sabato 19 dicembre 2015

Giovenale: esempi di dissolutezza femminile nella Satira VI

 dalla Satira VI
 
L’Augusta meretrix (vv. 115-132)
 
.............................................. Claudius audi               115
quae tulerit. Dormire virum cum senserat uxor,
sumere nocturnos meretrix Augusta cucullos               
118
ausa Palatino et tegetem praeferre cubili               117
linquebat comite ancilla non amplius una.               119
Sed nigrum flavo crinem abscondente galero
intravit calidum veteri centone lupanar
et cellam vacuam atque suam; tunc nuda papillis
prostitit auratis titulum mentita Lyciscae
ostenditque tuum, generose Britannice, ventrem.
 Excepit blanda intrantis atque aera poposcit.               
125
[continueque iacens cunctorum absorbuit ictus.]
 Mox lenone suas iam dimittente puellas
tristis abit, et quod potuit tamen ultima cellam
clausit, adhuc ardens rigidae tentigine volvae,
et lassata viris necdum satiata recessit,               
130
obscurisque genis turpis fumoque lucernae
foeda lupanaris tulit ad pulvinar odorem.
 
Traduzione
 
Senti le disavventure di Claudio. La moglie, non appena lo vedeva addormentato, spingendo la sua audacia di augusta meretrice sino a preferire una stuoia al talamo del Palatino (1), indossato un mantello nero, l'abbandonava scortata da una sola ancella. Nascondendo la chioma scura sotto una parrucca bionda, entrava in un caldo lupanare, dietro una vecchia tenda; e qui, in una stanza a lei riservata, col falso nome di Licisca (2), si prostituiva ignuda, i capezzoli dorati, offrendo il ventre che, generoso Britannico (3), un tempo t'aveva partorito. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il prezzo stabilito. Quando poi il ruffiano mandava via le sue ragazze, usciva a malincuore, con la sola concessione di poter chiudere per ultima la stanza, il sesso ancora in fiamme e vibrante di voglie. Sfiancata dagli uomini, ma non sazia ancora, se ne tornava a casa: il viso ammaccato di lividi, impregnata del fumo di lucerna, portava il lezzo del bordello sin nel letto imperiale.
 
Altri esempi di dissolutezza femminile (vv. 268-313)

      Semper habet lites alternaque iurgia lectus
in quo nupta iacet; minimum dormitur in illo.
 Tum gravis illa viro, tunc orba tigride peior,               
270
cum simulat gemitus occulti conscia facti,
aut odit pueros aut ficta paelice plorat
uberibus semper lacrimis semperque paratis
in statione sua atque expectantibus illam,
quo iubeat manare modo. Tu credis amorem,               
275
tu tibi tunc, uruca, places fletumque labellis
exorbes, quae scripta et quot lecture tabellas
si tibi zelotypae retegantur scrinia moechae!
 Sed iacet in servi complexibus aut equitis. Dic,
dic aliquem sodes hic, Quintiliane, colorem.               
280
 Haeremus. Dic ipsa. 'olim convenerat' inquit
'ut faceres tu quod velles, nec non ego possem
indulgere mihi. Clames licet et mare caelo
confundas, homo sum.' Nihil est audacius illis
deprensis: iram atque animos a crimine sumunt.               
285
      Unde haec monstra tamen vel quo de fonte requiris?
praestabat castas humilis fortuna Latinas
quondam, nec vitiis contingi parva sinebant
tecta labor somnique breves et vellere Tusco
 vexatae duraeque manus ac proximus urbi               
290
Hannibal et stantes Collina turre mariti.
 Nunc patimur longae pacis mala, saevior armis
luxuria incubuit victumque ulciscitur orbem.
 Nullum crimen abest facinusque libidinis ex quo
paupertas Romana perit. Hinc fluxit ad istos               
295
et Sybaris colles, hinc et Rhodos et Miletos
atque coronatum et petulans madidumque Tarentum.
 Prima peregrinos obscena pecunia mores
intulit, et turpi fregerunt saecula luxu
divitiae molles. Quid enim venus ebria curat?               
300
 Inguinis et capitis quae sint discrimina nescit
grandia quae mediis iam noctibus ostrea mordet,
cum perfusa mero spumant unguenta Falerno,
cum bibitur concha, cum iam vertigine tectum
ambulat et geminis exsurgit mensa lucernis.               
305
 I nunc et dubita qua sorbeat aera sanna
Maura, Pudicitiae veterem cum praeterit aram,               
308
Tullia quid dicat, notae collactea Maurae.               307
 Noctibus hic ponunt lecticas, micturiunt hic               309
effigiemque deae longis siphonibus implent
inque vices equitant ac Luna teste moventur,
inde domos abeunt: tu calcas luce reversa
coniugis urinam magnos visurus amicos.
 
Traduzione
 
Gonfio di liti, di continui alterchi è il letto coniugale: non vi si dorme quasi. Insopportabile, piú perfida di una tigre privata dei suoi cuccioli, questo diventa una moglie, quando dissimula sotto falsi gemiti la coscienza d'una colpa segreta! O quando se la prende coi figli o si lagna di una rivale immaginaria, con un fiume di lacrime negli occhi sempre pronto e in attesa di sgorgare a sua voglia e piacere. E tu, cornuto (4), lo ritieni amore, ti lusinghi e con le labbra asciughi quel pianto: che lettere e biglietti leggeresti se frugassi dentro lo scrigno di quella puttanella che fa la gelosa! Ma eccola sorpresa in flagrante mentre si dona a un servo o a un cavaliere. O Quintiliano (5), suggerisci tu, di grazia, una parola adatta alla difesa. 'Ah, non so: la dica lei, tua moglie!' 'Si era d'accordo che tu facessi quel che volevi, ma che anch'io potessi darmi al bel tempo. Grida quanto ti pare, sconvolgi pure mare e cielo: sono un essere umano anch'io!' Non ha limiti l'impudenza di una donna: colte in fallo traggono dalla colpa furia e coraggio.
Da dove vengano tali mostruosità, che origine abbiano, questo vuoi sapere? Una condizione modesta garantiva un tempo la castità delle donne latine; le distoglievano dal contagio dei vizi la casa minuscola, la fatica, il sonno breve, le mani rovinate e irruvidite dalla lana etrusca, l'assillo di Annibale alle porte di Roma e i mariti in armi sulla torre Collina (6). Ora noi sopportiamo i mali di una lunga pace: piú funesta della guerra, su noi incombe la lussuria a vendicare il mondo che abbiamo sottomesso. Da quando la sobrietà romana è scomparsa, nessun crimine è assente qui fra noi, nessun misfatto di libidine. Sui nostri colli si sono installate Sibari, Rodi, Mileto e ubriaca fradicia Taranto, con le sue corone e le sue indecenze (7). L'oscenità del denaro ha introdotto costumi esotici e le mollezze della ricchezza hanno corrotto il nostro tempo con gli eccessi piú vergognosi. Venere ubriaca non ha ritegno. Una donna, che in piena notte affonda i denti in ostriche enormi, quando spumeggiano gli aromi infusi nel Falerno puro, quando si tracanna dall’anfora e il soffitto sembra ondeggiare, la mensa animarsi di lucerne sdoppiate, una donna non sa più distinguere fra bocca e sesso. Dubiti? La smorfia con cui Tullia assorbe l’aria è fin troppo evidente; cosa bisbigli quella malfamata Maura all'altra Maura, sorella di latte, quando passa accanto all'antico altare della Pudicizia (8), si vede subito: la notte fermano le loro lettighe e, prese dal bisogno di orinare, inondano la statua della dea di getti interminabili, poi si cavalcano a turno, agitandosi sotto lo sguardo della luna; tornano infine a casa, e tu, recandoti la mattina dopo a visitare i potenti tuoi amici, calpesti il piscio di tua moglie.
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(1) Il palazzo imperiale sorgeva sul colle Palatino.
(2) Licisca era nome comune fra le prostitute.
(3) Era il figlio di Claudio e Messalina. Fu fatto uccidere da Nerone (figlio della seconda moglie di Claudio, Agrippina), che così si sbarazzò di un rivale nella successione al trono.
(4) Uruca, letteralmente, “bruco”, “verme”.
(5) Quintiliano è ironicamente evocato come esempio di abile ed eloquente avvocato.
(6) A porta Collina c’era una torre di guardia, da cui si potevano avvistare eventuali minacce nemiche.
(7) Le città (tutte greche, o di coloni greci), sono citate come esempi di lusso e dissolutezza.
(8) A Roma c’era un tempio dedicato alla Pudicizia Patrizia ed uno dedicato alla Pudicizia Plebea. Immaginiamo che qui ci si riferisca al primo e che Tullia e le due Maure siano delle patrizie depravate.

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