venerdì 8 gennaio 2016

Leopardi: alcune strofe dalla canzone "Ad Angelo Mai"

Ad Angelo Mai
       quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della "Repubblica"
 
La canzone è del gennaio del 1820. Leopardi si rivolge al cardinale Angelo Mai, in occasione del ritrovamento suddetto, chiedendogli, e chiedendosi, se abbia senso riportare alla luce documenti della virtù e della magnanimità degli antichi, visto che tali doti sono misconosciute e anzi disprezzate nel mondo contemporaneo; quindi prosegue:      
 
 
          46        Bennato ingegno[1], or quando altrui non cale
        47   De' nostri alti parenti,
        48   A te ne caglia, a te cui fato aspira
        49   Benigno sì che per tua man presenti
        50   Paion que' giorni allor che dalla dira
        51   Obblivione antica ergean la chioma,
        52   Con gli studi sepolti,
        53   I vetusti divini, a cui natura
        54   Parlò senza svelarsi, onde i riposi
        55   Magnanimi allegràr d'Atene e Roma[2].
        56   Oh tempi, oh tempi avvolti
        57   In sonno eterno![3] Allora anco immatura
        58   La ruina d'Italia, anco sdegnosi
        59   Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
        60   Più faville rapia da questo suolo[4].
 
        61        Eran calde le tue ceneri sante,
        62   Non domito nemico
        63   Della fortuna, al cui sdegno e dolore
        64   Fu più l'averno che la terra amico.[5]
        65   L'averno: e qual non è parte migliore
        66   Di questa nostra?[6] E le tue dolci corde
        67   Susurravano ancora
        68   Dal tocco di tua destra, o sfortunato
        69   Amante.[7] Ahi dal dolor comincia e nasce
        70   L'italo canto. E pur men grava e morde
        71   Il mal che n'addolora
        72   Del tedio che n'affoga.[8] Oh te beato,
        73   A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
        74   Cinse il fastidio; a noi presso la culla
        75   Immoto siede, e su la tomba, il nulla.[9]
 
        76        Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
        77   Ligure ardita prole,
        78   Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
        79   Cui strider l'onde all'attuffar del sole
        80   Parve udir su la sera, agl'infiniti
        81   Flutti commesso, ritrovasti il raggio
        82   Del Sol caduto, e il giorno
        83   Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;[10]
        84   E rotto di natura ogni contrasto,
        85   Ignota immensa terra al tuo viaggio
        86   Fu gloria, e del ritorno
        87   Ai rischi.[11] Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
        88   Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
        89   L'etra sonante e l'alma terra e il mare
        90   Al fanciullin, che non al saggio, appare.[12]
 
        91        Nostri sogni leggiadri ove son giti
        92   Dell'ignoto ricetto
        93   D'ignoti abitatori, o del diurno
        94   Degli astri albergo, e del rimoto letto
        95   Della giovane Aurora, e del notturno
        96   Occulto sonno del maggior pianeta?[13]
        97   Ecco svaniro a un punto,
        98   E figurato è il mondo in breve carta;
        99   Ecco tutto è simile, e discoprendo,
       100   Solo il nulla s'accresce.[14] A noi ti vieta
       101   Il vero appena è giunto,
       102   O caro immaginar; da te s'apparta
       103   Nostra mente in eterno; allo stupendo
       104   Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
       105   E il conforto perì de' nostri affanni.[15]
      
La canzone prosegue rievocando grandi individualità che seppero mantenere viva la facoltà immaginativa (come Ariosto, capace ancora di creare le belle favole dell'Orlando furioso) e che, sempre più isolati in un mondo sempre più incapace di comprendere la grandezza del loro animo, cercarono di contrastare la decadenza inesorabile dei tempi dopo il Rinascimento (come Tasso, che dovette pagare con la segregazione in manicomio il prezzo della incomprensione; o come Alfieri, il solo capace, in tempi recenti, di esprimere sentimenti antichi, quali l'amore per la libertà e l'odio per la tirannide).
La canzone si conclude con l'esortazione al cardinale di proseguire nella sua opera, affinché "questo secol di fango", sentendo le voci dell'antica grandezza, o ritrovi il desiderio di compiere "atti illustri" (belle imprese, di pensiero e di azione), o si vergogni della propria mediocrità.
 
 


[1] O ingegno di valore (nato per bene operare: si rivolge al cardinale)
[2] Dal momento che agli altri non importa niente (altrui non cale) dei nostri grandi progenitori (alti parenti; si riferisce agli autori classici), ne importi a te (a te ne caglia), a te che il fato ispira così benevolmente che, per opera tua, sembrano rivivere quei tempi in cui (si riferisce ai tempi del Rinascimento, quando era rinato l’amore per gli autori classici) i divini antichi (i grandi dell’antichità) risollevavano la testa (ergean la chioma),  dalla funesta e secolare dimenticanza (dira obblivione antica) in cui erano caduti; la risollevavano, insieme con (grazie a) gli studi classici dimenticati, quegli antichi ai quali la natura parlò senza svelare tutti i suoi segreti (che avevano il privilegio di comunicare con la natura pur senza conoscerla scientificamente), per cui (onde) poterono allietare (con la loro poesia, derivata dalla suddetta comunicazione con la natura) i momenti di riposo dei loro contemporanei, Greci e Romani, dotati di grande animo (capaci di grandi pensieri e di grandi azioni).
[3] Oh tempi (del Rinascimento) dimenticati per sempre.
[4] Allora era ancora lontana (anco immatura) la rovina d’Italia, ancora disdegnavamo (noi italiani) questa inerzia vergognosa (ozio turpe), e da questa nostra terra (italica) ancora si alzavano nell’aria numerose scintille (esistevano ancora individui e azioni di valore, prima che tutto si riducesse a cenere).
[5] Si riferisce a Dante: eri morto da poco tempo (rispetto al Rinascimento), nemico indomabile della sorte, alla cui ira e alla cui sofferenza fu più di conforto l’inferno (nel quale vagò con la sua fantasia) che la terra (nella quale dovette sempre combattere contro le avversità).
[6] E quale parte (dell’universo) non è migliore di questa in cui viviamo (cioè, della terra)?
[7] Si riferisce a Petrarca: e le dolci corde (della tua lira, idealmente suonata dal poeta lirico) risuonavano ancora, toccate dalla tua mano, o infelice innamorato (cioè, si sentiva ancora, sempre nel Rinascimento, l’eco della tua poesia).
[8] La poesia italica comincia dal dolore (si riferisce sempre a Petrarca). Eppure il male che procura dolore è meno gravoso della noia (del senso di vuoto, di nullità di tutte le cose), nella quale oggi affoghiamo.
[9] Beato te, che vivesti nel pianto (perché per tutta la vita hai provato un sentimento forte, come l’amore, anche se ti ha procurato sempre dolore).  Per noi, sin dalla nascita, non c’è che fastidio; su di noi incombe inamovibile, dalla culla alla tomba, il sentimento della nullità.
[10] Si riferisce a Colombo: invece la tua vita, o coraggioso figlio della Liguria, era allora (ai tempi del Rinascimento) con le stelle e con il mare, quando, al di là delle colonne (d’Ercole), al di là di quelle coste (le coste atlantiche dell’Europa occidentale) dalle quali sembrava di sera sentire stridere le onde del mare perché il sole ci si tuffava dentro (questa doveva essere l’impressione, per gli antichi, vedendo il sole tramontare nell’oceano), tu, affidato allo sterminato oceano (agl’infiniti flutti commesso), ritrovasti (nell’altro emisfero, scoprendo l’America) la luce del sole che era tramontato (nel nostro emisfero) e ritrovasti (sempre, nell’altro emisfero) il giorno che nasce allorché nel nostro emisfero è giunto al termine.
[11] E, superato ogni ostacolo della natura, la scoperta di una immensa terra sconosciuta (l’America) fu la ricompensa gloriosa per il tuo viaggio e per i pericoli del ritorno.
[12] Ma il mondo, quando è conosciuto, non cresce (non appare più grande), anzi diminuisce (appare più piccolo); e il cielo (etra) in cui si propaga il suono (sonante) e la terra che dà nutrimento (alma) e il mare appaiono più vasti ad un bambino (che vaga senza limiti con l’immaginazione) che non al sapiente (che conosce scientificamente i limiti del reale).
[13] Dove sono andati (son giti) i nostri bei sogni (cioè, le favole degli antichi, i miti) su sconosciuti luoghi (ignoto ricetto) abitati da gente sconosciuta, o sul luogo dove dimorano di giorno (diurno albergo) le stelle, e sul letto dove riposa di notte la giovinetta Aurora , e sul luogo segreto dove di notte dorme (notturno occulto sonno) il sole (maggior pianeta)? (sono tutti miti che potevano sussistere finché non si conosceva la realtà dell’altro emisfero, e quindi si poteva immaginare che ci abitasse chissà chi, che di giorno vi soggiornassero le stelle, che di notte ci dormisse il sole – visto che scomparivano dal nostro emisfero -  o anche Aurora, immaginata come una fanciulla che si alzava ogni mattina per comparire ad oriente)  
[14] Tutti questi sogni sono svaniti d’un tratto e tutto il mondo è raffigurato in una piccola carta (geografica). Tutto è uniforme e, scoprendo la realtà, cresce solo il sentimento della nullità di tutte le cose
[15] O cara immaginazione, la scoperta della verità ( la conoscenza scientifica della realtà) ti elimina dalla nostra mente (a noi ti vieta); la nostra mente si separa da te irrimediabilmente; gli anni (tanto il progresso storico, quanto la crescita individuale) ci impediscono per sempre di godere del tuo primordiale e stupefacente potere;  e insieme a te perisce la consolazione dei nostri dolori.

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