venerdì 10 aprile 2015

Leopardi e la sapienza silenica (III parte)


V. Le riflessioni sul desiderio illimitato di piacere e sulla conseguente impossibilità di soddisfazione costituiscono il fondamento più chiaro del pessimismo leopardiano; le stesse costituiscono altresì evidente dimostrazione dell’affinità profonda che lega il pensiero di Leopardi alla sapienza silenica, se è vero che quelle riflessioni non fanno altro che dare sistemazione teorica all’idea, silenica, della connessione inestricabile fra esistenza ed infelicità.

Il ragionamento, sviluppato nello Zibaldone (in maniera più articolata nel luglio del 1820, ma più volte ripreso successivamente) è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Su questa connessione esistenza-infelicità Leopardi insiste particolarmente, e converrà citare con ampiezza:

Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita... Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza... [1]

La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. [2]

Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale... [3]

Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:

Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). [4]

... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. [5]

Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. [6]

E dunque, se è vero che l’infelicità è direttamente proporzionale alla capacità di sentire la vita, e pertanto è inferiore nelle forme inferiori di vita, se ne deve concludere che per l’uomo la condizione migliore è quella meno “vitale”, ovvero quella del sonno, del letargo, dello stordimento dato dall’oppio o dall’ebbrezza:

un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. [7]

E non godendo mai, né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è sensibile, e perché in certo modo ei non vive. [8]

E un individuo... allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non penosa, ec. ... Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl’istanti che precedono la morte... [9]

E’ da notare però che l’ubbriachezza ec., anche quando esalta le forze, e cagiona una non ordinaria vivacità ed attività... sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, d’¢naisqhsˆa... Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocché sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita, sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto, l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio vano della felicità...[10]

Alla fine di questo ragionamento - che mette in campo, abbiamo visto, anche il motivo dionisiaco per eccellenza, l’ebbrietà, come rimedio provvisorio - ci attende inevitabile la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non essere, essere niente.

Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice. [11]

 Leopardi avverte il carattere paradossale e contraddittorio di una simile verità - giacché alla fine si scopre la fallacia dell’assunto di partenza, che identifica l’amor proprio, quindi del proprio bene, con l’amore della propria conservazione - ma non vi rinuncia:

E però, secondo tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere.  Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa?  [12]

Ed è una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali, ma anche per i viventi di vita vegetativa:

... se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. [13]

 



[1]Zib., 165
[2]Zib., 648.
[3]Zib., 3551-52.
[4]Zib., 3847-48.
[5]Zib., 4137.
[6]Zib., 4186.
[7]Zib., 172.
[8]Zib., 3551.
[9]Zib., 3848.
[10]Zib., 3905-3906.
[11]Zib., 829-830.
[12]Zib., 4100.
[13]Zib., 4176-77.

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