I. Quando faccio lezione su
Leopardi, mi trovo a dover sbrogliare il campo dal pregiudizio (diffuso, peraltro, anche presso
i contemporanei del poeta, come ampiamente testimoniato[1]) secondo cui sarebbero le
personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo.
Ed è un pregiudizio, a dir poco, fastidioso, in quanto inficia la comprensione
di quel pensiero, lo svaluta, quasi fosse un pensiero dimidiato, lo riduce al
miserevole lamento di chi non è capace di astrarre dalla propria condizione
individuale per dire parole di verità.
Né vale citare come testimone a difesa lo stesso Leopardi, quando nella
esemplare lettera al De Sinner si ribella con forza a questo trattamento
liquidatorio riservatogli da critici e lettori sbrigativi[2]; e nemmeno serve cercare di
spiegare, con Timpanaro, come quelle disgrazie fisiche, caso mai, si
trasformino in un “formidabile strumento conoscitivo”, giacché consentono uno
sguardo più acuto su verità altrimenti misconosciute dalla “normalità”
dominante.
Certo, i ragazzi amano il grande
Leopardi degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, il poeta del maggio
odoroso, delle care speranze, degli ameni inganni, perché lì avvertono, prima
ancora di averne sentito parlare, la profonda
verità di quel giudizio di De Sanctis, secondo cui “Leopardi produce l’effetto
contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l’amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...”[3]. Ma permane una sorta di
diffidenza verso il pensatore che sembra incattivito con la vita, quando
argomenta, con Porfirio, a favore del suicidio[4], o quando dichiara, con
Tristano, di desiderare solo la morte[5], o quando, senza altri
travestimenti, dice direttamente, nello Zibaldone,
di vedere un ospedale laddove gli altri vedono un giardino[6].
Mi sembra utile, allora, compiere
un altro percorso, del resto indicato dallo stesso Leopardi nel sopra citato Dialogo di Tristano ed un amico[7]: si tratta di mostrare come quel
pensiero, lungi dall’essere un pensiero singolare, frutto occasionale di una
vita singolarmente “strozzata”, appartiene a buon diritto alla cultura
occidentale, la pervade sin dalle sue origini greche, preesiste quindi a
Leopardi e persiste oltre di lui.
In altre parole, Leopardi - e in
questo, il solo Schopenhauer gli può stare a fianco - non è che un discepolo di
Sileno, un divulgatore della sua sapienza.
Di che si tratta?
II. Nella Nascita della tragedia Nietzsche svela, attraverso il mito del
Sileno[8], l’inquietante verità che corrode
dall’interno la composta armonia del mondo greco:
L’antica leggenda
narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di
Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re
domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e
immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule
risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non
sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato,
non essere,
essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”. [9]
Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la
sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui
gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e
la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una
sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è
costitutiva dell’essere. Chi parla è il precettore di Dioniso, la divinità che
si contrappone ad Apollo così come al kÒsmoj si contrappone il c£oj,
senza ordine e senza misura; e il suo non è un lamento occasionale, dettato
dall’esperienza di sventure particolari. Ciò che nelle sue parole si deve
intendere è che il dolore, al di là delle condizioni personali, o sociali, o
comunque contingenti, è connaturato all’esistenza, al punto che non esistere è
la condizione migliore. Né Sileno si rivolge ad un miserabile che conduce una
vita di stenti e di privazioni, e per il quale quindi il “non essere nato” o il
“morire presto” sarebbero ben comprensibili; si rivolge ad un re, ricco e
potente, chiamandolo “figlio del caso e della pena” (da…monoj ™pipÒnou kaˆ tÚchj calepÁj
™f»meron spšrma) e
svelandogli una verità inaspettata, paradossale, scandalosa: per un re, come
per l’ultimo dei suoi sudditi, meglio sarebbe “non essere nato” (tÕ m¾ genšsqai) o, in secondo luogo, “morire
presto” (¢poqane‹n æj t£cista).
Altra cosa, come si può ben capire, è lo sconforto che sorprende, ad
esempio, anche Omero quando fa esclamare a Zeus:
Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo
Non si tratta di questo, perché la visione
omerica resta sostanzialmente una visione serena, “apollinea”, convinta della
bellezza della vita e fiduciosa nel favore degli dei; gli eroi omerici amano la
vita, ne deprecano la brevità, sono rattristati dal pensiero della morte: famoso,
ed emblematico, è il passo dell’Odissea
dove Achille, incontrato da Ulisse fra le ombre dell’Ade, rimpiange la vita
perduta:
Vorrei essere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezza
E’ lo stesso ordine di idee per
cui Semonide e Mimnermo, pur compiangendo la miseria della condizione umana,
esortano a godere le gioie della vita. E Mimnermo vuole vivere, non morire,
quando esclama:
Senza malattie, senza funesti pensieri,
Così pure vuole vivere Solone,
che, avendo già varcato il limite dei sessant’anni, rilancia l’augurio un po’
più in là:
Ed anche Saffo, per citare un
ultimo esempio, dimostra di essere ben lontana dalla sapienza silenica quando,
pur fra i tormenti d’amore, si chiede perché mai gli dei sarebbero immortali se
la vita non fosse un bene[14].
[1]A
parte Tommaseo, che manifestava normalmente il suo “dissenso” da Leopardi con
riferimenti insultanti alla gobba, anche Capponi, il “candido Gino”, si
esprimeva così, pochi anni dopo la morte del poeta: “Io per me credo proprio...
che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole. Il
povero Leopardi aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il
non sapere vivere gobbi?” (da Pensieri
diversi, in Scritti editi e inediti
di Gino Capponi, a c. di M.
Tabarrini, Firenze 1877, vol. II, p. 445).
[2]
“Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse
un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non
cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità
futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione... E’ stato proprio per
questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia
disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto,
è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno
d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie
opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che
ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo
al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste
invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di
cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che
accusare i miei malanni.” (Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, in francese
nell’originale; cfr. Leopardi, Le lettere,
Milano 1963 [1949], p. 1033).
[6]Zib., 4176. Cito, qui e in seguito, le
pagine del manoscritto leopardiano nell’edizione a cura di G. Pacella, Milano
1991.
[7]“Ma
poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era
tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi
che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di
sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo
è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per
chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in
giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.” (cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, I, Milano 1968
[1940], p. 1021).
[8]Era
ritenuto il precettore di Dioniso. Sul suo incontro con il re Mida circolavano
diverse versioni. Quella riportata da Nietzsche è tramandata da Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 27), il quale
a sua volta dichiara di assumerla da un dialogo di Aristotele, l’Eudemo
(fr. 44 Rose).
[9]F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie. Oder:
Griechenthum und Pessimismus, tr. it. Milano 1982, pp. 31-32.
[10]Omero,
Iliade, XVII, vv. 446-47 (trad.
Calzecchi Onesti); ma un’esclamazione analoga si trova anche in Odissea, XVIII, vv. 130-131.
[11]Omero,
Odissea, XI, vv. 489-91 (trad.
Calzecchi Onesti). Bisognerà dire, quindi, che sia il Tristano di Leopardi
(vedi sopra, alla nota 7) sia Schopenhauer negli Ergänzungen (tr. it. Bari 1986 [1930], p. 607) impropriamente
fanno riferimento ad Omero quando indicano le radici del loro pessimismo.
[12]Mimnermo,
fr. 6 Diehl.
[13]Solone,
fr. 22 Diehl.
[14]Fr.
201 Lobel-Page.
[15]Aristotele,
fr. 60 Rose (trad. Carlini).
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