mercoledì 8 aprile 2015

Natura e ragione in Leopardi (II parte)


1)    Il passaggio al cosiddetto “pessimismo cosmico”, non è così netto, come dicevo. Ma certo, non si sbaglia individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al 24) in cui la nuova concezione è messa a punto. Bisognerà ricordare che risalgono al 23, l’anno del soggiorno romano, la lettura (indiretta, attraverso Il viaggio del giovane Anacarsi, di Barthélemy) di quei testi (di Teognide, Pindaro, Sofocle, Euripide, nonché l’Eudemo di Aristotele) in cui era espressa la sapienza silenica, ovvero il pessimismo antico: forte stimolo a rivedere l’idea di una felicità degli antichi, revisione che si concretizzerà nelle Operette morali. Peraltro, sia Luporini che Timpanaro  danno per scontata una influenza del Voltaire del Poema sul disastro di Lisbona (1755), che viene citato a p. 4175 dello Zibaldone (aprile 26), proprio ad introduzione del famoso pensiero “entrate in un giardino…”.[1]

2)    In operette come il Dialogo della natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge con chiarezza l’idea di una natura indifferente al dolore degli individui, e quindi “madre di parto, e di voler matrigna” (così nella Ginestra, peraltro unico luogo in cui si trova l’appellativo di “matrigna”).  La natura, indifferente alla sorte delle sue creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo, attraverso un “perpetuo ciclo di produzione e distruzione” (Dialogo della natura e un islandese); ma se così è, se “quel che è distrutto patisce, e quel che distrugge non gode”, si tratta di una “vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”. Non c’è possibilità di felicità, in nessuna condizione, civilizzata o naturale, antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si rivolge al sole il gallo silvestre:

 “Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra e del mare? Qual cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi, qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali?”    

3)    Chi, come Timpanaro[2], cerca tracce precedenti di questa mutata concezione della natura, le trova in testi come la canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del 19, poi non pubblicata), dove si dice:

“natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati” (stanza 8), e poi (stanza 9) “e chi diritto guata, / nostra famiglia a la natura è gioco.”

Ma qui, nel contesto di una poesia d’occasione, di tipo consolatorio, il rilievo dell’infelicità comune sembra essere un topos più che il segno di un pensiero nuovo. Del resto nella canzone ci sono i motivi tipici del pessimismo storico, laddove si dice che il vivere a lungo è un male perché comporta il convivere con l’empia e vile società presente (strofa 10). Ed anche in idilli come La sera del dì di festa (20) o La vita solitaria (estate 21) si ritrova il lamento contro “l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno”, ma siamo ancora su un piano autobiografico, lontano dalla concezione di una natura ostile all’intero genere umano. In questo senso, con questi limiti, è L’ultimo canto di Saffo (maggio del 22) il documento più convincente (all’origine dell’infelicità non c’è la civiltà corrotta dall’abuso della ragione, ma un elementare ed irrimediabile dato di natura: la bruttezza fisica di Saffo).

4)    Si può pensare ad una fase intermedia, fra la fine del 21 (il tempo della composizione delle canzoni A un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Bruto minore) e l’aprile del 24 (composizione dell’operetta Dialogo della Natura e di un’anima), in cui convive in L. uno strano dualismo fra l’idea di una natura fondamentalmente benefica e il lamento contro la malignità del fato, dei numi e simili. L’obbrobriosa età moderna è voluta dal “duro cielo”, dall’”empio fato” (Nelle nozze…, prima strofa); la decadenza è “nostra colpa e fatal”, cioè del fato (A un vincitore…, v. 57); nel Bruto minore alla natura benefica si contrappone la volontà malefica degli dei (pur essendoci anche il riferimento all’”empio costume” degli uomini, instaurato dalla ragione, come causa della perdita dei “beati regni”: v. 56):

A voi, marmorei numi / (se numi avete in Flegetonte albergo / o su le nubi), a voi ludibrio e scherno / è la prole infelice / a cui templi chiedeste, e frodolenta / legge al mortale insulta. /

Nel Dialogo della Natura e di un’anima, il dualismo è ribadito con chiarezza, e sembra il segnale della crescente insoddisfazione di L. per il proprio “sistema”, una insoddisfazione che non ha trovato ancora sistemazione teorica e che cerca di salvaguardare la bontà della natura, accusando un’altra entità altrettanto (o più) potente ed immodificabile (e dunque un’entità che sembra un travestimento della natura, un modo provvisorio, e mascherato, di nominarla); dice la Natura all’anima che le aveva chiesto di rendere felici le creature o di non farle nascere:

Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere… Tutto questo è contenuto nell’ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare… Tutte le anime degli uomini… sono assegnate in preda all’infelicità, senza mia colpa… Di codesto conferirò col destino.

5)    Ne La scommessa di Prometeo sembra doversi concludere che non vi sia più traccia di uno stato naturale felice. Ma se si legge l’operetta (che è del maggio del 24) in parallelo con certe pagine dello Zibaldone dell’ottobre del 23, si capisce che per L. la condizione di quei popoli primitivi che danno prova di grande barbarie e violenza, che contrasta con la felicità naturale (in un caso l’antropofagia, in un altro l’usanza del rogo per le vedove), non è propriamente una condizione naturale, ma già di allontanamento dalla natura, che voleva “niuna società, o scarsa e larga”, e non una “società stretta” come invece l’uomo ha costruito[3]. Il ragionamento è interessante: la società stretta porta necessariamente a comportamenti umani violenti e “infelicitanti” (contro natura), in quanto i singoli, invece di collaborare per il bene comune, perseguono i propri interessi a danno degli altri. Succede nella società stretta che quell’amor proprio naturale (amore di sé, della propria conservazione, della propria felicità. indissociabile dal vivere) si esplichi, innaturalmente, come odio verso gli altri (si attiva ciò che c’era in potenza), con tutti i mali che ne conseguono (oppressione, guerra, ecc.). Gli effetti di tale odio sono più vistosi in quei popoli che sono più vicini allo stato naturale (v. l’antropofagia dei selvaggi o l’uso di sacrifici umani o di bruciarsi vivi): dal che si dovrebbe dedurre che la società civile, in quanto non attua le pratiche barbare proprie dei popoli primitivi, è più vicina alla bontà della natura (3773-3810); ma la società civile, come scoprono Momo e Prometeo, è quella in cui l’individuo nuoce non agli altri, ma a se stesso (fino al suicidio), ed è quindi massimamente infelice (3932-3936). Lo stato naturale (e quindi buono) è rintracciabile solo nei Californi (il riferimento a questo popolo come modello di primitività naturale, ritorna altre volte in Zibaldone, cosiccome nel finale dell’Inno ai Patriarchi; non so da quale fonte provenga), che vivono in una società larga e quindi non fanno niente contro natura (3801)[4].

6)    Ma non c’è dubbio che, sul piano teorico, l’elemento decisivo che induce al passaggio da una concezione all’altra, si debba individuare nella elaborazione della teoria del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente (Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Ciononostante, in un primo momento L. cerca di salvare il proprio “sistema”, che presuppone il carattere benigno della natura, sostenendo che la stessa ha provveduto ad alleviare tale condizione, fornendo all’uomo l’immaginazione e le illusioni, che sono “il primo fonte della felicità”, ed anche la gran varietà delle cose e la necessità di soddisfare i bisogni primari, che lo tengono occupato, ingannano, mitigano, addormentano quel desiderio infinito, impediscono che l’uomo sia sopraffatto dalla noia (prima conseguenza della impossibilità di soddisfare il desiderio infinito):

 “Il piacere infinito che non si trova nella realtà, si trova nella immaginazione… quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliare l’uomo e nessun essere vivente dell’amor del piacere, che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima… 2. coll’immensa varietà, acciocché l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro…(167-168)

E la natura è certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male (la noia).. col dare all’uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete, freddo, caldo, ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, colla immaginazione… Insomma il sistema della natura rispetto all’uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia (175)”. 

7)    Ma è un ragionamento che non può tenere fino in fondo: l’infelicità derivante dalla inevitabile insoddisfazione del desiderio potrà essere ingannata o addormentata, ma è pur sempre congenita, associata inseparabilmente all’esistenza, e quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:


“La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)

“Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).” 

8)    Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:

“Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)

 “... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)  

“Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.”  (4186, 13/7/26)

Che sia una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita nella chiusa del Canto notturno, dove si dice che “dentro covile o cuna / è funesto a chi nasce il dì natale”) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus amoenus:

“Non gli uomini solamente... se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere.” (4175-77, 22/4/26)

Alla fine di questo ragionamento ci attende inevitabile la cosiddetta “sapienza silenica”, ovvero la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non essere, essere niente.


“Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice.”  (829-30, 20/3/21)

9)    C’è poi la memorabile nota (2-1-29) in cui L. nega la misantropia per incolpare la natura di ogni male:


“La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi” (4428).

Del 17/5/29 è il passo in cui, in polemica con un pensiero di Rousseau (secondo cui il male è causato dal “disordine” che l’uomo arreca alla natura), si sostiene che il male non è accidentale, ma è inerente all’ordine della natura:

Appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile… Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali che regolari e ordinarii… Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene: Ma che sperare quando il male è ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale? (4511)

Il rovesciamento è compiuto. Come conclusione, si può vedere anche il progettato Inno ad Arimane (primavera del 33). Rivolgersi alla divinità del male come “re delle cose, autor del mondo” (con quel che segue), equivale a riconoscere l’essenza maligna della natura. Del resto al dio del male (Arimane) viene attribuito lo stesso carattere ingannatore della natura, quando gli si chiede: “perché hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? Per travagliarci col desiderio…?” Natura e divinità del male sono la stessa cosa (Ad Arimane: “te con diversi nomi il volgo appella fato, natura e dio”; A se stesso: “… la natura, il brutto / poter, che, ascoso, a comun danno impera.”)



[1] Timpanaro ritiene anche che l’idea dell’Inno ad Arimane provenga da una suggestione del Poema di Voltaire dove si parlava di un “nero Tifone, un barbaro Arimane che impongono la legge che ci condanna alla sofferenza”. E quindi così sintetizza: Rousseau è alla base del pessimismo storico, Voltaire di quello cosmico.
[2] Costui indica addirittura la primavera del 19 come punto di svolta, ovvero il periodo di forte crisi, segnato da un indebolimento della vista, cui L. fa riferimento in lettere (a Trissino, 27/9/19; a Giordani, 19/11/19) e in Zib. 144.
[3] E’ un’idea esattamente anti-aristotelica, ben spiegata in una nota del 3/10/23, ma già reperibile nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi, laddove si dice che “la società è figlia del peccato”, perché fu Caino “vagabondo e ramingo per li rimorsi della coscienza… il primo fondatore della città”.
[4] Per tutto ciò, nelle ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni L. sembra ironizzare anche su se stesso, su questo momento del suo pensiero, quando deride l’idea che ci sia uno stato di natura perfetto da cui l’umanità sarebbe decaduta.

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