venerdì 13 novembre 2015

Seneca: il cattivo e il buon uso del tempo

dal De brevitate vitae
 
Il cattivo uso del tempo degli “occupati
 
VII. Licet avaros mihi, licet iracundos enumeres vel odia exercentes iniusta vel bella, omnes isti virilius peccant: in ventrem ac libidinem proiectorum inhonesta labes est. Omnia istorum tempora excute, aspice quam diu computent, quam diu insidientur, quam diu timeant, quam diu colant, quam diu colantur, quantum vadimonia sua atque aliena occupent, quantum convivia, quae iam ipsa officia sunt: videbis quemadmodum illos respirare non sinant vel mala sua vel bona. Denique inter omnes convenit nullam rem bene exerceri posse ab homine occupato, non eloquentiam, non liberales disciplinas, quando districtus animus nihil altius recipit sed omnia velut inculcata respuit. Nihil minus est hominis occupati quam vivere: nullius rei difficilior scientia est. Professores aliarum artium vulgo multique sunt, quasdam vero ex his pueri admodum ita percepisse visi sunt ut etiam praecipere possent: vivere tota vita discendum est et, quod magis fortasse miraberis, tota vita discendum est mori. Tot maximi viri relictis omnibus inpedimentis, cum divitiis officiis voluptatibus renuntiassent, hoc unum in extremam usque aetatem egerunt, ut vivere scirent; plures tamen ex his nondum se scire confessi vita abierunt, nedum ut isti sciant. Magni, mihi crede, et supra humanos errores  eminentis viri est nihil ex suo tempore delibari sinere, et  ideo eius vita longissima est quia, quantumcumque patuit,  totum ipsi vacavit. Nihil inde incultum otiosumque iacuit, nihil sub alio fuit, neque enim quicquam repperit dignum  quod cum tempore suo permutaret, custos eius parcissimus. Itaque satis illi fuit: iis uero necesse est defuisse ex quorum  vita multum populus tulit. Nec est quod putes [hinc] illos< non> aliquando intellegere damnum suum: plerosque certe audies ex iis quos magna felicitas gravat inter clientium greges aut causarum actiones aut ceteras honestas miserias exclamare interdum 'vivere mihi non licet'. Quidni non liceat? omnes illi qui te sibi advocant tibi abducunt. Ille reus quot dies abstulit? quot ille candidatus? quot illa anus efferendis heredibus lassa? quot ille ad inritandam avaritiam  captantium simulatus aeger? quot ille potentior amicus, qui vos non in amicitiam sed in apparatum habet? Dispunge, inquam, et recense vitae tuae dies: videbis paucos admodum et reiculos apud te resedisse. Adsecutus ille quos optaverat fasces cupit ponere et subinde dicit 'quando hic annus praeteribit?' Facit ille ludos, quorum sortem sibi optingere magno aestimavit: 'quando' inquit 'istos effugiam?' Diripitur ille toto foro patronus et magno concursu omnia ultra quam audiri potest complet: 'quando' inquit 'res proferentur?' Praecipitat quisque vitam suam et futuri desiderio laborat, praesentium taedio. At ille qui nullum non tempus in usus suos confert, qui omnem diem tamquam ultimum ordinat, nec optat crastinum nec timet.
 
 
VII. Elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell'aver timore, quanto nell'essere servili, quanto li tengano occupati le proprie cause giudiziarie e quelle degli altri, quanto i banchetti, che ormai sono diventati anch'essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben esercitata da un uomo affaccendato, non l'eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce in profondità, ma ogni cosa respinge come se fosse introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all'ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l'ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l'influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: "Non mi è permesso vivere." E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell'imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l'ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell'influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: "Quando passerà quest'anno?" Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: "Quando li fuggirò?" Quell'avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: "Quando verranno proclamate le ferie?" Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme.
Il buon uso del tempo degli “otiosi
XII. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati (1): infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l'animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha disprezzato con superbia, si è imposto con prepotenza, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, costui ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, non sconvolta né dalla fame, né dalla paura, né l'assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. I giorni ci si presentano ad uno ad uno, e ciascun giorno momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono mai voltarsi indietro. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla il versare incessante, se non vi è sotto qualcosa che raccolga e contenga (2), così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove si possa posare: viene fatto passare attraverso animi sfasciati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni.
XIV. Soli tra tutti sono “oziosi” (3) coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita, ma aggiungono al proprio ogni altro tempo; tutti gli anni trascorsi prima di loro, sono possesso loro. Se non siamo persone ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso verità splendide, fatte uscire fuori dalle tenebre alla luce; da nessuna epoca siamo esclusi, in tutte siamo ammessi e, se ci piace di uscire con la grandezza dell'animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell'uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di entrare in comunicazione con ogni età, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con gli spiriti migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato (4), quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la maleducazione li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati con una lunga attesa, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l'atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l'inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno.
(1) Traduciamo in questo modo (“affacendati” o “indaffarati”) il termine usato da Seneca (“occupati”), con il quale egli intende tutti coloro che sono talmente presi da ogni tipo di occupazioni ed impegni che non hanno tempo da dedicare a se stessi.
(2) Sta paragonando lo scorrere della vita per un affaccendato al versare del liquido in un recipiente senza fondo.
(3) Metto tra virgolette la traduzione italiana del termine latino (otiosi), perché in italiano esso ha un’accezione negativa (indica pigrizia), mentre in latino ha un’accezione positiva, perché indica la tranquillità di chi si sottrae dal turbine degli affari e degli impegni e si dedica allo studio dei buoni autori e alla riflessione filosofica.
(4) Si allude al saluto nei confronti del patronus da parte del cliens, che veniva ricompensato con la sportula (una borsa contenente cibi vari)

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