tr. it.  Bari 1986 [1930], p. 607) impropriamente fanno riferimento ad Omero quando indicano le radici del loro pessimismo.
[12]Mimnermo, fr. 6 Diehl.
[13]Solone, fr. 22 Diehl.
[14]Fr. 201 Lobel-Page.
[15]Aristotele, fr. 60 Rose (trad. Carlini).
[16]Pindaro, Ol. 2, vv. 68-74 (trad. Pontani).

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