giovedì 9 aprile 2015

Elogio dell'inettitudine (I parte)


Marcello Tartaglia
Elogio dell’inettitudine
Leopardi, Svevo, Montale, Pirandello

Con il titolo del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà dell’editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine dell’Ottocento (Una vita è del 1892), ma la figura dell’inetto attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e all’efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un anti-eroe, i cui precedenti sono senz’altro riconoscibili in certi personaggi del grande romanzo russo dell’Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell’“uomo del sottosuolo” di Dostoevskji e nell’“uomo superfluo” di Turgenev. E certo, in questa galleria ideale non può mancare l’albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più celebri Fleurs du mal: quel grande uccello marino, re dell’azzurro e principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell’inetto sveviano l’antenato più illustre e credibile.

Ma se non è sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto, quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.

I. Leopardi: l’anima

Nel Dialogo della Natura e di un’Anima Leopardi ribadisce quell’associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata nello Zibaldone[1] e rintracciabile in altre Operette morali:[2] quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli “animali bruti”), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più interessante, in questa Operetta, è lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:

Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.[3]

Si dice dunque che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la “ragione” e l’“immaginativa”) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che nell’agire (creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire) e quindi condannano l’individuo intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece prontezza nel decidere e determinazione nell’agire sono proprie degli ingegni mediocri (i meno atti o meno usati a ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati in società (nel conversare con gli altri uomini), l’individuo di talento apparirà, al contrario, goffo ed impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione si sconta con l’incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:

E’ cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.[4]


 Il secondo motivo, ovvero quello della incapacità “di rendersi nella conversazione tollerabili”, si ritrova anche in un’altra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a proposito della “invincibile timidità” di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un’altra categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che

togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo, della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi [...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.[5]

Altrove si parla invece di un eccesso di “amor proprio”, riconducibile alla “soprabbondanza della vita interna dell’anima”:

La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità dell’immaginazione [...] Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno, della natura riflessiva, immaginosa, ec.[6]

In conclusione:

[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che altrui.[7]



[1] La questione è connessa con la cosiddetta “teoria del piacere”, su cui Leopardi ritorna più volte, ma che elabora in maniera più sistematica nelle riflessioni del 12 febbraio 1821 (Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio 1822 (Zibaldone, pp. 2410-14).
[2] Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Marcabruno e Farfarello (anche se qui è posta l’equazione vita-infelicità, anziché quella grandezza-infelicità).
[3] G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un’Anima, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.
[4] Zibaldone, pp. 538-39 (21 gennaio 1821); ma si veda anche p. 3040 (26 luglio 1823).
[5] Zibaldone, pp. 3188-89 (18 agosto 1823).
[6] Zibaldone, pp. 4038-39 (3 marzo 1824).
[7] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 942.

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