domenica 12 aprile 2015

"Rosa fresca aulentissima..." e l'equivoco di Dario Fo (II parte)


IV. Le Constitutiones regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così chiamate perché promulgate a Melfi, da Federico II, nel 1231[1]) sono un insieme di leggi evidentemente intese a far valere il potere centrale del monarca e, di contro, a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza dello Stato; e questo è vero in particolare per quanto riguarda l’istituto della defensa, di cui si tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di dette Costituzioni[2].

Di che si tratta? L’imperatore, dopo aver notato che spesso la potenza dell’aggressore è talmente soverchiante (in tantum supereminere) che l’aggredito, per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è costretto a subire l’aggressione, conclude: “presentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti imperiali prohibeat ut ipsum offendere de cetero non presumat”[3]; e cioè, a chiunque (anche Giudeo o Saraceno, dirà più oltre[4]: si noti quindi la volontà di tutelare le categorie deboli) è data facoltà di difendersi invocando il nome dell’imperatore; quell’invocazione avrebbe avuto l’effetto di interrompere l’aggressione, giacché, altrimenti, sarebbe stata considerata un’aggressione contro la persona stessa dell’imperatore. Si aggiunge poi che, nell’eventualità di violazione della defensa, il caso sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato davanti ai tribunali del re (“de istis defensis... etiam per privatas personas indictis... magister justitiarius et justitiarii nostri cognoscant” [5]).

Mi pare che questi elementi siano sufficienti a farci capire che, con l’istituto della defensa [6], Federico II, tutt’altro che rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del resto gli è ben chiaro che proprio su tale limitazione si può fondare l’autorità superiore dello Stato, secondo le linee di una politica da lui sempre perseguita); intende difendere il diritto di chi, altrimenti, dovrebbe subire il sopruso di un potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la prepotenza di colui la cui “potentia” “superminet”); e per meglio garantirsi dalla possibilità che il potente-prepotente si faccia dar ragione da giudici locali compiacenti, avoca a sé il potere di dirimere la controversia. Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai contemporanei, se Marino da Caramanico, un glossatore che opera attorno al 1275, così scrive commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: “Et per hanc constitutionem succurrit Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur” [7].

 
V. Ma c’è dell’altro. Seguendo la sua interpretazione (secondo cui la defensa  sarebbe uno strumento di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve dell’esempio della violenza sessuale che il potente avrebbe potuto compiere, sicuro dell’impunità, semplicemente pagando la defensa (e cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei versi in questione l’amante, millantando la propria ricchezza, si dichiari disposto a pagare la defensa (ed indica la cifra che si può permettere: duemila augustali) pur di compiere violenza sulla ragazza[8]. Al contrario, invece, dal testo mi pare inequivocabile che i duemila augustali costituiscano la cifra che, una volta che l’amante abbia “imposto” la defensa, i parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero (non si spiega, altrimenti, il verso "non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari”, e cioè: non mi toccherebbe tuo padre per quante ricchezze egli abbia in Bari[9]). Ed infatti, il titolo XVIII delle Melfitane sembra proprio far riferimento a due tipi di defensa: uno “semplice” (licet ex parte nostra, nulla etiam quantitate adiecta, defensa simpliciter imponatur), che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il trasgressore la perdita di un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda che abbia commesso l’aggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro caso, con indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate)[10].

Dunque l’amante indica come multa la somma di duemila augustali. Che si tratti di una “sbruffonata” non c’è dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima[11]; ma fa parte del “gioco”: come lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che certamente non ha (si vedano i versi 27: “Donna mi so’ di perperi, d’auro massamotino”; 46: “se distinata fosseti, caderìa de l’altezze”; 86-87: “di quel frutto non abbero conti né cabalieri / molto lo disiarono marchesi e justizieri”) così lui, con quella cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona, quasi a dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi. Del resto lo stesso appellarsi alla defensa, in questo contesto, non è una cosa seria, ma piuttosto la minaccia scherzosa di un innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo: mancano infatti i tre testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione, che la legge richiede perché la violazione della defensa sia provata e quindi punita (tres testes aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam)[12].

Ma malgrado il tono scherzoso, è evidente che l’innamorato fa riferimento alla defensa come ad una legge che lo tutela - grazie all’imperatore e “grazi’ a Deo” - da eventuali aggressioni (dei parenti di lei); non come ad una legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente, un atto di violenza sessuale. Anche perché - e questo mi pare un argomento decisivo, che toglie fondamento a tutta l’esemplificazione di Fo sul violentatore che andava in giro con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la defensa - le stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena capitale ai colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne oneste, ma anche delle meretrici: ut nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluntati[13]): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! C’era da rimetterci la pelle. Sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene subiacean )[14]; e i testimoni dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto[15].




[1]Per inciso, noteremo che questa data (1231, anno delle Costituzioni melfitane, ma anche della coniazione degli augustali, cui si fa riferimento nella stessa strofa) è per noi significativa, perché ci consente di stabilire il termine dopo del quale il Contrasto è stato scritto; così come l’esclamazione “viva lo ’mperadore” ci consente di stabilire il termine prima del quale (1250, anno di morte di Federico II).
[2]Per le citazioni, mi riferisco all’edizione di Huillard-Bréhollés, Historia diplomatica Friderici II, t. IV, pars 1°, Parisiis 1854.
[3] Const. I, XVI, De defensis imponendis et quis eas imponere possit (p. 17).
[4] Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 22).
[5] Const. I, XVII, De defensis impositis ab officialibus, et pena defense (p. 20).
[6] Si è discusso a lungo sulle origini (romane, germaniche, normanne, ecc.) di tale istituto. E’ certo che esso preesiste (nella forma della protezione “privata” concessa da singoli feudatari) alla sistemazione legislativa di Federico II; anzi, proprio nei tit. XVI-XVIII delle Melfitane, si dovrà vedere l’intenzione dell’imperatore di affermare la legittimità di un’unica forma di defensa, ovvero quella “pubblica”, di Stato, fatta “nostri nominis invocatione”. Ed è altrettanto certo che a quest’ultimo tipo di defensa si riferisce il nostro componimento: l’esclamazione “viva lo ’mperadore”, quand’anche non fosse l’invocatio prevista dalla legge, sarà senz’altro una forma di ringraziamento nei confronti di chi ha inteso proteggere i sudditi da ogni violenza privata.
Per l’intera questione, in particolare con attinenza al Contrasto di C. d’A., si veda A. D’ANCONA, op. cit. (pp. 339 e segg.); L. SICILIANO-VILLANUEVA, Studi intorno alla defensa, in Circolo giuridico, Palermo, 1894; F. SCHUPFER, La defensa e l’asino di Apuleio, in Riv. Ital. Scienze Giur., 1896; C. A. GARUFI, La defensa ex parte domini imperatoris in un documento privato del 1227-28, in Riv. Ital. Scienze Giur., 1899; N. TAMASSIA, Nuovi studi sulla defensa e Ancora sulla defensa, in Atti R. Istituto Veneto, tomo LX, parte II, 1900-1901 (ora in Studi di storia giuridica meridionale, Bari 1957); E. KANTOROWICZ,  Invocatio nominis imperatoris (on vv. 21-25 of Cielo d’Alcamo’s Contrasto), in Bollettino del Centro studi filologici e linguistici siciliani, III, 1955.
[7]La glossa si può leggere in Liber augustalis (Constitutionum Regni Siciliarum libri III, Naples 1773) I, 16.
[8]Devo dire che, nella storia della critica del Contrasto, Fo non è il solo a fraintendere in questo modo: lo aveva già fatto L. VIGO (Ciullo d’Alcamo e la sua tenzone. Commento, in Il Propugnatore, 1870, III), che ne deduceva - senza nemmeno rendersi conto che, comunque, la cifra indicata è una millanteria - la grande ricchezza e l’alto rango sociale del protagonista del Contrasto; e più recentemente lo ha fatto E. KANTOROWICZ (Invocatio nominis imperatoris..., op. cit.), il quale crede (non si capisce perché) che siano i parenti di lei a imporre la defensa  contro l’amante.
[9]Bisognerà ricordare che il riferimento a Bari implica un’altra questione molto controversa: alcuni se ne servono per sostenere la collocazione pugliese del Contrasto, altri invece (e sono i più) lo intendono come un riferimento generico ad una città nota per la sua opulenza (e quindi il passo significherebbe: per quante ricchezze ci siano in Bari). Del resto, dato che nei codici si legge un incomprensibile “ambari”, sono state formulate anche altre congetture.
[10] Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena contemnentium ipsas (p. 20).
[11]La corrispondenza indicata da Fo (settantacinquemila lire), per quanto rapportata al valore della lira alla fine degli anni ’60, è assolutamente inadeguata. Ma anche questo minimizzare è comprensibile: Fo intende dimostrare che il potente, che intendesse commettere un sopruso, se la poteva cavare, tutto sommato, a buon mercato.
[12] Const. I, XVIII (p. 21)
[13] Const. I, XXI, De violentia meretricibus illata (p. 23).
[14] Const. I, XXII, De raptoribus virginum vel viduarum (p. 25).
[15] Const. I, XXIII, Si quis mulieri violentiam patienti et clamanti non succurrerit (pp. 25-26).

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