Il Furioso come espressione della
civiltà rinascimentale
1) Ripresa della questione
della kalòkagathìa (la bellezza è buona in quanto manifestazione sensibile
del divino sulla terra, e dunque, nel nostro mondo imperfetto, la bellezza va
ricercata ed amata). Si leggano dei passi che mostrano la consistenza e la
diffusione di questa idea: dagli Asolani di Bembo, dal Dialogo delle
bellezze delle donne di Firenzuola, dal Cortegiano di Castiglione.
2) Su quest’ultimo
ci si sofferma per spiegare come la proposizione dell’ideale della “grazia” non
sia altro che la trasposizione dell’ideale della bellezza sul piano dei
comportamenti sociali; e come quell’ideale comporti studio (anche se
occultato), dunque artificiosità e repressione della spontaneità
dei sentimenti.
3) Si tratta di un
modello umano che avrà una durata secolare. Non si può capire il successo
straordinario che ebbero, alla fine del Settecento, opere come I dolori
del giovane Werther o Le ultime lettere di Jacopo Ortis, se non
si pensa che, appunto, i comportamenti di quei personaggi (con la loro
commozione esposta, con il loro piangere senza controllo, con il loro gridare,
in una parola con la piena manifestazione, senza occultamenti, dei loro
sentimenti) rompevano quello schema, infrangevano un modello secolare.
E dunque quei modi, che a noi oggi sembrano eccessivamente patetici, a volte anche
un po’ ridicoli (mi viene in mente Ortis che nel parco discute di politica con
il vecchio Parini: a fronte della pacatezza di quest’ultimo, lui grida, si alza
di scatto dalla panchina, esprime ad alta voce intenzioni di suicidio)
apparivano fortemente innovativi e incontravano il gusto del nuovo pubblico,
del cosiddetto “popolo”.
4) Tutto ciò è
all’origine di quel doppio giudizio che, nei secoli successivi, si è riversato
sul Rinascimento:
· da
un lato è la civiltà che, proprio perché pervasa da quell’ideale
altissimo che si esplica nel culto della bellezza, riesce a produrre
un’arte ineguagliabile;
·
dall’altro (ed è il giudizio di tanta critica ottocentesca, esemplare in De
Sanctis) è la civiltà dell’ipocrisia, che nasconde sotto una belle veste
(le belle forme dell’arte e dei comportamenti) la propria immoralità
(nella realtà tanto della politica quanto della vita quotidiana: Pietro
Aretino, pornografo, pennivendolo e ricattatore, è l’eroe del secolo, dice De
Sanctis).
5) Affrontiamo ora
il poema di Ariosto. Ai precedenti basterà un breve cenno: dai “romanzi”
francesi del ciclo bretone e del ciclo carolingio, alla tradizione dei cantari,
all’Orlando innamorato di Boiardo, al Furioso che dell’Innamorato
vuole essere la continuazione. Se ne dà quindi ampia lettura: del canto I
integralmente (perché è esemplare) e di episodi scelti tra i più famosi (non si
possono tralasciare il palazzo del mago Atlante, la pazzia di Orlando, Astolfo
sulla luna).
6) Per quali
aspetti possiamo dire che il Furioso è espressione alta della cultura
rinascimentale? Certamente perché è un’opera in cui è presente una
visione del mondo laica (qualcuno ha detto pagana), in cui agiscono gli
uomini determinati dalle loro passioni totalmente umane (l’amore prima di
tutto, ma anche il coraggio, la paura, l’amicizia, la gelosia). Il divino
è assente, così come sono assenti tormenti di tipo morale e religioso,
preoccupazioni relative all’aldilà. La stessa guerra che fa da
sfondo alle avventure delle donne e dei cavalieri, pur essendo una guerra che
contrappone due religioni diverse, cristiani e musulmani, fedeli e infedeli, non
è il vero fondamento delle storie che si raccontano, ma un semplice pretesto
per mettere in campo ciò che veramente piace ed interessa agli uomini (ai
“cortigiani”) del Rinascimento: le cortesie e le audaci imprese (si legga
l’ottava del canto I, in cui Ariosto commenta il fatto che Rinaldo e Ferraù
interrompono il duello e montano sullo stesso cavallo per inseguire Angelica).
E’ dunque un mondo totalmente terreno quello in cui agiscono i personaggi del Furioso
e in cui fanno valere la loro “virtù” (come direbbe Machiavelli). E in questo
mondo la presenza del magico non ha a che fare con l’intervento divino nella
vita degli uomini, ma piuttosto con l’imponderabile, con la casualità, con
quella “fortuna” (per dirla ancora con Machiavelli) che, nel mondo governato
dagli uomini, è l’elemento che ostacola la virtù e ne può far fallire i
progetti.
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