9) Dalla teoria del piacere al piacere
dell’indefinito
Si
tratta di riflessioni per lo più riconducibili agli anni 1820-21, ma poi più
volte riprese successivamente (in particolare, sulla rimembranza, negli anni
1827-28, gli anni dei canti pisano-recanatesi). E dunque: il diletto cui si
affida la poesia, nel tempo in cui la conoscenza del vero rende impossibile il
piacere delle favole, è il diletto suscitato da parole, immagini e suoni vaghi
e indefiniti. E’ un pensiero che discende da quella teoria del piacere che
Leopardi veniva elaborando e il cui nucleo centrale appartiene al luglio del
1820 (ed è, per inciso, il vero nucleo fondante del pessimismo leopardiano, a
testimonianza della stretta correlazione esistente fra visione complessiva e
riflessione specifica sulla poesia): il desiderio di piacere, connaturato
all’esistenza individuale (per inciso: di ogni essere vivente), è senza limiti
di durata e di estensione, e come tale (per quanto possa essere,
occasionalmente, "ingannato", "mitigato",
"addormentato") non può essere mai soddisfatto; l’immaginazione supplisce
a questa impossibilità di soddisfazione, in quanto capace di concepire ciò che
non è limitato e circoscritto (ciò che quindi è adeguato alla infinitezza del
piacere desiderato); e dunque la poesia piace, comunica piacere, proprio perché
offre alla immaginazione del lettore uno spazio infinito in cui vagare (12-23
luglio 1820):
il
desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione… la pena
dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua
estensione… Quindi è manifesto: 1. Perché tutti i beni paiano bellissimi e
sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto… 2. Perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello
aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve
preferire naturalmente agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare
(Zib. 81) (luglio 1820)
…fra tutte le letture, quella che lascia
l’animo meno desideroso del piacere è la lettura della vera poesia. La quale
destando emozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e
vastissime e sublimissime e mal chiare ec., lo riempie quanto più si possa a
questo mondo (Zib. 444) (27/8/21)
10.1) La poetica dell’indefinito: le parole
Ecco
quindi le riflessioni famose sulla lingua della poesia, sulle "parole"
che non sono "termini" (30-4-1820):
Le
parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola
idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie.
Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche
presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si
chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti.
Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura
e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini… Il
pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto
matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di
cose, e dimenticanza delle antiche parole. (Zib. 60) (30/4/20)
sulle
parole come "notte", "notturno", "oscurità",
"profondo", che sono poeticissime in quanto offrono all’animo
"un’immagine vaga, indistinta, incompleta" (28-9-21), o come
"lontano" e "antico" che "destano idee vaste e indefinite
e non determinabili e confuse" (25-9-21); su quelle "che indicano
moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità,
ec.", come "tanto", "ultimo", "mai più", che
"sono di grand’effetto poetico per l’infinità" (3-10-21);
10.2) La poetica dell’indefinito: le immagini e i
suoni
ma
anche quelle sulle immagini, che sono piacevoli quando evocano sensazioni di
infinito, perché la vista non arriva ad abbracciarle:
una
campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non
arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, il cui fine si perda di
vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio
(Zib. 411) (1-8-21)
o
perché sono di ostacolo allo spaziare della vista. e quindi sollecitano l’immaginazione
dell’infinito (esemplarmente, la siepe de L’Infinito):
Una
fabbrica, una torre ec. veduta in modo ch’ella paia inalzarsi sola sopra
l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e
sublimissimo tra il finito e l’indefinito (ivi)
sul
suono, che, analogamente,
è
piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per una idea vaga e
indefinita che desta, una canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia
lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco lontanando… o che sia così
lontano…che l’orecchio quasi lo perda nella vastità degli spazi… un canto udito
in modo che non si veda il luogo da cui parte… Stando in casa, e udendo tali
canti e suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti,
perché né l’udito né gli altri sensi arrivano a determinare né circoscrivere la
sensazione e le sue concomitanze. (Zib. 523) (16-10-21)
Una
voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o
echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago
dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito
in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli
uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze (Zib. 1151)
(21-9-27);
10.3) La poetica dell’indefinito: la rimembranza e la
doppia visione
e
infine quelle sulla rimembranza, che è poetica perché ci allontana dal presente
e ci rimanda alle lontananze della fanciullezza, e quindi ci comunica quella
sensazione di indefinito collegata alla lontananza nel tempo:
la
sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine
degli oggetti, ma della immagine fanciullesca, una ricordanza, una ripetizione,
una ripercussione o riflesso dell’immagine antica... in maniera che se non
fossimo stati fanciulli, saremmo privi della massima parte di quelle poche
sensazioni indefinite che ci restano (Zib. 175) (16-1-21)
Un
oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che
sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La
medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà
poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel
sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia,
non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova
consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Zib. 1199) (14-12-28)
riflessioni
associabili a quelle sulla "doppia visione" propria del poeta:
forse
la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure
dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza
della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono
come un influsso e una conseguenza di lei… vale a dire, proviamo quella tal
sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla
fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la
provammo in quelle stesse circostanze. (Zib. 175) (16-1-21)
All'uomo
sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di
continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli
vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una
campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra
campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto
il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita
comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici,
quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione. (Zib. 1196) (30/11/28)[1]
11) La sera del dì di
festa, un testo esemplare
Tutto
ciò si può vedere in maniera esemplare ne La sera del dì di festa, un
idillio del 1820. L’incipit famoso rimanda a versi omerici (Iliade,
VIII, 555 e sgg.), tanto cari a Leopardi che li aveva citati nel Discorso
come esempio della poesia antica che sa sollecitare i sentimenti con semplicità,
imitando la natura (e non in maniera artificiosa e forzata, come fanno i
romantici, che riproducono immagini e situazioni straordinarie):
Sì
come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e
l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed
ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, /
e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.
Ed
è un incipit carico di suggestioni indefinite (più che per le parole evocative
dell’indefinito, che pure ci sono[2],
per la stessa atmosfera notturna e per la visione in lontananza delle montagne;
e poi, naturalmente, per quel canto notturno dell’artigiano udito in
lontananza, vera e propria cerniera fra le du parti che compongono l’idillio).
Quel "posa" (verbo che ritorna al verso 38) piaceva ad
Ungaretti, il quale ci sentiva un’eco del Trionfo petrarchesco (e
Petrarca è il poeta sentimentale per eccellenza), laddove, descrivendo la morte
di Laura, si dice che "parea posar come persona stanca"[3]
(a questo proposito, bisognerà notare che la scelta del verbo è dell’edizione
Starita del 1835, perché prima si era sempre letto "La luna si riposa,
e le montagne / si discopron da lungi"; ma il "posa"
era già entrato nell’edizione Piatti del 1831 a correzione dei versi 38-39, che
prima suonavano così: "Tutto è silenzio e pace, e tutto cheto / è ‘l
mondo, e più di lor non si favella").
Ma
è anche una poesia che non prescinde dalla conoscenza del vero, anzi se ne
nutre drammaticamente, in quanto fondata sul contrasto fra la serenità del
paesaggio (dolce e chiaro) e la sofferenza disperata del poeta (sofferenza che
si manifesta in forme titaniche, fortemente "patetiche", di
ascendenza, mi pare, alfieriana e ortissiana). Segue il canto solitario
dell’artigiano, ed è un’altra sensazione vaga e indefinita (proprio
quell’esempio citato nello Zibaldone); il canto, a sua volta, sollecita
non solo pensieri sullo scorrere del tempo (sulla sua infinitezza, per
contrasto, cosiccome il canto contrasta col silenzio: lo stesso effetto
provocato ne L’Infinito dallo stormire del vento tra le piante), ma
anche la rimembranza dell’infanzia (negli ultimi versi); di più, quel canto che
è sentito come il "doppio" di uno stesso canto udito nell’infanzia, è
senz’altro un bell’esempio di quella doppia visione di cui è capace l’uomo
"sensibile e imaginoso" (quale è il poeta).
Altre
osservazioni si possono fare, a partire dalla considerazione che l’idillio è
spesso sembrato ai lettori, nella sua struttura, un po’ disorganico,
frammentario, non perfettamente composto nei suoi elementi costituivi, in
sostanza, spezzato al verso 24 in due parti, apparentemente non
omogenee, disunite. Ma intanto quel verso, pur con la pausa imposta dalla
punteggiatura (che sancisce il passaggio da un motivo all’altro: dalla
disperazione individuale del poeta alla sensazione acustica del canto
dell’artigiano), ha una forte continuità metrica, segnata dalla sinalefe fra
"etate" ed "ahi"[4];
quindi introduce il motivo (l’evento acustico) che è la vera chiave di volta
del componimento, una chiave di volta che illumina anche retrospettivamente il
senso dell’idillio.
Allora
il notturno lunare con cui si apre il componimento, con il suo silenzio dopo i
rumori della festa, non solo si contrappone drammaticamente alla disperazione
del poeta (a significare la crudele indifferenza della natura di fronte al
dolore individuale), ma anche prefigura il silenzio in cui, nella seconda
parte, precipitano i grandi eventi della storia: un silenzio, quest’ultimo, in
cui tutto (il dolore individuale cosiccome la gloria dei popoli antichi),
annullandosi nell’infinito scorrere del tempo, perde di senso. Il ritorno nei
due contesti del verbo "posa" (v. 3 e v. 38) in
contrapposizione al "grido" (di disperazione del poeta, al v.
23; dei popoli antichi, al v. 34) avvalora questa lettura.
Data
la centralità del canto dell’artigiano (che quindi sembra avere una funzione
analoga a quella del vento che stormisce tra le piante, nell’Infinito),
tutto il resto (come bene ha messo in luce Luigi Blasucci)[5]
si assesta simmetricamente: silenzio e serenità della natura, gesticolazione
fisica e verbale del poeta ("grido"), canto dell’artigiano,
"grido" dei popoli antichi, silenzio in cui tutto precipita.
In
appendice, l’eco di quel canto nella memoria dell’infanzia (che crea grande
suggestione poetica, come è proprio della rimembranza): "già similmente
mi stringeva il core" quella sensazione di naufragio (altrettanto
"dolce"?) nell’infinità del tempo.
[1]
Questo pensiero mi ha sempre fatto venire in mente la “memoria involontaria” di
Proust, in particolare il famoso episodio della madeleine narrato nel primo
volume (Du côté de Chez Swann) della Recherche. Quella doppia visione che
Leopardi dice propria dell’uomo sensibile e immaginoso mi ricorda quelle
sensazioni che Proust prova – e che cerca con fatica di afferrare e definire –
quando inzuppa la madeleine nella tazza di tè, sensazioni di una esperienza già
vissuta in un altro tempo, il tempo dell’infanzia (sapori e odori già sentiti,
visioni già viste), sensazioni che lo fanno riandare al “tempo perduto”.
[2]
Notte, lontan, notturna, antica, antichi, tarda notte, lontanando, a poco a poco.
[3]
Straordinaria questa eco sentita da Ungaretti con alcuni dei versi fra i più
belli dell’intera letteratura italiana. Si tratta di una terzina che, nel
finale del Trionfo della morte,
descrive la morte di Laura: “Pallida no,
ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, /parea posar
come persona stanca”. Come possa il “posare” della luce lunare sul
paesaggio notturno ricordare il “posare” riferito al volto di Laura nella
quiete della morte, è cosa da chiedere alla sensibilità poetica di Ungaretti.
Ma certo, oltre alla quiete assoluta (del paesaggio notturno e della morte) che
quel verbo evoca, bisognerà notare come esso sia associato al colore bianco,
del pallore mortale (tramite il paragone con la neve in Petrarca), del chiarore
lunare (non nominato, ma implicito nel paesaggio notturno descritto da
Leopardi).
[4] Si
tratta del fenomeno per cui la vocale finale di una parola e quella iniziale
della parola seguente si pronunciano unite in un’unica sillaba (senza caduta o
assorbimento dell’una nell’altra – caso in cui si parla di elisione).
[5] Leopardi
e i segni dell'infinito, Bologna 1985.
Nessun commento:
Posta un commento