domenica 5 aprile 2015

Natura e ragione in Leopardi (I parte)



1)                Come a proposito della poetica abbiamo visto che c’è un’evoluzione nel pensiero di Leopardi, tale per cui arriva ad accettare, a fare proprie, quelle stesse idee che aveva duramente contestato nel Discorso, così, se analizziamo il suo pensiero relativamente alle idee di “natura” e “ragione”, troviamo analogamente un radicale mutamento di posizione, dalle prime formulazioni (rintracciabili soprattutto nel Discorso, ma anche in canzoni giovanili come Della primavera o l’Inno ai patriarchi e, passim, nello Zibaldone, che è il grande laboratorio in cui prendono corpo quelle idee che poi diventano materia dell’opera letteraria) a quelle proprie dell’ultima fase della sua produzione (penso alla Palinodia e ai Paralipomeni, ma particolarmente alla Ginestra: in quel grande ed ultimo canto il rovesciamento di prospettiva è perfettamente compiuto).
2)               Natura e ragione. Di che si tratta? Niente meno che di due poli irriducibilmente antinomici: da una parte la natura, ovvero il mondo nella sua pura vitalità, animale e vegetale, ma anche, nello stesso tempo, il regno della necessità, di ciò che è innato, dei dati biologici immodificabili, di ciò che resiste ad ogni possibilità di mutamento per intervento umano; dall’altra la ragione, ovvero la specificità umana, la capacità di produrre cultura e storia, di conoscere e modificare l’ambiente, di distaccarsi da quella totale naturalità cui sono soggette le altre specie animali, di riflettere sulla realtà (conoscere la verità) del proprio e dell’altrui esistere.
 
 
3)               Conosciamo il passaggio dalla fase del cosiddetto “pessimismo storico” a quella del cosiddetto “pessimismo cosmico”; si tratta di espressioni che risalgono a Carducci e che, pur con i limiti che simili definizioni inevitabilmente comportano, sono pur sempre utili a indicare quel mutamento che indubbiamente avviene nel pensiero di Leopardi (un mutamento che non è improvviso, che ha dei passaggi intermedi, anche delle discontinuità, ma che è incontestabile). Spiegare il senso di queste espressioni, riscontrarne la fondatezza nell’opera di L. vuol dire mettere a fuoco la questione che ci siamo proposti.

4)               Parliamo di pessimismo storico per indicare quella fase in cui L. ritiene che l’uomo, nelle condizioni primitive di totale naturalità, di innocenza e di armonia con la natura, fosse felice; e che dunque l’infelicità sia un prodotto della storia, del progresso della conoscenza, ovvero di quella ragione indagatrice che, nel momento in cui svela le verità scientifiche e filosofiche connesse all’esistenza, toglie anche, senza rimedio, il piacere delle illusioni, degli “ameni inganni”, su cui si fondava la felicità primitiva. La concezione è “sistemata” nel Discorso (marzo del 18), ma è già in nuce nella Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana (luglio del 16), e in una delle prime pagine dello Zibaldone (p. 14, quindi collocabile nella seconda metà del 17) si trova la seguente osservazione:

“La ragione è nemica di ogni grandezza, la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno, o tanto più difficilmente, sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni.” 

5)               Indubbiamente ci sono in questa concezione influenze di tipo russoviano (l’idea uno stato di natura caratterizzato da “felice ignoranza”, che si perde con la civilizzazione e il progresso della conoscenza)[1] ma più ancora vichiano, se si pensa che L. insiste su quel parallelo, caro anche a Vico, fra sviluppo dell’individuo e sviluppo dell’umanità (l’ontogenesi ripete la filogenesi, o viceversa), per cui l’età primitiva è come l’età fanciulla, dominata dalla fantasia (e quindi dalla poesia) e non dalla ragione (e quindi dalla scienza), la quale invece è propria dell’età adulta, così come dell’umanità progredita.


6)               Secondo Timpanaro, agli inizi c’è piuttosto un’influenza che proviene da quel filone del purismo (Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana) che esaltava il Trecento come età di genuina semplicità (di conformità alla natura), soppiantata poi dall’artificiosità e dall’eccesso di cultura dei secoli successivi (e non mancava nemmeno un paragone fra grecità e trecentismo). Di fatto però non è attestata, nel 16, una conoscenza della Dissertazione da parte di L., e nemmeno si può pensare a una “mediazione” di Giordani, la corrispondenza con il quale comincia nel marzo del 17. In ogni caso, la concezione di L. valica i limiti delle questioni linguistico-letterarie, poste dai puristi e da Giordani: per lui è l’intera società moderna corrotta (in tutti i suoi aspetti, politici e di costume) rispetto alla sanità della società antica.

7)               Dunque la condizione naturale è felice, era felice l’uomo “a cui natura / parlò senza svelarsi” (Ad Angelo Mai, gennaio 20) e che quindi era capace di un forte sentire e di forte immaginazione: sono concetti su cui L. insiste particolarmente nel Discorso, anzi, sono i concetti su cui si fonda l’argomentazione stessa del Discorso: dobbiamo porci di fronte alla natura con la stessa disposizione d’animo degli antichi e dei fanciulli, se vogliamo che la poesia sopravviva e non sia soffocata dalla ragione, annichilita dalla conoscenza del vero. Ma, come dicevo, non è solo questione di poesia: nella società antica è diversa la “qualità della vita”, la condizione umana è felice perché sono possibili le illusioni e quindi le imprese magnanime, l’esercizio della virtù.[2]

8)               L’idea di una natura materna e benigna si ritrova anche nelle canzoni degli anni fra il 20 e il 22: così nel Bruto minore (dicembre 21), dove il protagonista lamenta la fine del tempo in cui la virtù del magnanimo poteva dispiegarsi:
 
 “non fra sciagure e colpe, / ma libera ne’ boschi e pura etade / natura a noi prescrisse, / reina un tempo e Diva” (52-55)[3];


        nella canzone Alla primavera (gennaio 22) natura  è   chiamata “santa” (20) e la sua voce “materna” (21); nell’ Inno ai Patriarchi (luglio 22) si dice che gli

 “immedicati affanni” del misero mortale “non la pietà, non la diritta impose / legge del cielo” (e cioè, non una legge naturale voluta da dio) (10-11), ed anche: “Fu certo, fu… amica un tempo / al sangue nostro e dilettosa e cara / questa misera piaggia, ed aurea corse / nostra caduca età.” (87-92).

9)               Infine, chiaramente, in più passi dello Zibaldone. Mi limito a ricordare quelli in cui L. interpreta  la favola di Psiche in analogia alla vicenda biblica del peccato originale, in cui all’esaltazione della natura è associata la deplorazione della ragione:
 

“la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo… Del resto combinando quest’osservazione col racconto della Genesi, dove l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo si attribuisce manifestamente al sapere… mi si fa verisimile che queste gran massime, l’uomo non è fatto per il sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura… fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antica sapienza…” (10/2/21, pp. 637-638);

quindi, in termini quasi identici, nel luglio del 23:

“Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi… si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione.” (2939).

Allo stesso modo viene interpretato il mito dell’età dell’oro (peraltro, richiamato anche nel già citato Inno ai patriarchi):

“Quell'antica e si famosa opinione del secol d'oro, della perduta felicità di quel tempo, dove i costumi erano semplicissimi e rozzissimi, e non pertanto gli uomini fortunatissimi, di quel tempo, dove i soli cibi erano quelli che dava la natura… quest'opinione sì celebre presso gli antichi e i moderni poeti, ed anche fuor della poesia, non può ella molto bene servire a conferma del mio sistema, a dimostrare l'antichissima tradizione di una degenerazione dell'uomo, di una felicità perduta dal genere umano, e felicità non consistente in altro che in uno stato di natura, e simile a quello delle bestie, e non goduta in altro tempo che nel primitivo, e in quello che precedette i cominciamenti della civilizzazione, anzi le prime alterazioni della natura umana derivate dalla società?” (13/12/21, p. 2250).

10)                      Ma interessanti sono anche quei passi dove L. argomenta in favore del suicidio:

“Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi… da che la nostra vita ha cessato di essere naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici..” (815-17, 19/3/21)

Perché, continua, rifiutarsi di compiere un atto (il suicidio) che certo è contro natura, ma è secondo ragione, secondo quella ragione che “ha combattuta e vinta la natura per farci infelici”? Che senso ha appellarsi alla natura in un mondo in cui la natura è stata soppiantata dalla ragione? Peraltro, si tratta proprio delle argomentazioni usate da Porfirio nel celebre Dialogo di Plotino e Porfirio (che è del settembre 1827). E ancora nell’aprile del 22: noi non possiamo

 “esser più partecipi della felicità destinata all’uomo naturalmente… Se la nostra natura fosse la prima natura umana, non saremmo infelici, e questo inevitabilmente e irrimediabilmente; e non desidereremmo, anzi aborriremmo la morte” (2402-403)

Ma già in questi anni già compaiono i segni di una mutata concezione, ovvero di una concezione che ritiene la natura responsabile dell’infelicità. Le due concezioni convivono, per un certo periodo (v. sotto, punto 13), come se L. volesse salvare il proprio “sistema”, malgrado l’insoddisfazione che comincia ad avvertire.




[1] Il riferimento a Rousseau impone dei chiarimenti. Lo stato di natura, per lui, più che una remota realtà storica, è un’ipotesi teorica che serve a delineare un nuovo tipo d’uomo e di società; diventa, non a caso, un’ipotesi propositiva con l' Emilio e il Contratto sociale. In Leopardi invece lo stato di natura resta sempre allo stato di rimpianto per un tempo irrimediabilmente perduto (malgrado certe indicazioni sulla necessità di educare il corpo, istituire feste pubbliche, premiare i virtuosi), non è più di un modello teorico da contrapporre alla negatività del presente (v. Biral, Il significato di natura). Bisogna inoltre ricordare che le idee di Leopardi sulla società larga (favorevole alla vita umana) e società stretta (sfavorevole) non collimano con quelle di Rousseau, perché mettono in discussione la socialità dell’uomo, quindi rifiutano lo stato di natura dei selvaggi (già degenerato dalla società stretta) e rimandano a uno stato di natura ancora precedente, non identificabile storicamente, caratterizzato dalla minore socialità possibile (v. Melchiori in Leopardi e l’età romantica).
[2] Qui bisogna aprire una parentesi sull’idea leopardiana di società antica, perché i riferimenti sono sempre all’età classica, alla poesia omerica, a volte virgiliana, e quindi alle società greca e latina, che hanno un certo grado di civilizzazione, non sono naturali nel senso di selvagge e primitive (tanto è vero che quando L. vuole indicare questo modello, parla dei Californi: v. Inno ai patriarchi e Zib.), ma lo sono, evidentemente, in quanto interpretano (conoscono) la realtà mitologicamente, non scientificamente.
[3] Ma proprio il Bruto minore è, per Timpanaro, un testo che segnala il passaggio al pessimismo cosmico, perché è vero che Bruto si scaglia contro la malignità degli dei e del fato, ma non è difficile riconoscere in queste entità un modo provvisorio (e conforme alla mentalità pagana) di chiamare quella natura contro la cui potenza l’uomo non può opporsi.

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