venerdì 27 novembre 2015

Tasso: Tancredi e Clorinda nella Liberata

Tancredi e Clorinda
 
Canto I, 45-48
 
Dopo che, su ispirazione dell’arcangelo Gabriele, Goffredo ha riunito i principi cristiani per portare a termine la guerra, il poeta ci indica i più valorosi cavalieri dell’esercito cristiano: fra questi è Tancredi
      
        45         Vien poi Tancredi, e non è alcun fra tanti
               (tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
               o più bel di maniere e di sembianti,
               o più eccelso ed intrepido di core.
               S'alcun'ombra di colpa i suoi gran vanti
               rende men chiari, è sol follia d'amore:
               nato fra l'arme, amor di breve vista,
               che si nutre d'affanni, e forza acquista.
        46         È fama che quel dì che glorioso
               fe' la rotta de' Persi il popol franco,
               poi che Tancredi al fin vittorioso
               i fuggitivi di seguir fu stanco,
               cercò di refrigerio e di riposo
               a l'arse labbia, al travagliato fianco,
               e trasse ove invitollo al rezzo estivo
               cinto di verdi seggi un fonte vivo.
        47         Quivi a lui d'improviso una donzella
               tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
               era pagana, e là venuta anch'ella
               per l'istessa cagion di ristorarse.
               Egli mirolla, ed ammirò la bella
               sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
               Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
               già grande vola, e già trionfa armato.
        48         Ella d'elmo coprissi, e se non era
               ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.
               Partì dal vinto suo la donna altera,
               ch'è per necessità sol fuggitiva;
               ma l'imagine sua bella e guerriera
               tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
               e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
               in che la vide, esca continua al foco.
 
Canto II, 37-40
 
Olindo e Sofronia sono stati messi al rogo, quando giunge Clorinda che si commuove e convince Aladino a liberare i due
      
        37         Qui il vulgo de' pagani il pianto estolle:
               piange il fedel, ma in voci assai più basse.
               Un non so che d'inusitato e molle
               par che nel duro petto al re trapasse.
               Ei presentillo, e si sdegnò; né volle
               piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse.
               Tu sola il duol comun non accompagni,
               Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni.
        38         Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
               (ché tal parea) d'alta sembianza e degna;
               e mostra, d'arme e d'abito straniero,
               che di lontan peregrinando vegna.
               La tigre, che su l'elmo ha per cimiero,
               tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna,
               insegna usata da Clorinda in guerra;
               onde la credon lei, né 'l creder erra.
        39         Costei gl'ingegni feminili e gli usi
               tutti sprezzò sin da l'età più acerba:
               a i lavori d'Aracne, a l'ago, a i fusi
               inchinar non degnò la man superba.
               Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi,
               ché ne' campi onestate anco si serba;
               armò d'orgoglio il volto, e si compiacque
               rigido farlo, e pur rigido piacque.
        40         Tenera ancor con pargoletta destra
               strinse e lentò d'un corridore il morso;
               trattò l'asta e la spada, ed in palestra
               indurò i membri ed allenogli al corso.
               Poscia o per via montana o per silvestra
               l'orme seguì di fer leone e d'orso;
               seguì le guerre, e 'n esse e fra le selve
               fèra a gli uomini parve, uomo a le belve.
 
Canto III, 21-31
 
Clorinda e Tancredi si scontrano sotto le mura di Gersualemme
 
      21           Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
               va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
               Ferìrsi a le visiere, e i tronchi in alto
               volaro e parte nuda ella ne resta;
               ché, rotti i lacci a l'elmo suo, d'un salto
               (mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
               e le chiome dorate al vento sparse,
               giovane donna in mezzo 'l campo apparse.
        22         Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
               dolci ne l'ira; or che sarian nel riso?
               Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
               non riconosci tu l'altero viso?
               Quest'è pur quel bel volto onde tutt'ardi;
               tuo core il dica, ov'è il suo essempio inciso.
               Questa è colei che rinfrescar la fronte
               vedesti già nel solitario fonte.
        23         Ei ch'al cimiero ed al dipinto scudo
               non badò prima, or lei veggendo impètra;
               ella quanto può meglio il capo ignudo
               si ricopre, e l'assale; ed ei s'arretra.
               Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
               ma però da lei pace non impetra,
               che minacciosa il segue, e: - Volgi - grida;
               e di due morti in un punto lo sfida.
        24         Percosso, il cavalier non ripercote,
               né sì dal ferro a riguardarsi attende,
               come a guardar i begli occhi e le gote
               ond'Amor l'arco inevitabil tende.
               Fra sé dicea: «Van le percosse vote
               talor, che la sua destra armata stende;
               ma colpo mai del bello ignudo volto
               non cade in fallo, e sempre il cor m'è colto.»
        25         Risolve al fin, benché pietà non spere,
               di non morir tacendo occulto amante.
               Vuol ch'ella sappia ch'un prigion suo fère
               già inerme, e supplichevole e tremante;
               onde le dice: - O tu, che mostri avere
               per nemico me sol fra turbe tante,
               usciam di questa mischia, ed in disparte
               i' potrò teco, e tu meco provarte.
        26         Così me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia
               il mio valore. - Ella accettò l'invito:
               e come esser senz'elmo a lei non caglia,
               gìa baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
               Recata s'era in atto di battaglia
               già la guerriera, e già l'avea ferito,
               quand'egli: - Or ferma, - disse - e siano fatti
               anzi la pugna de la pugna i patti. -
        27         Fermossi, e lui di pauroso audace
               rendé in quel punto il disperato amore.
               - I patti sian, - dicea - poi che tu pace
               meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
               Il mio cor, non più mio, s'a te dispiace
               ch'egli più viva, volontario more:
               è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
               omai tu debbia, e non debb'io vietarlo.
        28         Ecco io chino le braccia, e t'appresento
               senza difesa il petto: or ché no 'l fiedi?
               vuoi ch'agevoli l'opra? i' son contento
               trarmi l'usbergo or or, se nudo il chiedi. -
               Distinguea forse in più duro lamento
               i suoi dolori il misero Tancredi,
               ma calca l'impedisce intempestiva
               de' pagani e de' suoi che soprarriva.
        29         Cedean cacciati da lo stuol cristiano
               i Palestini, o sia temenza od arte.
               Un de' persecutori, uomo inumano,
               videle sventolar le chiome sparte,
               e da tergo in passando alzò la mano
               per ferir lei ne la sua ignuda parte;
               ma Tancredi gridò, che se n'accorse,
               e con la spada a quel gran colpo occorse.
        30         Pur non tutto in vano, e ne' confini
               del bianco collo il bel capo ferille.
               Fu levissima piaga, e i biondi crini
               rosseggiaron così d'alquante stille,
               come rosseggia l'or che di rubini
               per man d'illustre artefice sfaville.
               Ma il prence infuriato allor si strinse
               adosso a quel villano, e 'l ferro spinse.
        31         Quel si dilegua, e questi acceso d'ira
               il segue, e van come per l'aria strale.
               Ella riman sospesa, ed ambo mira
               lontani molto, né seguir le cale,
               ma co' suoi fuggitivi si ritira:
               talor mostra la fronte e i Franchi assale;
               or si volge or rivolge, or fugge or fuga,
               né si può dir la sua caccia né fuga.
       
Canto XII, 50-71
 
Clorinda e Argante, usciti da Gerusalemme, hanno incendiato la torre di legno con cui i cristiani intendono assaltare la città. Dopo l’impresa Argante riesce a riparare dentro le mura, Clorinda invece, trattenuta in uno scontro con un guerriero cristiano, trova chiuse le porte.
 
     Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.
     Poi, come lupo tacito s’imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ’n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
     Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: "O tu, che porte,
che corri ?" Risponde: "E guerra e morte."
     "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto
darlati, se la cerchi", e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.
     Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.
     Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
     L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
     Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
     L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
     Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:
     "Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore."
     Risponde la feroce: "Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese."
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese
"il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta."
     Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
     Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.
     Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
     Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di , di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
     "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma ; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave."
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
     Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
     Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S’apre il cielo; io vado in pace."
     D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
     Come l’alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.
Già simile a l’estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
     E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l’ale;
ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d’acqua o d’altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta.
 

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