1) Il passaggio al cosiddetto
“pessimismo cosmico”, non è così netto, come dicevo. Ma certo, non si sbaglia
individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al 24)
in cui la nuova concezione è messa a punto. Bisognerà ricordare che risalgono
al 23, l’anno del soggiorno romano, la lettura (indiretta, attraverso Il
viaggio del giovane Anacarsi, di Barthélemy) di quei testi (di Teognide,
Pindaro, Sofocle, Euripide, nonché l’Eudemo di Aristotele) in cui era espressa
la sapienza silenica, ovvero il pessimismo antico: forte stimolo a rivedere
l’idea di una felicità degli antichi, revisione che si concretizzerà nelle Operette
morali. Peraltro, sia Luporini che Timpanaro danno per scontata una influenza del Voltaire
del Poema sul disastro di Lisbona (1755), che viene citato a p. 4175
dello Zibaldone (aprile 26), proprio ad introduzione del famoso pensiero
“entrate in un giardino…”.[1]
2) In operette come il Dialogo
della natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge
con chiarezza l’idea di una natura indifferente al dolore degli individui, e
quindi “madre di parto, e di voler matrigna” (così nella Ginestra,
peraltro unico luogo in cui si trova l’appellativo di “matrigna”). La natura, indifferente alla sorte delle sue
creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo,
attraverso un “perpetuo ciclo di produzione e distruzione” (Dialogo della
natura e un islandese); ma se così è, se “quel che è distrutto patisce, e
quel che distrugge non gode”, si tratta di una “vita infelicissima
dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo
compongono”. Non c’è possibilità di felicità, in nessuna condizione,
civilizzata o naturale, antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si
rivolge al sole il gallo silvestre:
“Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità
dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual
montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei
tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo
cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra e del
mare? Qual cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi,
qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali?”
3) Chi, come Timpanaro[2], cerca tracce precedenti di
questa mutata concezione della natura, le trova in testi come la canzone Per
una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del
19, poi non pubblicata), dove si dice:
“natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati”
(stanza 8), e poi (stanza 9) “e chi diritto guata, / nostra famiglia a la
natura è gioco.”
Ma qui, nel contesto di una poesia d’occasione, di
tipo consolatorio, il rilievo dell’infelicità comune sembra essere un topos più
che il segno di un pensiero nuovo. Del resto nella canzone ci sono i motivi
tipici del pessimismo storico, laddove si dice che il vivere a lungo è un male
perché comporta il convivere con l’empia e vile società presente (strofa 10).
Ed anche in idilli come La sera del dì di festa (20) o La vita
solitaria (estate 21) si ritrova il lamento contro “l’antica natura
onnipossente, che mi fece all’affanno”, ma siamo ancora su un piano
autobiografico, lontano dalla concezione di una natura ostile all’intero genere
umano. In questo senso, con questi limiti, è L’ultimo canto di Saffo
(maggio del 22) il documento più convincente (all’origine dell’infelicità non
c’è la civiltà corrotta dall’abuso della ragione, ma un elementare ed
irrimediabile dato di natura: la bruttezza fisica di Saffo).
4) Si può pensare ad una fase
intermedia, fra la fine del 21 (il tempo della composizione delle canzoni A
un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Bruto
minore) e l’aprile del 24 (composizione dell’operetta Dialogo della
Natura e di un’anima), in cui convive in L. uno strano dualismo fra l’idea
di una natura fondamentalmente benefica e il lamento contro la malignità del
fato, dei numi e simili. L’obbrobriosa età moderna è voluta dal “duro cielo”,
dall’”empio fato” (Nelle nozze…, prima strofa); la decadenza è “nostra
colpa e fatal”, cioè del fato (A un vincitore…, v. 57); nel Bruto
minore alla natura benefica si contrappone la volontà malefica degli dei
(pur essendoci anche il riferimento all’”empio costume” degli uomini,
instaurato dalla ragione, come causa della perdita dei “beati regni”: v. 56):
A voi, marmorei numi / (se numi
avete in Flegetonte albergo / o su le nubi), a voi ludibrio e scherno / è la
prole infelice / a cui templi chiedeste, e frodolenta / legge al mortale
insulta. /
Nel Dialogo della Natura e di un’anima, il
dualismo è ribadito con chiarezza, e sembra il segnale della crescente
insoddisfazione di L. per il proprio “sistema”, una insoddisfazione che non ha
trovato ancora sistemazione teorica e che cerca di salvaguardare la bontà della
natura, accusando un’altra entità altrettanto (o più) potente ed immodificabile
(e dunque un’entità che sembra un travestimento della natura, un modo
provvisorio, e mascherato, di nominarla); dice la Natura all’anima che le aveva
chiesto di rendere felici le creature o di non farle nascere:
Né l’una né l’altra cosa è in
potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque
ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere… Tutto questo è
contenuto nell’ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non
posso alterare… Tutte le anime degli uomini… sono assegnate in preda
all’infelicità, senza mia colpa… Di codesto conferirò col destino.
5) Ne La scommessa di
Prometeo sembra doversi concludere che non vi sia più traccia di uno stato
naturale felice. Ma se si legge l’operetta (che è del maggio del 24) in
parallelo con certe pagine dello Zibaldone dell’ottobre del 23, si
capisce che per L. la condizione di quei popoli primitivi che danno prova di
grande barbarie e violenza, che contrasta con la felicità naturale (in un caso
l’antropofagia, in un altro l’usanza del rogo per le vedove), non è
propriamente una condizione naturale, ma già di allontanamento dalla natura,
che voleva “niuna società, o scarsa e larga”, e non una “società stretta” come
invece l’uomo ha costruito[3]. Il ragionamento è
interessante: la società stretta porta necessariamente a comportamenti umani
violenti e “infelicitanti” (contro natura), in quanto i singoli, invece di
collaborare per il bene comune, perseguono i propri interessi a danno degli
altri. Succede nella società stretta che quell’amor proprio naturale (amore di
sé, della propria conservazione, della propria felicità. indissociabile dal
vivere) si esplichi, innaturalmente, come odio verso gli altri (si attiva ciò
che c’era in potenza), con tutti i mali che ne conseguono (oppressione, guerra,
ecc.). Gli effetti di tale odio sono più vistosi in quei popoli che sono più
vicini allo stato naturale (v. l’antropofagia dei selvaggi o l’uso di sacrifici
umani o di bruciarsi vivi): dal che si dovrebbe dedurre che la società civile,
in quanto non attua le pratiche barbare proprie dei popoli primitivi, è più
vicina alla bontà della natura (3773-3810); ma la società civile, come scoprono
Momo e Prometeo, è quella in cui l’individuo nuoce non agli altri, ma a se
stesso (fino al suicidio), ed è quindi massimamente infelice (3932-3936). Lo
stato naturale (e quindi buono) è rintracciabile solo nei Californi (il
riferimento a questo popolo come modello di primitività naturale, ritorna altre
volte in Zibaldone, cosiccome nel finale dell’Inno ai Patriarchi;
non so da quale fonte provenga), che vivono in una società larga e quindi non
fanno niente contro natura (3801)[4].
6) Ma non c’è dubbio che, sul
piano teorico, l’elemento decisivo che induce al passaggio da una concezione
all’altra, si debba individuare nella elaborazione della teoria del piacere,
iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente (Zibaldone:
12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente nella sua logica:
esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio,
che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale
desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad
essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa
essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in
stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione,
ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il
termine dell’esistenza. Ciononostante, in un primo momento L. cerca di salvare
il proprio “sistema”, che presuppone il carattere benigno della natura,
sostenendo che la stessa ha provveduto ad alleviare tale condizione, fornendo
all’uomo l’immaginazione e le illusioni, che sono “il primo fonte della
felicità”, ed anche la gran varietà delle cose e la necessità di soddisfare i
bisogni primari, che lo tengono occupato, ingannano, mitigano, addormentano
quel desiderio infinito, impediscono che l’uomo sia sopraffatto dalla noia
(prima conseguenza della impossibilità di soddisfare il desiderio infinito):
“Il piacere infinito che non si trova nella
realtà, si trova nella immaginazione… quindi bisogna considerare la gran
misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo
spogliare l’uomo e nessun essere vivente dell’amor del piacere, che è una
conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria
conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non
potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1. colle
illusioni, e di queste è stata loro liberalissima… 2. coll’immensa varietà,
acciocché l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse
all’altro…(167-168)
E la natura è certo che ha
provveduto in tutti i modi contro questo male (la noia).. col dare all’uomo
molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete,
freddo, caldo, ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran
varietà, colla immaginazione… Insomma il sistema della natura rispetto all’uomo
è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia
(175)”.
7) Ma è un ragionamento che non
può tenere fino in fondo: l’infelicità derivante dalla inevitabile insoddisfazione
del desiderio potrà essere ingannata o addormentata, ma è pur sempre congenita,
associata inseparabilmente all’esistenza, e quindi opera di una natura che, al
fondo, non è benigna verso le sue creature, siano esse uomini civilizzati o
uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò che
esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono
affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:
“La felicità è impossibile a chi
la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e
non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo
desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora
questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor
proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni
vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera
assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile,
e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico,
che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)
“Dove non v’ha piacere, quivi ha
patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non
soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e
il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il
piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei
soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o
cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come
intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi
soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può
mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è
vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).”
8) Ed è una condizione che
riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere
vivente:
“Una specie di viventi rispetto
all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella
sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali.
(Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi)”.
(3848, 7/11/23)
“... resta che non solo gli uomini e gli
animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la
felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria
natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e
una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della
felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita,
ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri
dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di
essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante
infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)
“Riconosciuta la impossibilità
tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto,
anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e
necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e
dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa
infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale,
quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della
felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor
possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno
sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal
sentimento.” (4186, 13/7/26)
Che sia una
verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità
poeticamente ribadita nella chiusa del Canto notturno, dove si dice che
“dentro covile o cuna / è funesto a chi nasce il dì natale”) ma anche per i
viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto nel passo famoso dello Zibaldone
in cui viene rovesciato il topos del locus amoenus:
“Non gli uomini solamente... se
questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere
sarebbe per loro assai meglio che l’essere.” (4175-77, 22/4/26)
Alla fine di questo
ragionamento ci attende inevitabile la cosiddetta “sapienza silenica”, ovvero
la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità:
meglio non essere, essere niente.
“Desiderare la vita, in qualunque
caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che
desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere
infelice.” (829-30, 20/3/21)
9) C’è poi la memorabile nota
(2-1-29) in cui L. nega la misantropia per incolpare la natura di ogni male:
“La mia filosofia fa rea d’ogni
cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non
altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi”
(4428).
Del 17/5/29 è il passo in
cui, in polemica con un pensiero di Rousseau (secondo cui il male è causato dal
“disordine” che l’uomo arreca alla natura), si sostiene che il male non è
accidentale, ma è inerente all’ordine della natura:
Appunto l’ordine che è nel mondo,
e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza
il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile… Noi concepiamo più
facilmente de’ mali accidentali che regolari e ordinarii… Ma che epiteto dare a
quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine
nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi
v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene: Ma che sperare
quando il male è ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale? (4511)
Il rovesciamento è compiuto. Come conclusione, si
può vedere anche il progettato Inno ad Arimane (primavera del 33).
Rivolgersi alla divinità del male come “re delle cose, autor del mondo” (con
quel che segue), equivale a riconoscere l’essenza maligna della natura. Del
resto al dio del male (Arimane) viene attribuito lo stesso carattere
ingannatore della natura, quando gli si chiede: “perché hai tu posto nella vita
qualche apparenza di piacere? Per travagliarci col desiderio…?” Natura e
divinità del male sono la stessa cosa (Ad Arimane: “te con diversi nomi
il volgo appella fato, natura e dio”; A se stesso: “… la natura, il
brutto / poter, che, ascoso, a comun danno impera.”)
[1]
Timpanaro ritiene anche che l’idea dell’Inno ad Arimane provenga da una
suggestione del Poema di Voltaire dove si parlava di un “nero Tifone, un
barbaro Arimane che impongono la legge che ci condanna alla sofferenza”. E
quindi così sintetizza: Rousseau è alla base del pessimismo storico, Voltaire
di quello cosmico.
[2]
Costui indica addirittura la primavera del 19 come punto di svolta, ovvero il
periodo di forte crisi, segnato da un indebolimento della vista, cui L. fa
riferimento in lettere (a Trissino, 27/9/19; a Giordani, 19/11/19) e in Zib.
144.
[3]
E’ un’idea esattamente anti-aristotelica, ben spiegata in una nota del 3/10/23,
ma già reperibile nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi, laddove si dice che “la
società è figlia del peccato”, perché fu Caino “vagabondo e ramingo per li
rimorsi della coscienza… il primo fondatore della città”.
[4]
Per tutto ciò, nelle ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni L.
sembra ironizzare anche su se stesso, su questo momento del suo pensiero,
quando deride l’idea che ci sia uno stato di natura perfetto da cui l’umanità
sarebbe decaduta.
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