martedì 5 gennaio 2016

Apuleio: dal De magia o Apologia

  
 IL DENTIFRICIO

Calpurniane, salve properis versibus 
misi, ut petisti, tibi munditias dentium 
nitelas oris ex Arabicis frugibus 
tenuem, candificum, nobilem pulvisculum 
complanatorem tumidulae gingivulae 
converritorem pridianae reliquiae 
ne qua visatur tetra labes sordium 
restrictis forte si labellis riseris.

 
Traduzione
 VI. Essi, dunque, hanno cominciato a leggere tra i miei scherzucci letterari un bigliettino poetico su un dentifricio, indirizzato ad un certo Calpurniano, il quale nell'esibire quella lettera a mio danno, non ha certamente visto, per la bramosia di nuocermi, se egli non fosse per caso responsabile con me di quel delitto, se delitto c'era: perché proprio lui mi aveva richiesto una sostanza per la pulizia dei denti, come attestano i  versi. Eccoli.
      Ti saluto, Calpurniano, con versi improvvisati.
      Ti ho mandato, come hai chiesto, nettezza di denti,
      splendori di bocca, fatti con arabici aromi,
      una tenue candifica famosa polverina
      che liscia e appiana la gengivetta enfiata
      che spazza via i resti del pranzo di ieri
      perché non si veda nessuna traccia impura
      quando avrai schiuso le labbra al sorriso.
Di grazia, qual è in codesti versi il detto, il pensiero, che faccia vergogna e che un filosofo non debba volere far suo? Oppure per questo io sono da riprendere, per avere inviato una polverina tratta da piante arabiche a Calpurniano cui sarebbe molto più adatto, secondo la sporcissima usanza degli Iberi, di servirsi, come dice Catullo, della propria urina: “Per lustrarsi i denti e la rossa gengiva”.
 VII. Ho visto poco fa alcuni che trattenevano a stento le risate mentre quell'avvocato muoveva fiera accusa contro la pulizia dei denti, e la parola «dentifricio» pronunziava con tanto sdegno quanto nessuno ebbe mai nel dire «veleno». Perché no? Dev'essere accusa bene accetta a un filosofo, non tollerare su di sé nulla di sordido, non permettere che nessuna parte visibile del suo corpo sia immonda e fetida: soprattutto la bocca che, posta in evidenza, agli occhi di tutti, è l'organo di cui l'uomo si serve più spesso, sia che baci qualcuno o che discorra o parli in pubblico o rivolga nel tempio la preghiera a Dio. Ogni atto umano è preceduto dalla parola che, come dice il massimo poeta,(1) «vien fuori dalla chiostra dei denti». Immaginiamo un magniloquente oratore: egli direbbe, nello stile che gli è proprio, che chi ha specialmente cura del proprio linguaggio, deve attendere più che al resto del suo corpo, alla bocca, vestibolo dell'anima, porta della orazione, comizio delle idee. Per me, secondo la mia capacità, mi basti dire che a un libero e liberale cittadino nulla sconviene più che la sozzura della bocca. Essa è la parte eccelsa del corpo umano, la prima che si veda, la cui funzione è la parola. Nelle fiere e nelle bestie la bocca bassa e prona giù giù fino alle zampe e atterrata lungo il sentiero o la pastura mai può contemplarsi se non quando siano morte o mordenti per la furia che le assale; nell'uomo nulla tu osservi più presto quand'egli tace, nulla più spesso quand'egli parla.
VIII. Io vorrei pertanto che il mio censore Emiliano (2) mi rispondesse se egli usi qualche volta lavarsi i piedi o, se egli lo afferma, che mi dimostri come mai sia più da curarsi la pulizia dei piedi che quella dei denti. Certamente, se qualcuno come te, Emiliano, apre soltanto la bocca per maledire e calunniare, credo bene che egli non curi né di pulirsi la bocca né di nettarsi con una polvere esotica i denti e neppure di sciacquarli con acqua comune: ma piuttosto la sua lingua malefica, dispensiera di menzogne e di amarezze, si appesti sempre nel suo letamaio. Infatti, ahimè, perché mai una lingua pulita e bella dovrebbe possedere una voce brutta e sporca e a modo di vipera col piccolo niveo dente stillare il nero veleno? Di chi si accinge ad esporre pensieri né disutili né sgradevoli è giusto che sia ben forbita la bocca, come la tazza per una buona bevanda. Ma a che parlare più a lungo dell'essere umano? Una bestiaccia feroce, il coccodrillo che nasce nel Nilo, anch'esso, a quanto ho appreso, sporge senza far male la enorme gola per farsi pulire i denti;  infatti poiché ha una bocca ampia ma priva di lingua, che schiude  solitamente nell'acqua, molte sanguisughe gli si attaccano ai denti; e quando, arrivato al battito del fiume, ha spalancato la bocca, uno degli uccelli fluviali, compiacente uccello, ficcato dentro il beccuccio, senza pericolo alcuno, gliele cava fuori.
 LO SPECCHIO

[13]        Sequitur enim de speculo longa illa et censoria oratio, de quo pro rei atrocitate paene diruptus est Pudens clamitans: ‘habet speculum philosophus, possidet speculum philosophus.’ ut igitur habere concedamne aliquid obiecisse te credas, si negaro—, non tamen ex eo accipi me necesse est exornari quoque ad speculum solere. Quid enim? si choragium thymelicum possiderem, num ex eo argumentarere etiam uti me consuesse tragoedii syrmate, histrionis crocota, †orgia, mimi centunculo? non opinor. nam et contra plurimis rebus possessu careo, usu fruor. quod si neque habere utendi argumentum est neque non utendi non habere et speculi non tam possessio culpatur quam inspectio, illud etiam doceas necesse est, quando et quibus praesentibus in speculum inspexerim, quoniam, ut res est, magis piaculum decernis speculum philosopho quam Cereris mundum profano videre.

[14] Cedo nunc, si et inspexisse me fateor, quod tandem crimen est imaginem suam nosse eamque non uno loco conditam, sed quoquo velis parvo speculo promptam gestare? an tu ignoras nihil esse aspectabilius homini nato quam formam suam? equidem scio et filiorum cariores esse qui similes videntur et publicitus simulacrum suum cuique, quod videat, pro meritis praemio tribui. aut quid sibi statuae et imagines variis artibus effigiatae volunt? nisi forte quod artificio elaboratum laudabile habetur, hoc natura oblatum culpabile iudicandum est, cum sit in ea vel magis miranda et facilitas et similitudo. Quippe in omnibus manu faciundis imaginibus opera diutina sumitur, neque tamen similitudo aeque ut in speculis comparet; deest enim et luto vigor et saxo color et picturae rigor et motus omnibus, qui praecipua fide similitudinem repraesentat, cum in eo visitetur imago mire relata, ut similis, ita mobilis et ad omnem nutum hominis sui morigera; eadem semper contemplantibus aequaeua est ab ineunte pueritia ad obeuntem senectam, tot aetatis vices induit, tam varias habitudines corporis participat, tot vultus eiusdem laetantis vel dolentis imitatur. enimvero quod luto fictum vel aere infusum vel lapide incussum vel cera inustum vel pigmento illitum vel alio quopiam humano artificio adsimulatum est, non multa intercapedine temporis dissimile redditur et ritu cadaveris unum vultum et immobilem possidet. Tantum praestat imaginis artibus ad similitudinem referundam levitas illa speculi fabra et splendor opifex.

[15] Aut igitur unius Hagesilai Lacedaemonii sententia nobis sequenda est, qui se neque pingi neque fingi unquam diffidens formae suae passus est, aut si mos omnium ceterorum hominum retinendus videtur in statuis et imaginibus non repudiandis, cur existimes imaginem suam cuique visendam potius in lapide quam in argento, magis in tabula quam in speculo? an turpe arbitraris formam suam spectaculo assiduo explorare? an non Socrates philosophus ultro etiam suasisse fertur discipulis suis, crebro ut semet in speculo contemplarentur, ut qui eorum foret pulchritudine sibi complacitus impendio procuraret, ne dignitatem corporis malis moribus dedecoraret, qui vero minus se commendabilem forma putaret sedulo operam daret, ut virtutis laude turpitudinem tegeret? adeo vir omnium sapientissimus speculo etiam ad disciplinam morum utebatur.

Traduzione
 
XIII. Segue dunque quel lungo e censorio discorso intorno allo specchio, per cui, dinanzi all'atrocità della cosa, Pudente (3) per poco non è scoppiato schiamazzando: «ha uno specchio il filosofo, possiede uno specchio il filosofo!» Orbene, ammettendo pure di averlo, perché tu non creda di aver mossa, se lo negherò, una seria obiezione, non è tuttavia necessario concludere che io sia solito anche abbigliarmi allo specchio. E che? Se io possedessi tutto un vestiario scenico forse ne argomenteresti che io sia solito indossare il manto del tragico, la gialla tunica dell'istrione, la variopinta casacca del mimo? Non credo. Così al contrario, moltissime sono le cose che non possiedo ma che adopero. Se il possesso non è una prova dell'uso e la mancanza di possesso non esclude l'uso, giacché non tanto il possesso dello specchio si incolpa, quanto il fatto di specchiarsi, questo è necessario che tu mi provi: quanto e in presenza di chi io mi sia guardato allo specchio. Dico questo perché in realtà tu decreti che per un filosofo la vista di uno specchio è un sacrilegio peggiore che per un profano vedere gli oggetti sacri dei misteri di Cerere.
 XIV. Dimmi: se io confesso di essermi guardato, quale delitto è conoscere la propria immagine e, anziché tenerla racchiusa in un determinato luogo, portarla dovunque tu voglia, visibile e manifesta, in un piccolo specchio? Ignori che per una creatura umana nulla è più degno di essere rimirato che la propria figura? Anche dei figli so che sono più cari quelli che rassomigliano ai genitori; e le città fanno dono ai benemeriti cittadini delle loro immagini, perché possano contemplarle. Altrimenti che significato hanno le statue e le immagini con varia arte rappresentate? A meno che per avventura ciò che è stimato lodevole quando sia elaborato dall'arte, non sia da giudicarsi vizioso quando venga offerto dalla natura, dove è pure assai più meravigliosa la facilità e la somiglianza. Giacché in ogni ritratto si lavora a lungo, eppure la somiglianza non apparisce così viva come negli specchi; manca infatti alla creta il vigore, alla pietra il colore, alla pittura il rilievo e a tutte quante il moto che rende con singolare fedeltà la somiglianza: mentre nello specchio si vede l'immagine mirabilmente riportata, che rassomiglia e si muove e obbedisce a ogni cenno della persona. E quella immagine, di coloro che si rimirano è coetanea sempre, dalla nascente puerizia alla morente vecchiaia; tante mutazioni di tempo essa riveste, così vari aspetti della persona comporta, tante espressioni riflette di letizia e di dolore. Ma ciò che è plasmato o fuso nel bronzo o scolpito nel sasso o impresso nella cera o steso su coi colori o raffigurato con qualsivoglia altro artificio, dopo un breve intervallo di tempo non rassomiglia più e, a guisa di cadavere, serba una sola ed immobile faccia. Di tanto, rispetto alla somiglianza, supera le arti figurative quella modellatrice levigatezza e quella creatrice splendidezza dello specchio.
 XV.  Dobbiamo, dunque, seguire il proposito del solo Agesilao, il Lacedemone, il quale diffidando del suo aspetto non si lasciò mai né dipingere né scolpire o è da mantenere il costume di tutti gli uomini di accogliere come buone le statue e le immagini? E in tal caso, perché ritieni si debba vedere la propria immagine nella pietra e non nell'argento, in un quadro e non in uno specchio? Oppure pensi tu sia brutta cosa studiare con assidua  contemplazione la propria figura? Socrate, il filosofo, esortava, come si dice, i giovani a contemplarsi spesso nello specchio perché chi si fosse compiaciuto della propria bellezza badasse attentamente a non disonorare coi mali costumi la dignità del corpo; chi si ritenesse poco raccomandabile nell'aspetto, si adoprasse a nascondere la bruttezza con le qualità morali. Tanto quell'uomo, il più sapiente fra tutti, si valeva dello specchio per la disciplina dei costumi.
 
(1) Omero.   
(2) E’ il cognato, ed accusatore, di Apuleio.
(3) E’ il figlio della vedova Pudentilla, ed altro accusatore di Apuleio.

Nessun commento:

Posta un commento