venerdì 8 gennaio 2016

Rimbaud: il poeta "veggente"

Dalla lettera di Rimbaud a Paul Demeny, del 15 maggio 1871 (Rimbaud ha 17 anni), detta anche la Lettera del veggente
 
Il primo studio dell’uomo che si vuole poeta è la propria conoscenza, intera: egli cerca la sua anima, l’indaga, la saggia, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla (…)
Io dico che bisogna  essere veggente, farsi veggente.
Il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato dereglement (sregolatezza, disordine, deragliamento) di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia: egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura, nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto!, e anche se, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto! (…)
Dunque il poeta è un ladro di fuoco.
Ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma, se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua (…) Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e che tira.

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