mercoledì 8 aprile 2015

La poetica di Leopardi (III parte)

 
9) Dalla teoria del piacere al piacere dell’indefinito

Si tratta di riflessioni per lo più riconducibili agli anni 1820-21, ma poi più volte riprese successivamente (in particolare, sulla rimembranza, negli anni 1827-28, gli anni dei canti pisano-recanatesi). E dunque: il diletto cui si affida la poesia, nel tempo in cui la conoscenza del vero rende impossibile il piacere delle favole, è il diletto suscitato da parole, immagini e suoni vaghi e indefiniti. E’ un pensiero che discende da quella teoria del piacere che Leopardi veniva elaborando e il cui nucleo centrale appartiene al luglio del 1820 (ed è, per inciso, il vero nucleo fondante del pessimismo leopardiano, a testimonianza della stretta correlazione esistente fra visione complessiva e riflessione specifica sulla poesia): il desiderio di piacere, connaturato all’esistenza individuale (per inciso: di ogni essere vivente), è senza limiti di durata e di estensione, e come tale (per quanto possa essere, occasionalmente, "ingannato", "mitigato", "addormentato") non può essere mai soddisfatto; l’immaginazione supplisce a questa impossibilità di soddisfazione, in quanto capace di concepire ciò che non è limitato e circoscritto (ciò che quindi è adeguato alla infinitezza del piacere desiderato); e dunque la poesia piace, comunica piacere, proprio perché offre alla immaginazione del lettore uno spazio infinito in cui vagare (12-23 luglio 1820):

il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione… la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione… Quindi è manifesto: 1. Perché tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto… 2. Perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve preferire naturalmente agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare (Zib. 81) (luglio 1820)

fra tutte le letture, quella che lascia l’animo meno desideroso del piacere è la lettura della vera poesia. La quale destando emozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec., lo riempie quanto più si possa a questo mondo (Zib. 444) (27/8/21)

10.1) La poetica dell’indefinito: le parole

Ecco quindi le riflessioni famose sulla lingua della poesia, sulle "parole" che non sono "termini" (30-4-1820):

Le parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini… Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole. (Zib. 60) (30/4/20)

sulle parole come "notte", "notturno", "oscurità", "profondo", che sono poeticissime in quanto offrono all’animo "un’immagine vaga, indistinta, incompleta" (28-9-21), o come "lontano" e "antico" che "destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse" (25-9-21); su quelle "che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità, ec.", come "tanto", "ultimo", "mai più", che "sono di grand’effetto poetico per l’infinità" (3-10-21);

10.2) La poetica dell’indefinito: le immagini e i suoni

ma anche quelle sulle immagini, che sono piacevoli quando evocano sensazioni di infinito, perché la vista non arriva ad abbracciarle:

una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, il cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio (Zib. 411) (1-8-21)

o perché sono di ostacolo allo spaziare della vista. e quindi sollecitano l’immaginazione dell’infinito (esemplarmente, la siepe de L’Infinito):

Una fabbrica, una torre ec. veduta in modo ch’ella paia inalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito (ivi)

sul suono, che, analogamente,

è piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per una idea vaga e indefinita che desta, una canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco lontanando… o che sia così lontano…che l’orecchio quasi lo perda nella vastità degli spazi… un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte… Stando in casa, e udendo tali canti e suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli altri sensi arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze. (Zib. 523) (16-10-21)

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze (Zib. 1151) (21-9-27);

10.3) La poetica dell’indefinito: la rimembranza e la doppia visione

e infine quelle sulla rimembranza, che è poetica perché ci allontana dal presente e ci rimanda alle lontananze della fanciullezza, e quindi ci comunica quella sensazione di indefinito collegata alla lontananza nel tempo:

la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca, una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso dell’immagine antica... in maniera che se non fossimo stati fanciulli, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano (Zib. 175) (16-1-21)

Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Zib. 1199) (14-12-28)

riflessioni associabili a quelle sulla "doppia visione" propria del poeta:

forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei… vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. (Zib. 175) (16-1-21)

All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (Zib. 1196) (30/11/28)[1]

11) La sera del dì di festa, un testo esemplare

Tutto ciò si può vedere in maniera esemplare ne La sera del dì di festa, un idillio del 1820. L’incipit famoso rimanda a versi omerici (Iliade, VIII, 555 e sgg.), tanto cari a Leopardi che li aveva citati nel Discorso come esempio della poesia antica che sa sollecitare i sentimenti con semplicità, imitando la natura (e non in maniera artificiosa e forzata, come fanno i romantici, che riproducono immagini e situazioni straordinarie):

Sì come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, / e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.

Ed è un incipit carico di suggestioni indefinite (più che per le parole evocative dell’indefinito, che pure ci sono[2], per la stessa atmosfera notturna e per la visione in lontananza delle montagne; e poi, naturalmente, per quel canto notturno dell’artigiano udito in lontananza, vera e propria cerniera fra le du parti che compongono l’idillio). Quel "posa" (verbo che ritorna al verso 38) piaceva ad Ungaretti, il quale ci sentiva un’eco del Trionfo petrarchesco (e Petrarca è il poeta sentimentale per eccellenza), laddove, descrivendo la morte di Laura, si dice che "parea posar come persona stanca"[3] (a questo proposito, bisognerà notare che la scelta del verbo è dell’edizione Starita del 1835, perché prima si era sempre letto "La luna si riposa, e le montagne / si discopron da lungi"; ma il "posa" era già entrato nell’edizione Piatti del 1831 a correzione dei versi 38-39, che prima suonavano così: "Tutto è silenzio e pace, e tutto cheto / è ‘l mondo, e più di lor non si favella").

Ma è anche una poesia che non prescinde dalla conoscenza del vero, anzi se ne nutre drammaticamente, in quanto fondata sul contrasto fra la serenità del paesaggio (dolce e chiaro) e la sofferenza disperata del poeta (sofferenza che si manifesta in forme titaniche, fortemente "patetiche", di ascendenza, mi pare, alfieriana e ortissiana). Segue il canto solitario dell’artigiano, ed è un’altra sensazione vaga e indefinita (proprio quell’esempio citato nello Zibaldone); il canto, a sua volta, sollecita non solo pensieri sullo scorrere del tempo (sulla sua infinitezza, per contrasto, cosiccome il canto contrasta col silenzio: lo stesso effetto provocato ne L’Infinito dallo stormire del vento tra le piante), ma anche la rimembranza dell’infanzia (negli ultimi versi); di più, quel canto che è sentito come il "doppio" di uno stesso canto udito nell’infanzia, è senz’altro un bell’esempio di quella doppia visione di cui è capace l’uomo "sensibile e imaginoso" (quale è il poeta).

Altre osservazioni si possono fare, a partire dalla considerazione che l’idillio è spesso sembrato ai lettori, nella sua struttura, un po’ disorganico, frammentario, non perfettamente composto nei suoi elementi costituivi, in sostanza, spezzato al verso 24 in due parti, apparentemente non omogenee, disunite. Ma intanto quel verso, pur con la pausa imposta dalla punteggiatura (che sancisce il passaggio da un motivo all’altro: dalla disperazione individuale del poeta alla sensazione acustica del canto dell’artigiano), ha una forte continuità metrica, segnata dalla sinalefe fra "etate" ed "ahi"[4]; quindi introduce il motivo (l’evento acustico) che è la vera chiave di volta del componimento, una chiave di volta che illumina anche retrospettivamente il senso dell’idillio.

Allora il notturno lunare con cui si apre il componimento, con il suo silenzio dopo i rumori della festa, non solo si contrappone drammaticamente alla disperazione del poeta (a significare la crudele indifferenza della natura di fronte al dolore individuale), ma anche prefigura il silenzio in cui, nella seconda parte, precipitano i grandi eventi della storia: un silenzio, quest’ultimo, in cui tutto (il dolore individuale cosiccome la gloria dei popoli antichi), annullandosi nell’infinito scorrere del tempo, perde di senso. Il ritorno nei due contesti del verbo "posa" (v. 3 e v. 38) in contrapposizione al "grido" (di disperazione del poeta, al v. 23; dei popoli antichi, al v. 34) avvalora questa lettura.

Data la centralità del canto dell’artigiano (che quindi sembra avere una funzione analoga a quella del vento che stormisce tra le piante, nell’Infinito), tutto il resto (come bene ha messo in luce Luigi Blasucci)[5] si assesta simmetricamente: silenzio e serenità della natura, gesticolazione fisica e verbale del poeta ("grido"), canto dell’artigiano, "grido" dei popoli antichi, silenzio in cui tutto precipita.

In appendice, l’eco di quel canto nella memoria dell’infanzia (che crea grande suggestione poetica, come è proprio della rimembranza): "già similmente mi stringeva il core" quella sensazione di naufragio (altrettanto "dolce"?) nell’infinità del tempo.

 



[1] Questo pensiero mi ha sempre fatto venire in mente la “memoria involontaria” di Proust, in particolare il famoso episodio della madeleine narrato nel primo volume (Du côté de Chez Swann) della Recherche. Quella doppia visione che Leopardi dice propria dell’uomo sensibile e immaginoso mi ricorda quelle sensazioni che Proust prova – e che cerca con fatica di afferrare e definire – quando inzuppa la madeleine nella tazza di tè, sensazioni di una esperienza già vissuta in un altro tempo, il tempo dell’infanzia (sapori e odori già sentiti, visioni già viste), sensazioni che lo fanno riandare al “tempo perduto”.
[2] Notte, lontan, notturna, antica, antichi, tarda notte, lontanando, a poco a poco.
[3] Straordinaria questa eco sentita da Ungaretti con alcuni dei versi fra i più belli dell’intera letteratura italiana. Si tratta di una terzina che, nel finale del Trionfo della morte, descrive la morte di Laura: “Pallida no, ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, /parea posar come persona stanca”. Come possa il “posare” della luce lunare sul paesaggio notturno ricordare il “posare” riferito al volto di Laura nella quiete della morte, è cosa da chiedere alla sensibilità poetica di Ungaretti. Ma certo, oltre alla quiete assoluta (del paesaggio notturno e della morte) che quel verbo evoca, bisognerà notare come esso sia associato al colore bianco, del pallore mortale (tramite il paragone con la neve in Petrarca), del chiarore lunare (non nominato, ma implicito nel paesaggio notturno descritto da Leopardi).
[4] Si tratta del fenomeno per cui la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente si pronunciano unite in un’unica sillaba (senza caduta o assorbimento dell’una nell’altra – caso in cui si parla di elisione).
[5] Leopardi e i segni dell'infinito, Bologna 1985.

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