IV. Le Constitutiones regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così
chiamate perché promulgate a Melfi, da Federico II, nel 1231[1]) sono un insieme di leggi
evidentemente intese a far valere il potere centrale del monarca e, di contro,
a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza dello Stato; e questo
è vero in particolare per quanto riguarda l’istituto della defensa, di cui si tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di
dette Costituzioni[2].
Di che si tratta? L’imperatore,
dopo aver notato che spesso la potenza dell’aggressore è talmente soverchiante
(in tantum supereminere) che l’aggredito,
per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è costretto a subire
l’aggressione, conclude: “presentis legis
auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus aggressorem suum per
invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti imperiali prohibeat
ut ipsum offendere de cetero non presumat”[3]; e cioè, a chiunque (anche
Giudeo o Saraceno, dirà più oltre[4]: si noti quindi la volontà di
tutelare le categorie deboli) è data facoltà di difendersi invocando il nome
dell’imperatore; quell’invocazione avrebbe avuto l’effetto di interrompere
l’aggressione, giacché, altrimenti, sarebbe stata considerata un’aggressione
contro la persona stessa dell’imperatore. Si aggiunge poi che, nell’eventualità
di violazione della defensa, il caso
sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato davanti ai tribunali del re
(“de istis defensis... etiam per privatas
personas indictis... magister justitiarius et justitiarii nostri cognoscant” [5]).
Mi pare che questi elementi siano
sufficienti a farci capire che, con l’istituto della defensa [6], Federico II, tutt’altro che
rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del resto gli è ben chiaro
che proprio su tale limitazione si può fondare l’autorità superiore dello
Stato, secondo le linee di una politica da lui sempre perseguita); intende
difendere il diritto di chi, altrimenti, dovrebbe subire il sopruso di un
potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la
prepotenza di colui la cui “potentia”
“superminet”); e per meglio garantirsi dalla possibilità che il
potente-prepotente si faccia dar ragione da giudici locali compiacenti, avoca a
sé il potere di dirimere la controversia. Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a
quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai
contemporanei, se Marino da Caramanico, un glossatore che opera attorno al
1275, così scrive commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: “Et per hanc constitutionem succurrit
Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur” [7].
V. Ma c’è dell’altro. Seguendo la
sua interpretazione (secondo cui la defensa sarebbe uno strumento di sopraffazione dei
ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve dell’esempio della violenza
sessuale che il potente avrebbe potuto compiere, sicuro dell’impunità,
semplicemente pagando la defensa (e
cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei versi in questione
l’amante, millantando la propria ricchezza, si dichiari disposto a pagare la defensa (ed indica la cifra che si può
permettere: duemila augustali) pur di compiere violenza sulla ragazza[8]. Al contrario, invece, dal testo
mi pare inequivocabile che i duemila augustali costituiscano la cifra che, una
volta che l’amante abbia “imposto” la defensa,
i parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero (non si
spiega, altrimenti, il verso "non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha
’n Bari”, e cioè: non mi toccherebbe tuo padre per quante ricchezze egli abbia
in Bari[9]). Ed infatti, il titolo XVIII delle
Melfitane sembra proprio far riferimento a due tipi di defensa: uno “semplice” (licet
ex parte nostra, nulla etiam quantitate adiecta, defensa simpliciter imponatur),
che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il trasgressore la perdita di
un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda che abbia commesso
l’aggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro
caso, con indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate)[10].
Dunque l’amante indica come multa
la somma di duemila augustali. Che si tratti di una “sbruffonata” non c’è
dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima[11]; ma fa parte del “gioco”: come
lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che certamente non ha (si vedano
i versi 27: “Donna mi so’ di perperi, d’auro massamotino”; 46: “se distinata
fosseti, caderìa de l’altezze”; 86-87: “di quel frutto non abbero conti né
cabalieri / molto lo disiarono marchesi e justizieri”) così lui, con quella
cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona, quasi a
dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi. Del resto lo stesso
appellarsi alla defensa, in questo
contesto, non è una cosa seria, ma piuttosto la minaccia scherzosa di un
innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo: mancano infatti i tre
testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione, che la legge richiede
perché la violazione della defensa
sia provata e quindi punita (tres testes
aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam)[12].
Ma malgrado il tono scherzoso, è
evidente che l’innamorato fa riferimento alla defensa come ad una legge che lo tutela - grazie all’imperatore e
“grazi’ a Deo” - da eventuali aggressioni (dei parenti di lei); non come ad una
legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente, un atto di violenza
sessuale. Anche perché - e questo mi pare un argomento decisivo, che toglie
fondamento a tutta l’esemplificazione di Fo sul violentatore che andava in giro
con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la defensa - le stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena
capitale ai colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne
oneste, ma anche delle meretrici: ut
nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluntati[13]): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! C’era da rimetterci la
pelle. Sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in
atteggiamento inequivocabile (in ipsis
venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida
e sommaria (nobis etiam inconsultis,
capitali pene subiacean )[14]; e i testimoni dovevano
accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso
che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto[15].
[1]Per
inciso, noteremo che questa data (1231, anno delle Costituzioni melfitane, ma
anche della coniazione degli augustali, cui si fa riferimento nella stessa
strofa) è per noi significativa, perché ci consente di stabilire il termine
dopo del quale il Contrasto è stato scritto; così come l’esclamazione “viva lo
’mperadore” ci consente di stabilire il termine prima del quale (1250, anno di
morte di Federico II).
[2]Per
le citazioni, mi riferisco all’edizione di Huillard-Bréhollés,
Historia diplomatica Friderici II, t.
IV, pars 1°, Parisiis 1854.
[3] Const. I, XVI, De defensis imponendis et quis eas imponere possit (p. 17).
[4] Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de
pena contemnentium ipsas (p. 22).
[5] Const. I, XVII, De defensis impositis ab officialibus, et
pena defense (p. 20).
[6]
Si è discusso a lungo sulle origini (romane, germaniche, normanne, ecc.) di
tale istituto. E’ certo che esso preesiste (nella forma della protezione
“privata” concessa da singoli feudatari) alla sistemazione legislativa di
Federico II; anzi, proprio nei tit. XVI-XVIII delle Melfitane, si dovrà vedere
l’intenzione dell’imperatore di affermare la legittimità di un’unica forma di defensa, ovvero quella “pubblica”, di
Stato, fatta “nostri nominis invocatione”.
Ed è altrettanto certo che a quest’ultimo tipo di defensa si riferisce il nostro componimento: l’esclamazione “viva
lo ’mperadore”, quand’anche non fosse l’invocatio prevista dalla legge, sarà
senz’altro una forma di ringraziamento nei confronti di chi ha inteso
proteggere i sudditi da ogni violenza privata.
Per l’intera questione, in
particolare con attinenza al Contrasto di C. d’A., si veda A. D’ANCONA, op.
cit. (pp. 339 e segg.); L. SICILIANO-VILLANUEVA, Studi intorno alla defensa, in Circolo
giuridico, Palermo, 1894; F. SCHUPFER, La
defensa e l’asino di Apuleio, in Riv.
Ital. Scienze Giur., 1896; C. A. GARUFI, La defensa ex parte domini imperatoris in un documento privato del
1227-28, in Riv. Ital. Scienze Giur.,
1899; N. TAMASSIA, Nuovi studi sulla defensa
e Ancora sulla defensa, in Atti R. Istituto Veneto, tomo LX, parte
II, 1900-1901 (ora in Studi di storia
giuridica meridionale, Bari 1957); E. KANTOROWICZ, Invocatio
nominis imperatoris (on vv. 21-25 of Cielo d’Alcamo’s Contrasto), in Bollettino del Centro studi filologici e
linguistici siciliani, III, 1955.
[7]La
glossa si può leggere in Liber augustalis
(Constitutionum Regni Siciliarum libri
III, Naples 1773) I, 16.
[8]Devo
dire che, nella storia della critica del Contrasto, Fo non è il solo a
fraintendere in questo modo: lo aveva già fatto L. VIGO (Ciullo d’Alcamo e la sua tenzone. Commento, in Il Propugnatore, 1870, III), che ne deduceva - senza nemmeno
rendersi conto che, comunque, la cifra indicata è una millanteria - la grande
ricchezza e l’alto rango sociale del protagonista del Contrasto; e più
recentemente lo ha fatto E. KANTOROWICZ (Invocatio
nominis imperatoris..., op. cit.), il quale crede (non si capisce perché)
che siano i parenti di lei a imporre la defensa contro l’amante.
[9]Bisognerà
ricordare che il riferimento a Bari implica un’altra questione molto
controversa: alcuni se ne servono per sostenere la collocazione pugliese del
Contrasto, altri invece (e sono i più) lo intendono come un riferimento
generico ad una città nota per la sua opulenza (e quindi il passo
significherebbe: per quante ricchezze ci siano in Bari). Del resto, dato che
nei codici si legge un incomprensibile “ambari”, sono state formulate anche
altre congetture.
[10] Const. I, XVIII, De defensis impositis et contemptis et de pena
contemnentium ipsas (p. 20).
[11]La
corrispondenza indicata da Fo (settantacinquemila lire), per quanto rapportata
al valore della lira alla fine degli anni ’60, è assolutamente inadeguata. Ma
anche questo minimizzare è comprensibile: Fo intende dimostrare che il potente,
che intendesse commettere un sopruso, se la poteva cavare, tutto sommato, a
buon mercato.
[12] Const. I, XVIII (p. 21)
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