I congiurati prendono contatto con gli Allobrogi
Poiché gli ambasciatori degli Allobrogi (una popolazione gallica) si trovavano a Roma, Catilina, tramite suoi uomini (Lentulo e Umbreno), li contatta per averli come alleati nella congiura.
Iisdem temporibus Romae Lentulus, sicuti (1) Catilina praeceperat, quoscumque moribus aut fortuna novis rebus idoneos credebat, aut per se aut per alios sollicitabat, neque solum civis (2) sed cuiusque modi genus hominum, quod modo bello usui foret (3). Igitur P. Umbreno cuidam negotium dat, uti legatos Allobrogum requirat eosque, si possit, impellat ad societatem belli, existumans publice privatimque aere alieno oppressos, praeterea quod natura gens Gallica bellicosa esset, facile eos ad tale consilium adduci posse. Umbrenus, quod in Gallia negotiatus erat, plerisque principibus civitatium notus erat atque eos noverat. Itaque sine mora, ubi primum legatos in foro conspexit, percontatus pauca de statu civitatis et quasi dolens eius casum, requirere coepit quem exitum tantis malis sperarent.
Sallustio, De coniuratione Catilinae (XXXIX-XL)
NOTE
1) Sicuti equivale a sicut (come più sotto uti equivale a ut)
2) Sta per cives
3) Foret è arcaismo per esset
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Traduzione
Contemporaneamente (lett.: negli stessi tempi) Lentulo a Roma (genitivo locativo), come Catilina (gli) aveva ordinato, sollecitava, o da solo o tramite altri, tutti quelli che per costumi o per condizioni patrimoniali (fortuna) riteneva disponibili alla rivoluzione (lett.: idonei alle novità), e non solo cittadini ma qualunque genere di uomini (lett.: il genere di uomini di qualunque tipo), purché fossero di utilità alla guerra (lett.: che soltanto fosse di utilità alla guerra, con bello usui in doppio dativo). Pertanto dà a un certo P. Umbreno l'incarico di cercare (che cerchi) gli ambasciatori degli Allobrogi e, se può, di spingerli (li spinga) ad una alleanza di guerra, ritenendo che facilmente potevano essere coinvolti in un tale progetto (indotti ad una tale iniziativa), (in quanto) gravati da debiti personali e di Stato (lett.: privatamente e pubblicamente) e inoltre poiché per natura la gente gallica era (ma anche "è") bellicosa. Umbreno, poiché (quod è la congiunzione causale, non il pronome relativo) aveva commerciato in Gallia, era noto alla maggior parte dei capi delle popolazioni (non "città", come dovreste avere imparato) e li conosceva (noverat è il piuccheperfetto indicativo di novi-novisse e si traduce con l'imperfetto). Perciò senza indugio, non appena (ubi primum) vide gli ambasciatori nel foro, dopo aver chiesto poche informazioni (lett.: poche cose) sullo stato della popolazione e quasi dolendosi (dolere regge l'accusativo) della sua condizione (cioè, della condizione in cui si trovava la popolazione degli Allobrogi), cominciò a domandare quale esito (soluzione) sperassero per così grandi (non "tanti", perché tantus in latino indica intensità, non quantità - come dovreste avere imparato) mali (cioè, i loro debiti).
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giovedì 30 aprile 2015
Traduzione da Sallustio (De coniuratione Catilinae, XXXIX-XL)
Traduzione da Valerio Massimo (Facta dictaque memorabilia, VII, 3)
Astuzia di Bruto
Il Tarquinio di cui si parla è l’ultimo re di Roma, il quale, temendo che qualcuno gli sottraesse il regno, aveva fatto uccidere tutti quelli che riteneva pericolosi avversari. Bruto (nipote di Tarquinio) è colui che lo caccerà, fonderà la repubblica e sarà console. Nel testo si parla poi di Apollo Pizio: così si chiamava il dio a cui era dedicato un famoso santuario a Delfi, in Grecia; là si usava andare da tutto il mondo, non solo per rendere omaggio al dio, ma anche per interrogarlo sul futuro. Iunius Brutus, cum a rege Tarquinio avunculo suo animadvertisset inter ceteros etiam fratrem suum, quod vegetioris ingenii erat, interfectum esse, obtusi se cordis esse simulavit eaque fallacia maximas virtutes suas texit. Profectus Delphos cum Tarquinii filiis, quos rex ad Apollinem Pythium muneribus sacrificiisque honorandum miserat, aurum deo, nomine doni, clam cavato baculo inclusum tulit; nam timebat ne sibi caeleste numen aperta liberalitate venerari tutum non esset. Peractis deinde mandatis patris, Apollinem iuvenes consuluerunt quisnam ex ipsis Romae regnaturus videretur. Atque is penes eum summam urbis potestatem futuram respondit, qui ante omnes matri osculum dedisset. Tum Brutus, perinde atque casu prolapsus, de industria se abiecit terramque, communem omnium matrem existimans, osculatus est. Valerio Massimo, Facta et dicta memorabilia (VII, 3) |
Traduzione
Giunio Bruto, essendosi accorto che, fra gli altri, anche suo fratello, poiché era alquanto intelligente (lett.: di ingegno alquanto vivo), era stato ucciso da suo zio il re Tarquinio, finse di essere sciocco (lett.: di mente ottusa) e con quest’inganno nascose le sue grandissime capacità. Partito per Delfi con i figli di Tarquinio, che il re aveva mandato ad onorare Apollo Pizio con doni e sacrifici, portò di nascosto al dio, a titolo di dono, dell’oro racchiuso in un bastone cavo; infatti temeva che non fosse sicuro per lui venerare la divinità celeste con manifesta generosità. Quindi, eseguito l’incarico (lett., plurale) del padre, i giovani chiesero ad Apollo chi mai fra loro (gli) sembrasse che avrebbe regnato a Roma. Ed egli rispose che il sommo potere sulla (lett.: della) città sarebbe stato nelle mani di (lett.: presso) colui che avesse dato prima di tutti un bacio alla madre. Allora Bruto, scivolato come per caso, si lasciò cadere intenzionalmente e baciò la terra, ritenendo(la) comune madre di tutti.
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mercoledì 29 aprile 2015
Traduzione da Livio (Ab urbe condita, XXXIV, 1)
Una rivolta delle donne
Inter bellorum magnorum aut vixdum finitorum aut imminentium curas intercessit res parva dictu sed quae in magnum certamen excesserit (1). M. Fundanius et L. Valerius tribuni plebis ad plebem tulerunt (2) de Oppia lege abroganda. Tulerat eam C. Oppius tribunus plebis in medio ardore Punici belli, ne qua mulier plus semiunciam auri haberet neu vestimento versicolori uteretur neu iuncto vehiculo (3) in urbe, nisi sacrorum publicorum causa, veheretur. M. et P. Iunii Bruti (4) tribuni plebis legem Oppiam tuebantur nec eam abrogari se passuros aiebant; Capitolium (5) turba hominum faventium adversantiumque legi complebatur. Matronae nulla nec auctoritate nec verecundia nec imperio virorum contineri poterant, omnes vias urbis aditusque in forum obsidebant, viros descendentes ad forum orantes ut, florente re publica, crescente in dies privata omnium fortuna, matronis quoque pristinum ornatum reddi paterentur.
Livio, Ab urbe condita (XXXIV, 1)
1) Congiuntivo caratterizzante (o consecutivo).
2) Il verbo fero (qui, come subito dopo) ha il significato tecnico di “proporre una legge”.
3) Il vehiculum iunctum è un segno di lusso, come gli altri due appena elencati.
4) Sono due tribuni della plebe (imparentati tra di loro, visto che si chiamano tutti e due “Giunio Bruto”, uno Marco e l’altro Publio) che evidentemente, da quel che si dice qui, non sono d’accordo con gli altri due tribuni della plebe citati sopra.
5) Qui evidentemente si teneva l’assemblea nella quale si discuteva della questione.
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Traduzione
Fra le preoccupazioni di grandi guerre o appena terminate o imminenti venne ad inserirsi una questione di poco conto (lett.: piccola a dirsi; dictu è un supino passivo), ma che sfociò in un grande contrasto. I tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio proposero al popolo l’abrogazione della legge Oppia (lett.: proposero una legge riguardo all’abrogare la legge Oppia). L’aveva promulgata il tribuno della plebe Caio Oppio, in mezzo all’ardore (al divampare) della guerra punica, affinché nessuna donna (lett.: affinché alcuna donna non…; qua è un aggettivo indefinito, equivale ad aliqua) possedesse più di mezza oncia d’oro, indossasse vesti variopinte, girasse in città (lett.: fosse trasportata) su un cocchio (lett.: carro aggiogato), se non per pubbliche cerimonie religiose. I tribuni della plebe Marco e Publio Giunio Bruto difendevano la legge Oppia e dicevano che non avrebbero permesso che fosse abrogata; il Campidoglio era affollato da una massa di cittadini favorevoli e contrari (lett.: favorenti e avversanti) alla legge. Le matrone non potevano essere trattenute da nessuna autorità, né dal pudore né dal comando dei mariti, assediavano tutte le vie della città e gli accessi al foro, pregando gli uomini che vi (al foro) si dirigevano di consentire che anche alle matrone fosse restituito l’antico decoro, visto che lo Stato era fiorente e che la fortuna privata (il patrimonio) di tutti cresceva di giorno in giorno (sono due ablativi assoluti, che si rendono bene con valore causale).
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Traduzione da Livio (Ab urbe condita, V, 4-5)
Non si deve interrompere l’assedio contro Veio
I Romani stavano assediando la città
etrusca di Veio da circa un anno, e quindi c’era a Roma chi sosteneva che si
dovesse desistere e ritirarsi. Quello che si riporta qui, è un passo del
discorso con cui Appio Claudio cerca di convincere i suoi concittadini che è
stato giusto intraprendere la guerra e che è bene concluderla vittoriosamente
al più presto, se non si vuole subire il contrattacco dei Veienti.
Aut non suscipi bellum oportuit, aut geri
pro dignitate populi Romani et perfici quam primum oportet. Decem quondam
annos tam procul a domo urbs oppugnata est ob unam mulierem ab universa
Graecia (1); nos autem in conspectu prope urbis nostrae (2) annuam
oppugnationem perferre piget? Fuerit sane levis huius
belli causa, at superiores illas iniurias (3) quis vestrum, Quirites,
oblivisci potest? Septies rebellarunt (4); in pace nunquam fida fuerunt;
Etruriam omnem adversus nos concitare voluerunt hodieque id moliuntur. Cum
his molliter et per dilationes bellum geri oportet? (5) Si reducimus
exercitum, quis dubitet illos, non cupiditate solum ulciscendi sed etiam
necessitate praedandi, cum sua amiserint, agrum nostrum invasuros? Utinam
nunquam illum diem populus noster videat! Ne differamus igitur bellum neve
bellum intra fines nostros ferri sinamus.
Livio, Ab urbe condita, V, 4-5
NOTE
1) Si riferisce
alla guerra che i Greci combatterono contro Troia per dieci anni.
2) Veio distava da
Roma circa venti miglia.
3) Le iniuriae
sono quelle che elenca subito dopo.
4) E’ una forma
"sincopata".
5) E’ una domanda
retorica.
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Traduzione
O sarebbe stato
opportuno (indicativo con valore di condizionale; ma è accettabile anche
l'indicativo italiano, meglio l'imperfetto: era opportuno, bisognava)
non intraprendere la guerra (lett.: che la guerra non fosse intrapresa),
o sarebbe opportuno (come sopra) condurla (lett.: che sia
condotta) secondo la dignità del popolo romano e portarla a termine (lett.:
che sia portata a termine) quanto prima. Un tempo per dieci anni (accusativo
di tempo continuato) tanto lontano dalla patria una città (non
"la" città, che non ha senso) fu assediata dall'intera Grecia a
causa di una sola donna; a noi invece rincresce di portare a termine
l'assedio di un anno quasi (prope) in vista della nostra città (cioè,
talmente vicini a Roma che quasi possiamo vederla)? Ammettiamo pure che
sia stato (fuerit è congiuntivo concessivo) di poco conto il motivo
di questa guerra, ma chi di voi, o Quiriti, può dimenticare quelle precedenti
(antiche) offese (non "ingiurie", che in italiano
significa insulti, offese verbali)? Per sette volte si sono ribellati;
non sono mai stati affidabili in pace (lett.: non sono mai stati in una
pace fidata); hanno voluto sollevare tutta l'Etruria contro di noi, e
oggi ci provano (lett.: tentano, ordiscono ciò). E' opportuno
condurre la guerra contro questi fiaccamente e in maniera inconcludente
(lett.: attraverso dilazioni, rinvii)? Se riportiamo indietro
l'esercito, chi potrebbe dubitare (dubitet è congiuntivo
dubitativo) che quelli invaderanno la nostra terra, non solo per
desiderio di vendicarsi, ma anche per necessità di fare bottino, dato che
hanno perso (cum più congiuntivo, con valore causale) tutti i loro
beni (lett.: le loro cose)? Voglia il cielo che il nostro popolo non
veda mai (videat è congiuntivo desiderativo) quel giorno! Dunque non
dilazioniamo (non rinviamo, non portiamo per le lunghe) la guerra e
non permettiamo (differamus e sinamus sono congiuntivi esortativi)
che la guerra sia portata dentro il nostro territorio.
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Traduzione da Livio (Ab urbe condita, I, 6-7)
Morte di Remo
Romulum
Remumque cupido cepit in iis locis, ubi expositi ubique educati erant, urbis
condendae. Quoniam gemini essent (1) nec aetatis verecundia discrimen facere
posset, ut di, quorum tutelae ea loca essent, auguriis legerent qui (2) nomen
novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus
Aventinum ad inaugurandum templa (3) capiunt. Priori Remo augurium venisse
fertur, sex vultures; iamque nuntiato augurio, cum duplex numerus Romulo se
ostendisset, utrumque regem sua multitudo (4) consalutaverat: tempore illi
praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. Inde cum altercatione
congressi, ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus, Remus cecidit. Vulgatior
fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde (5) ab irato
Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset (6): "Sic deinde (7),
quicumque alius transiliet moenia mea", interfectum.
Livio, Ab urbe condita (I, 6-7)
NOTE
1) E’ un congiuntivo obliquo, come i
successivi posset ed essent (si tratta di ciò che pensano
Romolo e Remo).
2) Il termine a cui si riferisce è un
eum sottinteso.
3) Templum è propriamente lo spazio di cielo ritenuto sacro (e
quindi entro cui si manifestano segni divini).
4) Sua multitudo: si tratta del gruppo dei seguaci di ciascuno dei
due fratelli.
5) La frase che segue è, come la
precedente, un’infinitiva retta da “vulgatior
est fama”, e sottintende lo stesso soggetto della precedente.
6) Nella traduzione bisognerà che sia
chiaro qual è il soggetto di questo verbo.
7) Sottinteso un verbo, del tipo
“finirà”, “sarà ucciso”.
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Traduzione
Romolo e
Remo furono colti dal desiderio (lett. la costruzione è attiva: il desiderio
colse Romolo e Remo) di fondare una città in quei luoghi in cui (lett.: dove)
erano stati abbandonati ed allevati. Poiché erano gemelli e il rispetto
dovuto all’età (lett.: il rispetto dell’età) non poteva fare la differenza,
affinché gli dei, sotto la tutela (lett.: alla tutela) dei quali erano quei
luoghi, scegliessero (legerent) con degli auspici chi dovesse dare
(lett.: chi desse) il nome alla nuova città, chi la dovesse governare (regeret
imperio) una volta fondata, scelgono Romolo il Palatino e Remo l’Aventino
come luoghi sacri (templa è predicativo dell'oggetto) per prendere gli
auspici. Si tramanda che l’auspicio giungesse a Remo per primo, sei avvoltoi;
e poiché, dopo che l’auspicio era già stato annunciato, un numero doppio di
uccelli apparve (lett.: si mostrò) a
Romolo, i rispettivi seguaci (lett.: la propria moltitudine) avevano acclamato
l’uno e l’altro come re: quelli (cioè, i seguaci di Remo) per il tempo
anticipato, ma questi (cioè, i seguaci di Romolo) per il numero di uccelli
rivendicavano il regno. Quindi, dopo essersi scontrati a parole (lett.: con
un litigio), impugnano le armi (lett.: si volgono all’uccisione); allora,
colpito tra la folla, Remo cadde. E’ fama più diffusa che Remo abbia
attraversato con un salto (transiluisse) le nuove mura per scherno del
fratello; quindi fu ucciso (interfectum, sottinteso esse)
dall’irato Romolo, dopo che (quest’ultimo), insultandolo anche a parole, ebbe
aggiunto: “Così in futuro (finirà) chiunque altro attraverserà le mie mura”
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Traduzione da Cornelio Nepote (Hannibal, XII)
Morte di
Annibale
I Romani sono venuti a sapere che il loro grande
nemico, Annibale, è ospitato da Prusia, re di Bitinia. Dunque, si presentano
da quest’ultimo e gli chiedono la consegna di Annibale. Prusia, per quanto di
mala voglia, non può rifiutare (è un piccolo re, mentre Roma è una
superpotenza), quindi indica ai Romani dove si trova il cartaginese.
Hannibal
uno loco se tenebat, in castello quod ei a rege datum erat muneri, idque sic
aedificaverat, ut in omnibus partibus aedificii exitus haberet, scilicet
verens (1) ne eveniret quod accidit. Huc cum legati Romanorum venissent ac
multitudine armatorum domum eius circumdedissent, puer (2) ab ianua
prospiciens Hannibali dixit plures praeter consuetudinem armatos apparere.
Qui (3) imperavit ei ut omnes fores aedificii circumiret ac propere sibi
nuntiaret, num eodem modo undique obsideretur (4). Puer cum celeriter, quid
vidisset (5), renuntiasset omnesque exitus occupatos ostendisset, sensit
Hannibal id non fortuito factum, sed se peti (6) neque sibi diutius vitam
esse retinendam. Quam (7) ne alieno arbitrio dimitteret, memor pristinarum
virtutum, venenum, quod semper secum habere consueverat, sumpsit.
Cornelio
Nepote, Hannibal, XII
NOTE
1)
E’
un verbo che significa “temere”, dunque regge la costruzione tipica dei verba timendi.
2)
Puer = schiavo
3)
Nesso
relativo.
4)
E’
retto da num, che è una particella
interrogativa (dunque, la proposizione è una interrogativa indiretta).
5)
E’
retto da quid, che è un pronome
interrogativo (dunque, la proposizione è una interrogativa indiretta).
6)
Petere = cercare, prendere di mira.
7) Nesso relativo.
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Traduzione
Annibale
risiedeva in un solo (questo è il significato di unus, non il semplice articolo "un") luogo, in un
castello (lett.: luogo fortificato) che gli (ei) era stato dato in dono (muneri;
insieme ad ei forma la costruzione
detta del doppio dativo) dal re, e lo aveva disposto (lett.: costruito) in
modo tale che aveva (ma anche: avesse) uscite in ogni parte dell’edificio,
evidentemente temendo che succedesse quello che (poi) successe. Essendo
giunti qui gli ambasciatori romani ed avendo circondato la sua casa con una
moltitudine di armati, uno schiavo guardando dalla porta, disse ad Annibale
che si vedevano più armati del solito (lett.: apparivano parecchi armati,
oltre la consuetudine). Costui (cioè, Annibale) gli (cioè, allo schiavo)
comandò di ispezionare (o che
ispezionasse, ma non affinché,
perché è una completiva, non una finale) tutte le porte dell’edificio e di
riferirgli immediatamente se era assediato allo stesso modo da ogni parte.
Dopo che (ma anche: poiché) lo schiavo gli ebbe riferito celermente che cosa
aveva visto e gli ebbe spiegato che tutte le uscite erano (state) bloccate,
Annibale capì che questo non succedeva per caso (lett.: non era stato fatto
casualmente), ma che cercavano lui (lett.: lui era cercato) e che la sua vita
era ormai alla fine (lett.: che non doveva conservare più a lungo la vita).
(Allora), per non affidarla all’arbitrio altrui, memore dell’antico valore
(lett. è plurale), bevve il veleno che era solito tenere sempre con sé.
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Livio: la vita e l'opera
Livio, ovvero un repubblicano alla corte
di Augusto
Secondo il Chronicon di Gerolamo (IV sec. d. C.), nacque a Padova nel 59 a. C. e sempre a Padova morì nel 17 d. C.. A Roma godette dell’amicizia di Augusto (anche se in un
libro andato perduto aveva evidentemente esaltato Pompeo - vale a dire,
l’ultimo difensore della libertà repubblicana, e delle prerogative del senato -
se è vero che il principe lo chiamava affettuosamente “pompeianus ”[1]). Da Seneca sappiamo che
scrisse anche dialoghi filosofici. Dal 27[2] fino alla morte si dedicò
alla monumentale opera storica, Ab urbe condita libri (o Annales,
o Historiae
): 142 libri[3], dalla venuta di Enea nel Lazio
alla morte di Druso in Germania nel 9 a. C.
Di tanta
mole, ci restano solo 35 libri[4]: I-X (dalle origini alla terza guerra sannitica, e precisamente
al 293 a. C.); XXI-XLV (dagli
inizi della seconda guerra punica, nel 219 a. C., alla vittoria di Paolo Emilio
nella terza guerra macedonica, nel 167 a. C.). Pochi i frammenti delle
parti perdute, i cui argomenti però conosciamo grazie alle perìochae, ovvero a dei
sommari (epitomi, riassunti) composti da un ignoto professore del IV sec. d. C.
ad uso della scuola.
Lo schema è
quello tradizionale della storiografia annalistica (si narra la storia
anno per anno, cominciando con il nome dei consoli e dei pretori). Livio non
conduce ricerche d’archivio, né propone una discussione delle fonti: per lui la
storia non è una disciplina scientifica (come la intendiamo noi moderni), ma opus
oratorium, in cui si fa uso degli artifici retorici e ci si propone un
insegnamento morale (nella fattispecie, si insegna che la grandezza di Roma è
stata raggiunta grazie alla virtus
del suo popolo[5]; quella virtus, fondata sul mos
maiorum, che ora si rischia di perdere a causa della cupidigia trionfante).
Le fonti
sono gli antichi annalisti (Fabio Pittore e Cincio Alimento; o i più tardi
Valerio Anziate e Claudio Quadrigario) per la prima decade; Celio
Antipatro[6] e Polibio per la terza
decade, Polibio per il resto
(ovvero per le guerre d’oriente).
Il confronto
con Polibio (unica fonte per noi disponibile) è illuminante: laddove il greco
era attento alla valutazione delle cause politiche e sociali, distaccato dagli
avvenimenti, obiettivo, Livio seleziona i fatti, e li amplifica, alla luce
della sua concezione patriottica e
provvidenziale della storia[7]. Tale concezione ha per
protagonista il popolo romano, quasi popolo eletto, nella prima decade, e poi,
via via, prendono corpo i grandi personaggi, quali Scipione l’Africano, nei
quali si incarna la virtus romana.
Racconta le
imprese, ma anche i sogni e i prodigi: non perché (così lo spiega in
XLIII, 13, 1-2) non sappia, nella smaliziata e scettica età in cui vive, che
queste cose sono poco credibili (Non sum
nescius ab eadem neglegentia, qua nihil deos portendere vulgo nunc credant,
neque nuntiari admodum ulla prodigia in publicum neque in annales referri),
ma perché - dice lui stesso - narrando la storia antica, si immerge in
quell’atmosfera e ritiene doveroso riferire quei prodigi e quegli eventi
soprannaturali in cui credettero gli uomini di allora (Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, et quaedam religio
tenet, quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint, ea pro
indignis habere quae in meos annales referam”; e dunque quei sogni e
prodigi vanno riportati perché, in quanto agirono sui protagonisti, agirono
sulla storia[8].
La
concezione provvidenziale lo accomuna a Virgilio (le parole che Romolo,
dopo la sua morte, rivolge a Giunio Proculo, ricordano quelle di Anchise ad
Enea[9]), ma di questi non condivide la celebrazione
della pax Augusti e del principato
come acme della fortuna di Roma (anche se, ovviamente l’opera di Augusto è
apprezzata, sia perché ha posto fine alle guerre civili, sia perché si propone
di restaurare gli antichi valori).
[1]Ce lo dice Tacito: Pompeium tantis laudibus tulit ut pompeianum eum Augustus appellaret (Annales,
IV, 34, 3).
[2]Lo si capisce da un passo della sua opera (I, 19, 3),
dove si accenna ad Ottaviano con il nome di Augusto (accordatogli dal senato
nel 27).
[3]Probabilmente venivano pubblicati a gruppi di dieci
(decadi) o di cinque (pentadi): lo si arguisce dal fatto che ci sono delle
prefazioni, all’inizio del VI libro, del XXI e del XXXI.
[4]Si deve pensare che fosse difficile contenere un’opera
così grande nelle biblioteche (ce lo attesta Marziale: Livius ingens, quem mea non totum bibliotheca capit, 14, 190-191) e
troppo impegnativo ricopiarla.
[5]E dunque, in nome di tale grandezza, è legittimo
riportare, le origini leggendarie e divine che il popolo romano si attribuisce
(senza accettarle né respingerle, come si dice nel proemio).
[6]Alla fine del II sec. a. C. aveva scritto una
monografia sulla seconda guerra punica (di cui ci restano pochi frammenti).
[7]Si può vedere, come esempio, l’episodio della
conquista di Cartagéna, in Spagna, da parte di Scipione, il futuro Africano,
nel 209: Livio è evidentemente attento ad allontanare dal suo eroe l’accusa di
crudeltà (XXVI, 46, 7-10).
[8]Memorabile il racconto della sconfitta del Trasimeno:
Flaminio viene sconfitto non per errori tecnici nella conduzione della
battaglia (come è per Polibio), ma per empietà verso gli dei, per aver
trascurato i riti; e dopo di ciò Fabio Massimo richiamerà il senato alla pietas (XXII, 9, 7-8).
[9]“Abi, nuntia
Romanis caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem
militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis
Romanis resistere posse” (I, 16, 7).
martedì 28 aprile 2015
Traduzione da Livio (Ab urbe condita, V, 46)
Un
episodio singolare durante l’occupazione dei Galli
I Galli avevano occupato Roma (390 a. C.) e i Romani
resistevano assediati sul Campidoglio, quando si verificò l’episodio che qui
si narra
Romae plerumque
obsidio segnis et utrimque silentium erat, ad id tantum intentis Gallis ne
quis hostium evadere inter stationes posset, cum repente iuvenis Romanus
admiratione in se cives hostesque convertit. Sacrificium erat statum in
Quirinali colle genti Fabiae (1). Ad id faciendum C. Fabius Dorso (2), sacra
manibus gerens, cum de Capitolio descendisset, per medias hostium stationes
egressus, in Quirinalem collem pervenit; ibique omnibus sollemniter peractis,
eadem revertit via similiter constanti vultu graduque, satis sperans
propitios esse deos, quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus
deseruisset (3); denique in Capitolium ad suos rediit, seu attonitis Gallis
miraculo audaciae seu religione etiam motis, cuius haudquaquam neglegens gens
est.
Livio, Ab urbe condita (V, 46)
NOTE
1) Genti
Fabiae è dativo d'agente. La cerimonia religiosa, di cui si parla, era
stata istituita dal pontefice Fabio.
2) Dorso,
Dorsonis = Dorsone, nome di persona.
3) E' un congiuntivo obliquo.
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Traduzione
A Roma
l'assedio era per lo più fiacco e c'era silenzio da entrambe le parti,
essendo i Galli attenti (ablativo assoluto) soltanto a ciò, (cioè)
che (la proposizione che segue è una completiva, che spiega quell' id che
precede) nessuno dei nemici potesse fuggire (passando) fra le
postazioni di guardia, quando improvvisamente un giovane romano attirò su di
sè (l'attenzione di) concittadini e nemici per l'ammirazione (o anche,
per la meraviglia). Un sacrificio era stato istituito sul colle
Quirinale dalla gente Fabia. Per compierlo (il sacrificio), C. Fabio Dorsone,
portando in mano le cose sacre (cioè, paramenti, strumenti per compiere
il sacrificio), essendo sceso dal Campidoglio, dopo essere passato in
mezzo alle postazioni dei nemici, giunse sul colle Quirinale; e dopo avere lì
compiuto ogni cosa (rito) solennemente, tornò per la stessa strada con passo
e volto sempre uguali (lett.: ugualmente costanti, cioè, con volto
impassibile e senza accelerare o rallentare il passo), sperando con
qualche ragione (lett.: sufficientemente) che (gli) fossero propizi
gli dei, il culto dei quali non aveva abbandonato neppure trattenuto dalla
paura della morte; infine tornò dai suoi sul Campidoglio, sia che i Galli
fossero attoniti per il miracolo di audacia, sia anche che fossero commossi
(colpiti) dallo spirito religioso (lett., ablativo assoluto: sia essendo
i Galli attoniti..., sia essendo commossi...), a cui quel popolo è
particolarmente sensibile (lett.: nei confronti del quale è gente
nient'affatto indifferente).
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Traduzione da Livio (Ab urbe condita, I, 57)
L’onestà
di Lucrezia e la bassezza di Sesto Tarquinio
Forte potantibus his (1) apud Sex.
Tarquinium, ubi et Collatinus Tarquinius (2) cenabat, incidit de uxoribus
mentio. Suam quisque laudare (3) miris modis; inde, certamine accenso, Collatinus
negat verbis opus esse; paucis id quidem horis posse sciri (4) quantum
ceteris praestet Lucretia sua. "Quin
(5), si vigor iuventae inest, conscendimus equos invisimusque praesentes
nostrarum ingenia?" Incaluerant vino; citatis equis avolant Romam. Quo
cum pervenissent, pergunt Collatiam (6), ubi Lucretiam haudquaquam ut regis
nurus, quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed
nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas sedentem inveniunt. Muliebris
certaminis laus penes (7) Lucretiam fuit. Adveniens vir Tarquiniique excepti
(8) benigne; victor maritus comiter invitat regios iuvenes. Ibi Sex. Tarquinium mala libido Lucretiae per vim
stuprandae capit: cum forma tum spectata castitas incitat.
Livio, Ab
urbe condita (I, 57)
NOTE
1)
Sono i giovani nobili romani all’assedio di Ardea, durante la guerra mossa
dal re Tarquinio il Superbo (padre di Sesto Tarquinio).
2)
Si tratta di Tarquinio Collatino, che sarà poi, proprio a seguito della
vicenda qui raccontata, il promotore della rivolta popolare che porterà alla
cacciata del re e all’inizio della repubblica.
3)
Laudare è un infinito storico.
4)
L’infinitiva è retta da un verbo sottinteso, del tipo "dicit".
5)
Quin = perché non…?
6)
E’ la città d’origine di Tarquinio, detto appunto "Collatino".
7)
Penes = apud.
8)
Sottinteso "sunt".
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Traduzione
Trovandosi
questi a bere (potantibus his,
ablativo assoluto = bevendo questi) presso Sesto Tarquinio, dove cenava anche
(et = etiam) Tarquinio Collatino, il discorso cadde per caso (forte
= per caso) sulle mogli. Ciascuno lodava (non "lodò":
l'infinito storico o descrittivo corrisponde in italiano ad un imperfetto,
non ad un passato remoto) la propria in modo straordinario (lett.:
plurale); quindi, infiammatasi la contesa, Collatino dice che non c’è bisogno
di parole; in poche ore si può sapere questo, (cioè) di quanto la sua
Lucrezia superi le altre. "Se è vero che siamo giovani e forti (lett.: se
c’è vigore nella giovinezza), perché non montiamo a cavallo e andiamo a
verificare di persona i comportamenti delle nostre (mogli)?" Si erano
scaldati per il vino; spronati i cavalli, volano a Roma. Una volta giunti là,
si dirigono a Collazia, dove trovano Lucrezia niente affatto come le nuore
del re, che avevano visto passare il tempo nel banchetto e nel lusso con le
loro amiche (lett.: le loro "pari", o "coetanee"; ma
va bene anche il maschile), ma a tarda notte dedita a lavorare la lana
(lett.: alla lana), seduta (lett.: sedente, che sedeva) fra le
ancelle che vegliavano. La vittoria (lett.: la lode) della gara delle
mogli (lett.: femminile) fu di Lucrezia. Il marito che giungeva e i
Tarquini furono accolti benevolmente; il marito vincitore invita gentilmente
i giovani reali (non "re"; sono i Tarquini, figli e i nipoti del
re). Allora una malsana bramosia di stuprare Lucrezia con la forza invade
Sesto Tarquinio: lo eccitano sia la bellezza sia (cum… tum = sia…
sia) la provata castità.
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