Marcello
Tartaglia
Elogio
dell’inettitudine
Leopardi,
Svevo, Montale, Pirandello
Con il titolo
del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà
dell’editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale
che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta
letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine
dell’Ottocento (Una vita è del 1892), ma la figura dell’inetto
attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e
sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano
estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e
all’efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un
anti-eroe, i cui precedenti sono senz’altro riconoscibili in certi personaggi
del grande romanzo russo dell’Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e
citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell’“uomo del sottosuolo” di
Dostoevskji e nell’“uomo superfluo” di Turgenev. E certo, in questa galleria
ideale non può mancare l’albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più
celebri Fleurs du mal: quel grande uccello marino, re dell’azzurro e
principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle
sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i
marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell’inetto
sveviano l’antenato più illustre e credibile.
Ma se non è
sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto,
quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a
ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella
condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più
sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante
la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e
problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.
I. Leopardi: l’anima
Nel Dialogo della Natura e di un’Anima
Leopardi ribadisce quell’associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata
nello Zibaldone[1]
e rintracciabile in altre Operette morali:[2]
quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si
eleva sopra il torpore degli “animali bruti”), tanto più è destinato
all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il
desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più
interessante, in questa Operetta, è
lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge
ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita
quotidiana:
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono
ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro
potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali
creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti
e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e
nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro
stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi
impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così
deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano
la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni
trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie
nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno
ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre
in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli
altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed
apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma
spregevoli in ogni modo.[3]
Si dice dunque
che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la “ragione” e
l’“immaginativa”) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che
nell’agire (creano mille dubbietà nel
deliberare, e mille ritegni nell’eseguire) e quindi condannano l’individuo
intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece
prontezza nel decidere e determinazione nell’agire sono proprie degli ingegni
mediocri (i meno atti o meno usati a
ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre
capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati
in società (nel conversare con gli altri
uomini), l’individuo di talento apparirà, al contrario, goffo ed
impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione
si sconta con l’incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la
mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di
queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:
E’ cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior
talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare;
i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da
quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le
cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente,
malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di
riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e
l’angustia di risolvere.[4]
Il secondo motivo, ovvero quello della
incapacità “di rendersi nella
conversazione tollerabili”, si ritrova anche in un’altra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro
sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a
proposito della “invincibile timidità”
di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un’altra
categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le
cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al
contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che
togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo,
della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi
[...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di
mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le
qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.[5]
Altrove si
parla invece di un eccesso di “amor
proprio”, riconducibile alla “soprabbondanza
della vita interna dell’anima”:
La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla
soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità
dell’immaginazione [...] Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e
virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e
irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non
son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno
e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i
tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno,
della natura riflessiva, immaginosa, ec.[6]
In conclusione:
[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto
alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della
disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini
smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non
ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico
della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che
altrui.[7]
[1] La questione è connessa con la
cosiddetta “teoria del piacere”, su cui Leopardi ritorna più volte, ma che
elabora in maniera più sistematica nelle riflessioni del 12 febbraio 1821 (Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio
1822 (Zibaldone, pp. 2410-14).
[2] Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo
di Marcabruno e Farfarello (anche se qui è posta l’equazione
vita-infelicità, anziché quella grandezza-infelicità).
[3] G.
Leopardi, Dialogo della Natura e
di un’Anima, in Tutte le opere di
Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.
[4]
Zibaldone, pp.
538-39 (21 gennaio 1821); ma si veda anche p. 3040 (26 luglio 1823).
[5]
Zibaldone, pp.
3188-89 (18 agosto 1823).
[6]
Zibaldone, pp.
4038-39 (3 marzo 1824).
[7]
G. Leopardi, Detti
memorabili di Filippo Ottonieri,
in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 942.
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