martedì 14 aprile 2015

L'amore e l'altro mondo nell'immaginario medievale (III parte: Jacopo Passavanti)


III. Chi non patisce un siffatto dramma interiore, ma ha invece solide certezze, è Jacopo Passavanti, il frate domenicano vissuto nelle prima metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui stesso tenute nella quaresima del 1354 (17). Servendosi di racconti esemplari (exempla) quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire i fedeli ad astenersi dal peccato e a fare penitenza, se non vogliono incorrere, dopo la morte, nei rigori della giustizia divina. Fra questi, l’exemplum del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi (18); ed è anche interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora una volta la passione d’amore il peccato oggetto di punizione nell’aldilà, richiama inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e di Andrea Cappellano.
 
Vi si racconta di come un carbonaio assista nottetempo, mentre veglia presso la fossa accesa dei carboni, alla visione terrificante di una "caccia tragica": uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano insegue una femmina scapigliata e gnuda; la raggiunge e, senza pietà per le sue grida disperate, la afferra per li svolazzanti capelli, la trapassa in mezzo al petto con il coltello e la getta nella fossa dei carboni ardenti; quindi la riprende tutta focosa et arsa, la carica sul suo cavallo e se ne torna al galoppo per la via dond’ era venuto. La visione si presenta identica per tre notti, finché il carbonaio ne parla al conte di Niversa, il quale assiste di persona alla visione e quindi, per quanto spaventato, osa chiederne ragione al feroce cavaliere. Costui gli rivela che tale atroce condizione, di cacciatore e preda, spetta a lui e alla donna che fu la sua amante (entrambi, in vita, nobili alla corte del conte), giacché noi, prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato a tal punto che lei, per essere più libera, uccise il proprio marito; pertanto ora, per la legge del contrappasso che regola la giustizia divina, lei, in quanto uccise il marito, subisce ogni notte l’uccisione per mano dell’amante; e così come arse d’amore per lui, ora è gettata da lui ad ardere nei carboni infuocati; infine, così come in vita vide il suo amante con desiderio e piacere, ora lo vede ogni notte con odio e terrore. Siccome poi, chiarisce il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di morte, la misericordia di Dio mutò la pena eterna dello ’nferno in pena temporale di purgatorio; pertanto egli sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro sofferenze siano alleviate.
 
Questo, in sintesi, l’exemplum narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per quanto la pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e non eterna, purtuttavia la stessa è così orribile che al confronto impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i quali, nel loro inferno, non si vedono con odio e terrore, ma insieme vanno ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa legge divina che li ha dannati). E’ evidente che per fra’ Jacopo la passione d’amore non ammette scusanti, non porta con sé alcun segno di nobiltà, è ormai soltanto esecrabile concupiscenza della carne: la morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più dubbi e senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano reso così dolorosamente lacerante l’incontro di Dante con Francesca. E si badi: non è tanto l’uxoricidio, quanto il disonesto amore a determinare per i due (e per la donna in particolare) una punizione così terribile; l’uxoricidio è tuttalpiù un aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza, di un peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato proprio di coloro che, appunto, la ragione sommettono al talento).
 
Dunque, il disonesto amore: e "disonesto" perché adulterino. Niente di più distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là l’adulterio, lungi dall’essere deplorato, era raccomandato. Né si può pensare che in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza di cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui loro costumi e che il cavaliere non tenta di giustificare - a differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore gentile" la caduta nel peccato; ma è anche vero che il loro nobile lignaggio lascia intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di belle cortesie, all’interno del quale, secondo la dottrina enunciata da Andrea, quell’amore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto pieno titolo per realizzarsi.
 
L’ombra nera della notte avvolge la scena, una notte lugubremente rischiarata dal rosso vivo dei carboni accesi e del fuoco che spira della boca e degli ochi e dello naso del cavaliere e del cavallo. E’ la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale corrisponde ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la lussuria consumò la sua malaugurata vittoria. Anche per Francesca, nell’Inferno di Dante, c’è la notte, il loco d’ogne luce muto, il buio senza tempo e senza fine del mondo sotterraneo. Se la luce è vita ed è salvezza, non può esserci la luce per i maledetti da Dio.
 
Alla luce piena del giorno avveniva invece, nella visione di Andrea Cappellano, l’incontro del cavaliere con il corteo guidato dal dio Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non implicava in alcun modo l’idea di peccato; e questo non solo perché, come s’è visto, ad essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quell’oltretomba era associato ad un paesaggio terreno rischiarato dal sole, la visione non comportava il passaggio ad una dimensione allucinata ed angosciante, ma si compiva in un ambiente naturale i cui elementi, per quanto dolorosi, sono riconoscibili e familiari, appartengono alla quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi e macilenti, le spine) (19). E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma sostanzialmente tratta in termini naturali e terreni una questione naturale e terrena come l’amore fra l’uomo e la donna.


NOTE


17) Manca tuttora un’edizione critica dello Specchio. Per le citazioni, mi servo di Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. VARANINI e G. BALDASSARRI, Roma 1993, vol. II, pp. 549-553. Alla stessa opera (pp. 629-643) rinvio per le questioni relative alla tradizione del testo.

18) Bisognerà comunque ricordare che l’exemplum non è originale, visto che lo stesso Passavanti indica espressamente Elinando (o Eliando) come sua fonte. Si tratta di Elinando, monaco di Froidmont, morto dopo il 1229, i cui Flores sono giunti a noi attraverso Vincenzo di Beauvais (Speculum historiale, XXIX, 120): fra questi si trova appunto la storia del carbonaio di Niversa (la si può leggere in Patrologia latina, CCXII, Turnhout 1969, p. 734). La stessa, riassunta e abbreviata, è riportata anche dall’Alphabetum narrationum, un prontuario di exempla compilato ad uso dei predicatori all’inizio del XIV secolo: ed è presumibile che di qui abbia attinto Passavanti. Del resto, il motivo della cosiddetta "caccia tragica" (o "infernale", o "demoniaca"), d’origine germanica, ha anche altri precedenti (si veda A. MONTEVERDI, Gli "esempi" di Iacopo Passavanti, in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano-Napoli 1954, pp. 190-191; ma anche l’introduzione di A. WESSELOFSKY alla Novella della figlia del re di Dacia, Pisa 1866).

19) Mi pare che le cose stiano così, a differenza di quel che pensa Grabher, il quale trova nell’episodio in questione l’atmosfera di una visione macabra e "un certo gusto del deforme, un non so che di stranamente fantastico e malato" (cfr. C. GRABHER, Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, in "Annali della facoltà di Lettere e Filosofia e di Magistero dell’Università di Cagliari", XXI, II, 1953, p. 72-74).

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