1)
Come a proposito della poetica abbiamo visto che c’è un’evoluzione nel
pensiero di Leopardi, tale per cui arriva ad accettare, a fare proprie, quelle
stesse idee che aveva duramente contestato nel Discorso, così, se
analizziamo il suo pensiero relativamente alle idee di “natura” e “ragione”,
troviamo analogamente un radicale mutamento di posizione, dalle prime
formulazioni (rintracciabili soprattutto nel Discorso, ma anche in
canzoni giovanili come Della primavera o l’Inno ai patriarchi
e, passim, nello Zibaldone, che è il grande laboratorio in cui prendono
corpo quelle idee che poi diventano materia dell’opera letteraria) a quelle
proprie dell’ultima fase della sua produzione (penso alla Palinodia e ai
Paralipomeni, ma particolarmente alla Ginestra: in quel grande ed
ultimo canto il rovesciamento di prospettiva è perfettamente compiuto).
2)
Natura e ragione. Di che si tratta? Niente meno che di due poli
irriducibilmente antinomici: da una parte la natura, ovvero il mondo nella sua
pura vitalità, animale e vegetale, ma anche, nello stesso tempo, il regno della
necessità, di ciò che è innato, dei dati biologici immodificabili, di ciò che
resiste ad ogni possibilità di mutamento per intervento umano; dall’altra la
ragione, ovvero la specificità umana, la capacità di produrre cultura e storia,
di conoscere e modificare l’ambiente, di distaccarsi da quella totale
naturalità cui sono soggette le altre specie animali, di riflettere sulla
realtà (conoscere la verità) del proprio e dell’altrui esistere.
3)
Conosciamo il passaggio dalla fase del cosiddetto “pessimismo storico”
a quella del cosiddetto “pessimismo cosmico”; si tratta di espressioni che
risalgono a Carducci e che, pur con i limiti che simili definizioni
inevitabilmente comportano, sono pur sempre utili a indicare quel mutamento che
indubbiamente avviene nel pensiero di Leopardi (un mutamento che non è
improvviso, che ha dei passaggi intermedi, anche delle discontinuità, ma che è
incontestabile). Spiegare il senso di queste espressioni, riscontrarne la
fondatezza nell’opera di L. vuol dire mettere a fuoco la questione che ci siamo
proposti.
4)
Parliamo di pessimismo storico per indicare quella fase in cui L.
ritiene che l’uomo, nelle condizioni primitive di totale naturalità, di
innocenza e di armonia con la natura, fosse felice; e che dunque l’infelicità
sia un prodotto della storia, del progresso della conoscenza, ovvero di quella
ragione indagatrice che, nel momento in cui svela le verità scientifiche e
filosofiche connesse all’esistenza, toglie anche, senza rimedio, il piacere
delle illusioni, degli “ameni inganni”, su cui si fondava la felicità
primitiva. La concezione è “sistemata” nel Discorso (marzo del 18), ma è
già in nuce nella Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana
(luglio del 16), e in una delle prime pagine dello Zibaldone (p. 14,
quindi collocabile nella seconda metà del 17) si trova la seguente
osservazione:
“La ragione è nemica di ogni
grandezza, la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è
piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno, o tanto più difficilmente, sarà
grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi
(e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle
illusioni.”
5)
Indubbiamente ci sono in questa concezione influenze di tipo russoviano
(l’idea uno stato di natura caratterizzato da “felice ignoranza”, che si perde
con la civilizzazione e il progresso della conoscenza)[1] ma più ancora vichiano, se
si pensa che L. insiste su quel parallelo, caro anche a Vico, fra sviluppo
dell’individuo e sviluppo dell’umanità (l’ontogenesi ripete la filogenesi, o
viceversa), per cui l’età primitiva è come l’età fanciulla, dominata dalla
fantasia (e quindi dalla poesia) e non dalla ragione (e quindi dalla scienza),
la quale invece è propria dell’età adulta, così come dell’umanità progredita.
6)
Secondo Timpanaro, agli inizi c’è piuttosto un’influenza che proviene
da quel filone del purismo (Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente
della lingua italiana) che esaltava il Trecento come età di genuina
semplicità (di conformità alla natura), soppiantata poi dall’artificiosità e
dall’eccesso di cultura dei secoli successivi (e non mancava nemmeno un
paragone fra grecità e trecentismo). Di fatto però non è attestata, nel 16, una
conoscenza della Dissertazione da parte di L., e nemmeno si può pensare
a una “mediazione” di Giordani, la corrispondenza con il quale comincia nel
marzo del 17. In ogni caso, la concezione di L. valica i limiti delle questioni
linguistico-letterarie, poste dai puristi e da Giordani: per lui è l’intera
società moderna corrotta (in tutti i suoi aspetti, politici e di costume)
rispetto alla sanità della società antica.
7)
Dunque la condizione naturale è felice, era felice l’uomo “a cui natura
/ parlò senza svelarsi” (Ad Angelo Mai, gennaio 20) e che quindi era
capace di un forte sentire e di forte immaginazione: sono concetti su cui L.
insiste particolarmente nel Discorso, anzi, sono i concetti su cui si fonda
l’argomentazione stessa del Discorso: dobbiamo porci di fronte alla
natura con la stessa disposizione d’animo degli antichi e dei fanciulli, se
vogliamo che la poesia sopravviva e non sia soffocata dalla ragione,
annichilita dalla conoscenza del vero. Ma, come dicevo, non è solo questione di
poesia: nella società antica è diversa la “qualità della vita”, la condizione
umana è felice perché sono possibili le illusioni e quindi le imprese
magnanime, l’esercizio della virtù.[2]
8)
L’idea di una natura materna e benigna si ritrova anche nelle canzoni
degli anni fra il 20 e il 22: così nel Bruto minore (dicembre 21), dove
il protagonista lamenta la fine del tempo in cui la virtù del magnanimo poteva
dispiegarsi:
“non fra sciagure e colpe, / ma libera ne’
boschi e pura etade / natura a noi prescrisse, / reina un tempo e Diva” (52-55)[3];
nella canzone Alla primavera (gennaio 22) natura è chiamata “santa” (20) e la sua voce “materna” (21); nell’ Inno ai
Patriarchi (luglio 22) si dice che gli
“immedicati affanni” del misero mortale “non
la pietà, non la diritta impose / legge del cielo” (e cioè, non una legge
naturale voluta da dio) (10-11), ed anche: “Fu certo, fu… amica un tempo / al
sangue nostro e dilettosa e cara / questa misera piaggia, ed aurea corse / nostra
caduca età.” (87-92).
9)
Infine, chiaramente, in più passi dello Zibaldone. Mi limito a
ricordare quelli in cui L. interpreta la
favola di Psiche in analogia alla vicenda biblica del peccato originale, in cui
all’esaltazione della natura è associata la deplorazione della ragione:
“la favola di Psiche, cioè
dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e
la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così
conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo
e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del
sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al
manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella
favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura
dell’uomo e di questo mondo… Del resto combinando quest’osservazione col
racconto della Genesi, dove l’origine immediata della infelicità e decadimento
dell’uomo si attribuisce manifestamente al sapere… mi si fa verisimile che
queste gran massime, l’uomo non è fatto per il sapere, la cognizione del
vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura… fossero non
solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antica sapienza…”
(10/2/21, pp. 637-638);
quindi, in termini quasi identici, nel luglio del
23:
“Dalle lunghe considerazioni da me
fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza
ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole
o dogmi ec. antichissimi… si può raccogliere non solo quello che generalmente
si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore,
sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione,
ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più
antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano
da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine
della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo
uso della ragione.” (2939).
Allo stesso modo viene interpretato il mito
dell’età dell’oro (peraltro, richiamato anche nel già citato Inno ai
patriarchi):
“Quell'antica e si famosa opinione
del secol d'oro, della perduta felicità di quel tempo, dove i costumi erano
semplicissimi e rozzissimi, e non pertanto gli uomini fortunatissimi, di quel
tempo, dove i soli cibi erano quelli che dava la natura… quest'opinione sì celebre
presso gli antichi e i moderni poeti, ed anche fuor della poesia, non può ella
molto bene servire a conferma del mio sistema, a dimostrare l'antichissima
tradizione di una degenerazione dell'uomo, di una felicità perduta dal genere
umano, e felicità non consistente in altro che in uno stato di natura, e simile
a quello delle bestie, e non goduta in altro tempo che nel primitivo, e in
quello che precedette i cominciamenti della civilizzazione, anzi le prime
alterazioni della natura umana derivate dalla società?” (13/12/21, p. 2250).
10)
Ma interessanti sono anche quei passi dove L. argomenta in favore del
suicidio:
“Noi siamo del tutto alienati
dalla natura, e quindi infelicissimi… da che la nostra vita ha cessato di
essere naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita
per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici..” (815-17, 19/3/21)
Perché, continua, rifiutarsi di compiere un atto
(il suicidio) che certo è contro natura, ma è secondo ragione, secondo quella
ragione che “ha combattuta e vinta la natura per farci infelici”? Che senso ha
appellarsi alla natura in un mondo in cui la natura è stata soppiantata dalla
ragione? Peraltro, si tratta proprio delle argomentazioni usate da Porfirio nel
celebre Dialogo di Plotino e Porfirio (che è del settembre 1827). E
ancora nell’aprile del 22: noi non possiamo
“esser più partecipi della felicità destinata
all’uomo naturalmente… Se la nostra natura fosse la prima natura umana, non
saremmo infelici, e questo inevitabilmente e irrimediabilmente; e non
desidereremmo, anzi aborriremmo la morte” (2402-403)
Ma già in questi anni già compaiono i segni di una
mutata concezione, ovvero di una concezione che ritiene la natura responsabile
dell’infelicità. Le due concezioni convivono, per un certo periodo (v. sotto,
punto 13), come se L. volesse salvare il proprio “sistema”, malgrado
l’insoddisfazione che comincia ad avvertire.
[1]
Il riferimento a Rousseau impone dei chiarimenti. Lo stato di natura, per lui,
più che una remota realtà storica, è un’ipotesi teorica che serve a delineare
un nuovo tipo d’uomo e di società; diventa, non a caso, un’ipotesi propositiva
con l' Emilio e il Contratto sociale. In Leopardi invece lo stato di natura resta
sempre allo stato di rimpianto per un tempo irrimediabilmente perduto (malgrado
certe indicazioni sulla necessità di educare il corpo, istituire feste
pubbliche, premiare i virtuosi), non è più di un modello teorico da
contrapporre alla negatività del presente (v. Biral, Il significato di natura).
Bisogna inoltre ricordare che le idee di Leopardi sulla società larga
(favorevole alla vita umana) e società stretta (sfavorevole) non collimano con
quelle di Rousseau, perché mettono in discussione la socialità dell’uomo, quindi
rifiutano lo stato di natura dei selvaggi (già degenerato dalla società
stretta) e rimandano a uno stato di natura ancora precedente, non
identificabile storicamente, caratterizzato dalla minore socialità possibile
(v. Melchiori in Leopardi e l’età romantica).
[2]
Qui bisogna aprire una parentesi sull’idea leopardiana di società antica,
perché i riferimenti sono sempre all’età classica, alla poesia omerica, a volte
virgiliana, e quindi alle società greca e latina, che hanno un certo grado di civilizzazione,
non sono naturali nel senso di selvagge e primitive (tanto è vero che quando L.
vuole indicare questo modello, parla dei Californi: v. Inno ai patriarchi
e Zib.), ma lo sono, evidentemente, in quanto interpretano (conoscono)
la realtà mitologicamente, non scientificamente.
[3]
Ma proprio il Bruto minore è, per Timpanaro, un testo che segnala il
passaggio al pessimismo cosmico, perché è vero che Bruto si scaglia contro la
malignità degli dei e del fato, ma non è difficile riconoscere in queste entità
un modo provvisorio (e conforme alla mentalità pagana) di chiamare quella
natura contro la cui potenza l’uomo non può opporsi.
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