Ovidio
Nacque a Sulmona,
nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre. Trasferitosi a Roma – e dopo
viaggi di studio in Grecia e Asia minore – rinunciò alla carriera politica per
dedicarsi alla poesia (29). Entrato nel circolo di Messalla,
ottenne subito successo con la sua prima raccolta di elegie (Amores).
Seguirono le Heroides, quindi l’Ars amatoria,
accompagnata dai Remedia amoris e dai Medicamina faciēi
feminĕae. Fra l’1 e l’8 d.C. si dedica alla poesia eziologica (i Fasti)
e al poema mitologico (le Metamorfosi). Nell’8 d.C. c’è la condanna
all’esilio (30) a Tomi (31), sul mar Nero (o Pontus Euxinum). Non del
tutto chiare le ragioni di tale punizione, cui lo stesso Ovidio allude nei Tristia
parlando di duo crimina, carmen et error: quanto al carmen
si può presumere che la sua poesia eccessivamente licenziosa fosse sgradita al
regime, che intendeva restaurare i buoni costumi della tradizione (e invece l’Ars
amatoria in particolare sembrava istigare all’adulterio); ma forse più
colpevole era l’error, e cioè il possibile coinvolgimento in uno
scandalo di corte con protagonista Giulia, la nipote, piuttosto dissoluta,
dell’imperatore (32). La pena non gli fu condonata né da Augusto, né dal
suo successore Tiberio, malgrado le implorazioni ricorrenti nelle elegie
composte a Tomi (cioè, nei Tristia e nelle Epistulae ex
Ponto). Rimase a Tomi fino alla morte, nel 18 d.C.
Negli Amores
(tre libri, 50 componimenti dedicati a una donna chiamata Corinna)
ritornano i temi tipici dell’elegia amorosa: la militia amoris, il
lamento per l’infedeltà della donna, la gelosia, la soggezione alla domina,
i riferimenti mitologici. Ma in lui si avverte la mancanza di una
partecipazione passionale, la vicenda amorosa sembra un gioco divertente,
l’elegia un brillante esercizio letterario teso alla ricerca di effetti
sorprendenti, quando non paradossali. Qualche esempio: in II, 4 passa in
rassegna una serie di tipi di donne e confessa di essere attratto da tutte; in
II, 19 se la prende con il custos della puella (da intendersi
come il marito o l’amante ufficiale, solitamente detestato dal poeta elegiaco)
perché non custodisce bene la donna – e dunque a sottrargliela c’è poco gusto;
di un cinismo spudorato la II, 8 e la II, 9: nella prima giura solennemente a
Corinna di non averla tradita con la schiava Cypassis, nella seconda si rivolge
alla stessa Cypassis che vorrebbe interrompere la relazione, e la ricatta
minacciando di dire tutto alla padrona.
Una variante del
genere elegiaco (33) sono le Heroides, un’opera costituita
da 21 lettere divise in due gruppi: 15 sono scritte da eroine mitiche ai
rispettivi mariti o amanti (34), 6 sono scambi epistolari fra tre coppie mitiche (35). Si tratta in genere di componimenti in cui le donne,
rivendicando la propria fedeltà e ricordando il passato felice, lamentano o la
lontananza o il tradimento del proprio marito o amante.
Un poemetto in
distici che si sviluppa in tre libri è l’Ars amatoria, con
cui il poeta, atteggiandosi a praeceptor amoris, intende
insegnare ad uomini (nei primi due libri) e a donne (nel terzo libro) le
tecniche della seduzione amorosa. Per l’uomo si tratta di una specie di caccia
(espressioni come venari, tendere retia, laqueos ponere sono frequenti):
la donna è una preda che va cercata nei teatri, nei templi, nei
conviti, e va “catturata” facendo ricorso a diversi espedienti (ad esempio,
ingraziandosi il marito, cercando la complicità di ancelle compiacenti, ecc.);
corteggiandola e lusingandola con tenacia si vincerà la sua resistenza, perché la
libido della donna è senza limiti ed in realtà essa vuole ciò che finge di
rifiutare. Viceversa alle donne che vogliono piacere agli uomini si danno
consigli sulla cura della persona (acconciatura, vestiti, trucco) e sul
comportamento: la donna deve essere allegra e disponibile, deve saper danzare e
cantare, soprattutto deve farsi desiderare, fingendo resistenza alle
profferte dell’uomo. L’amore diventa così un frivolo gioco mondano, fatto
di galanterie e abili schermaglie, il cui obiettivo è il piacere sessuale
(spes Veneris) a prescindere da ogni sincera passione. Si capisce dunque
come tale opera potesse non piacere al regime, che voleva restaurare i buoni
costumi della tradizione: Ovidio – pur proponendo un enfatico elogio del
principe nel primo libro – contrappone esplicitamente la rusticitas
degli avi al cultus, cioè alla raffinata eleganza, dello stile di
vita moderno che lui dichiara di prediligere (36).
Di poco
successivo è il poemetto, sempre in distici, Remedia amoris, con
cui il praeceptor diventa il medicus che
prescrive i rimedi necessari per guarire dalla “malattia”, e quindi dalle
sofferenze, d’amore. La mano che ha inferto la ferita è ora quella che dona
la cura (37). Dunque bisognerà fare il contrario di quello che si è
insegnato precedentemente: non frequentare i suddetti luoghi d’incontro,
preferire la campagna alla città, dedicarsi allo sport, ai viaggi; più
specificamente, concentrarsi sui difetti della puella di cui si è
innamorati (da notare che i consigli sono rivolti solo agli uomini,
e dunque il poemetto si collega ai primi due libri dell’Ars amatoria).
Del contemporaneo
Medicamina faciēi feminĕae (“I cosmetici femminili”) ci restano
un centinaio di versi contenenti consigli e ricette per creme di bellezza.
Con i Fasti
(dovevano essere 12 libri, uno per ogni mese dell’anno, ma ci restano solo i
primi 6, da gennaio a giugno: presumibilmente l’opera si interruppe a
seguito dell’esilio) Ovidio si dedica alla poesia eziologica, che
aveva come grande modello gli Aitia di Callimaco e come riferimento
romano il IV libro delle elegie di Properzio. L’intento è quello di
spiegare l’origine – mescolando storia e leggende, narrando aneddoti e vicende
dell’antichità – delle festività (appunto, i dies fasti), delle
celebrazioni religiose, dei loro nomi. Si tratta dunque di una poesia
erudita, secondo il gusto alessandrino, per la quale il poeta
utilizza svariate fonti - sia l’opera storica di Livio, sia l’imponente
opera antiquaria di Varrone Reatino (38).
Con le due
raccolte di poesie scritte in esilio (5 libri di Tristia e 4 di Epistulae
ex Ponto), Ovidio adotta l’elegia nel senso originario di “poesia
del lamento”: esprime infatti il suo dolore per la sventura capitatagli, la
nostalgia per la patria lontana e per le persone care, implora il perdono
dell’imperatore - prima di Augusto, poi di Tiberio, ma senza risultato (39).
Al periodo
dell’esilio appartiene anche un poemetto in distici elegiaci, Ibis (40), ad imitazione
di un omonimo componimento di Callimaco. Si tratta di un lunga invettiva,
sostenuta da eruditi riferimenti mitologici, contro un avversario di cui viene
taciuto il nome. Di attribuzione incerta è invece un frammento di 130 esametri,
intitolato Halieutica, sui pesci e sull’arte della pesca.
Ma il capolavoro
di Ovidio è senz’altro le Metamorfosi, un poema in 15
libri, in esametri, con cui il poeta si propone – come dice nel proemio –
di abbandonare l’elegia per comporre “un canto continuo (carmen perpetuum),
dalla prima origine del mondo sino ai tempi miei” (41). E’ un poema epico
(lo dice anche l’espressione carmen continuum, usata già da Callimaco
per indicare componimenti di ampia estensione), ma di genere non eroico (sull’esempio di
Virgilio o dei poemi omerici), bensì mitologico, secondo il
modello della Teogonia di Esiodo (42). Non è, come vorrebbe il canone epico, un’opera con
un protagonista e con una vicenda unitaria che si svolge entro tempi limitati,
ma è una narrazione che inizia dal Caos primitivo (così è anche in Esiodo),
si sviluppa attraverso una serie di generazioni mitiche e giunge fino all’età
contemporanea (all’apoteosi di Cesare e alla celebrazione di Augusto). Su
questo impianto, cronologicamente piuttosto generico, si innesta la successione
dei miti di trasformazione (più di 250), connessi l’uno all’altro
con “cerniere” che spesso si rivelano abili, ma artificiosi e forzati
espedienti (43). A volte la
tecnica è quella del “racconto a cornice”, che consiste nell’ inserire un
racconto nel racconto, per cui i personaggi di storie narrate dal poeta
diventano a loro volta narratori di altre storie (44). Con il libro XII
si giunge all’età della guerra di Troia, seguono il viaggio di Enea e le
leggende relative alle origini di Roma. Nell’ultimo libro ben 400 versi sono
dedicati al discorso che Pitagora rivolge al re Numa Pompilio: non solo gli
predice l’avvento di Cesare e la sua divinizzazione (si trasformerà in una
cometa), ma anche gli espone la teoria della metempsicosi e teorizza la metamorfosi
come principio universale, secondo cui ogni forma di vita muta
continuamente in una forma nuova (45). Dunque la
metamorfosi è il fondamentale principio unificatore del poema, principio
esplicato nei miti narrati, ma anche verità filosofica, riconosciuta nella vita
dell’universo.
Nei versi finali
il poeta celebra Augusto, signore della terra (46), e gli augura lunga
vita; per se stesso e per il proprio poema prevede orgogliosamente – in modi
che ricordano quelli di Orazio nell’ode III, 30 – l’immortalità (47).
E’ un’opera grandiosa,
per la concezione e per la ricchezza di personaggi e di storie stupefacenti.
Alla straordinaria inventiva si associa un’abilità quasi virtuosistica nel
descrivere le metamorfosi, tanto negli aspetti spettacolari quanto nei connessi
risvolti psicologici: il mutamento – che è quasi sempre passaggio dalla
condizione umana a quella animale o vegetale – è rappresentato soprattutto nel
momento in cui il protagonista sperimenta la perdita della facoltà di movimento
e/o di comunicazione. Altrettanto notevole è l’abilità linguistica,
che si manifesta in vari modi nella descrizione di quelle vicende paradossali:
si va dalla frase fulminea e precisa (48) al raffinato gioco
di parole (49).
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29) Sono tutte informazioni che ci dà lui
stesso nei Tristia. A questo proposito ci dice, ad esempio, che il padre
gli rimproverava la passione per la poesia, ma lui era talmente predisposto che
tutto ciò che scriveva, anche in prosa, assumeva il ritmo dei versi.
30) Meglio sarebbe dire “soggiorno
obbligato”, perché conservò sia i beni che la cittadinanza.
31) Oggi Costanza, in Romania.
32) Che si tratti di questo ce lo
suggerisce il fatto che nello stesso anno Giulia Minore (figlia di Giulia, a
sua volta figlia di Augusto) venne relegata nelle isole Tremiti.
33) Un precedente si può ritrovare in
Properzio, IV, 3 (la lettera di Aretusa a Licota).
34) Ad esempio, Penelope ad Ulisse, Didone
ad Enea, Medea a Giàsone, ecc.
35) Paride ed Elena, Leandro ed Ero (lui,
che abitava nella sponda asiatica dell’Ellesponto, si era innamorato di lei,
sacerdotessa di Afrodite, che viveva sulla sponda europea; per stare con lei,
Leandro attraversava a nuoto lo stretto ogni notte, guidato da una
fiaccola che lei teneva accesa in cima a una torre; ma una notte il vento
spense la fiaccola e lui morì andando a sbattere contro gli scogli; lei
disperata si gettò dall’alto della torre), Aconzio e Cidippe (lui, pellegrino a
Delo, presso il tempio di Artemide, si era innamorato di lei; per averla,
ricorre a un’astuzia: incide sulla buccia di una mela le parole “Giuro su
Artemide di sposare Aconzio”; lei legge ad alta voce e a questo punto è
vincolata dal giuramento; non le sarà possibile sposare altri che lui).
36) “ Simplicitas rudis ante fuit: nunc aurea Roma est, / et domiti magnas
possidet orbis opes. /…. Prisca iuvent alios: ego me nunc denique natum /
Gratulor: haec aetas moribus apta meis.” (III, 113-14,
121-22). “C’è stata un tempo la rozza semplicità; ora c’è una Roma d’oro, che
possiede le grandi ricchezze del mondo soggiogato…. Piacciano ad altri i tempi
antichi; io sono contento di essere nato adesso; questa età si addice ai miei
gusti.”
37) “Discite
sanari, per quem didicistis amare: / Una manus vobis vulnus opemque feret” ( (vv.43-44). “Imparate a
guarire, da colui dal quale imparaste ad amare: una stessa mano vi darà la
ferita e la salvezza”
38) Grande erudito, vissuto fra il
116 e il 27 a.C., aveva composto, tra l’altro, 25 libri di Antiquitates
rerum humanarum e 16 di Antiquitates rerum divinarum (opere andate
perdute).
39) Il II libro dei Tristia è un’unica grande implorazione rivolta ad
Augusto. Quanto a Tiberio, Ovidio se ne vuole accattivare la benevolenza
elogiando Germanico (Ep. ex Ponto, IV, 8) nipote dell’imperatore ed
erede predestinato. Del resto a Germanico sono anche dedicati i Fasti (è
da presumere che in esilio questa nuova dedica abbia sostituito quella
originaria ad Augusto, ormai morto).
40) E’ il nome di un uccello egiziano, noto per l’abitudine di cibarsi di
escrementi.
41) “ In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora; di, coeptis
(nam vos mutastis et illas) / adspirate meis primaque ab origine mundi / ad mea
perpetuum deducite tempora carmen!” “L’animo mi spinge a narrare le
trasformazioni in nuovi corpi; o dèi (infatti voi avete compiuto anche quei
mutamenti), ispirate la mia impresa e ordite un carme ininterrotto dall’origine
del mondo sino ai miei tempi”.
42) Vissuto fra l’VIII e il VII sec. a.C., nella Teogonia (un poema
in esametri) Esiodo aveva narrato le vicende mitologiche dal Caos primordiale
fino allo stabilirsi del regno di Zeus.
43) Ad esempio, nel libro VI, il legame fra la storia di Niobe (aveva offeso
Latona, i cui figli, Artemide e Apollo, la vendicarono sterminando i figli di
Niobe; costei, per il dolore, divenne un blocco di pietra che continua a
lacrimare) e quella di Aracne (aveva sfidato Atena nell’arte del filare;
sconfitta, era stata trasformata in ragno) è dato dal fatto che la prima aveva
conosciuto la seconda, ma dal suo esempio non aveva imparato. O anche, nel
libro III, quando si narra di Cadmo, di suo nipote Atteone e di sua figlia
Sémele (madre di Bacco), si inseriscono le vicende estranee di Tiresia
(il pretesto è che sia contemporaneo all’infanzia di Bacco), di Narciso ed Eco
(come esempio delle capacità divinatorie di Tiresia).
44) Ad esempio, nel libro X è Orfeo che narra una serie di miti metamorfici;
o anche, nel libro IV le Minieidi (figlie di Minia), destinate a trasformarsi
in pipistrelli, raccontano le storie d’amore e di trasformazione di Piramo e
Tisbe, di Ermafrodito e Salmacide.
45) “nihil est toto, quod perstet, in orbe. / cuncta fluunt, omnisque
vagans formatur imago; / ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu, / non secus
ac flumen” (XV, 177-180). “Non c’è niente che persista in tutto il mondo.
Tutto scorre, e incerta si forma ogni immagine; il tempo stesso scivola via con
moto continuo, non diversamente da un fiume”.
46) “Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, /
terra sub Augusto est” (XV, 858-60) “Giove governa le rocche del cielo e i
regni del mondo triforme, la terra soggiace ad Augusto”.
47) “Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis / nec poterit ferrum
nec edax abolere vetustas. / Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
/ ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi: / parte tamen meliore mei super
alta perennis / astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum, / quaque
patet domitis Romana potentia terris, / ore legar populi, perque omnia saecula
fama, / siquid habent veri vatum praesagia, vivam.” (XV, 870-79) “Ormai ho
compiuto l’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il
ferro, né il tempo che corrode. Venga quando vorrà quel giorno che ha
giurisdizione solo sul mio corpo e ponga fine al tempo incerto della mia vita:
salirò tuttavia per sempre con la parte migliore di me alle stelle e il mio
nome sarà indistruttibile; e fin dove si estende la potenza romana sulle terre
assoggettate, reciteranno i miei versi le labbra del popolo ed io, grazie alla
fama, se hanno qualcosa di vero le profezie dei poeti, vivrò per tutti i
secoli.”
48) Così, in I 721, è descritta la morte di Argo, dotato di cento occhi: “centumque
oculos nox occupat una”, “un’unica notte invade i cento occhi”.
49) Così, in III 425-26, si descrive Narciso che s’innamora di se stesso: “Se
cupit imprudens et, qui probat, ipse probatur, / dumque petit petitur,
pariterque accendit et ardet”, “Senza saperlo, desidera se stesso; quello
stesso che apprezza è apprezzato, mentre cerca è cercato, nello stesso tempo
accende e brucia.”