Pascoli
14) Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della
produzione di Pascoli. Tre testi di grande suggestione, nei quali
Pascoli rievoca l’eroe omerico allo scopo di dare corpo alle proprie, personali
inquietudini. L’Ulisse di Pascoli non è
né uno scelerum inventor né un eroe
della conoscenza, è un vecchio che rievoca con nostalgia le gloriose avventure
della sua giovinezza e si interroga sul senso di quelle avventure, che è poi il
senso della sua vita.
15) Il
ritorno (da Odi e inni). Ulisse,
accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia
insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia,
crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e
rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa,
dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla
fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita
a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la
fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e
rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere
cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a
quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”).
La gloria e la bellezza sono nel
ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel
finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così
troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del
passato:
Al fonte arguto
s’appressò l’eroe,
e vide sè nel puro
fior dell’acque.
Arida vide la sua
cute, vide
grigi i capelli, e
pieni d’ombra gli occhi;
e la fronte
solcata era di rughe,
curvo il dosso, nè
più molli le membra.
Vide; e rivide ciò
che più non era:
sè biondo e
snello, coi grandi occhi aperti.
Rivide nella
stessa onda, e compianse,
la sua lontana
fanciullezza estinta.
(….) il reduce
Odisseo
tutto conobbe, poi
che sè conobbe;
ed alla patria
protendea le braccia:
OD. Io era, io era mutato!
Tu,
patria, sei come a quei giorni!
Io
sì, mio soave passato,
ritorno;
ma tu non ritorni...
(….)
E le ninfe divine,
anime verdi
d’alberi,
cristalline anime d’acque,
avean pietà del
vecchio eroe, che pianse
quando non vide, e
pianse quando vide.
CORO Coi vecchi nostri canti che sai,
voci di cose piccole e care,
t’addormiremo, vecchio; e potrai
ricominciare.
E quando il mare, nella tua
sera,
mesto nell’ombra manda il suo
grido,
sciogliere ancora potrai la nera
nave dal lido.
Vedrai le terre de’ tuoi ricordi,
del tuo patire dolce e remoto:
là resta, e il molto dolce là
mordi
fiore del loto.
Sarai qui presso. Rotto il tuo
remo
sopra il tuo capo stanco sarà.
Sul tuo sepolcro noi canteremo
la tua lontana felicità.
16) L’ultimo
viaggio (dai Poemi conviviali) è
un poema, composto da 24 sezioni, che
già nel numero vuole ripetere la struttura in 24 canti dell’Odissea. Il
vecchio Ulisse ha seguito i dettami
della profezia di Tiresia (con un remo sulla spalla, giungerai presso
uomini che non conoscono mare, né navi, né cibi conditi col sale; lì, un altro
viandante scambierà il tuo remo per un ventilabro, quindi pianterai a terra il
remo e offrirai sacrifici a Poseidone) è tornato ad Itaca dove, sempre secondo
la profezia, lo attende in vecchiezza, serenamente, circondato da popoli ricchi,
“la morte che viene dal mare” (thanatos
ex halòs: qualcuno traduce “fuori dal mare”, interpretando diversamente il
senso della profezia). Ma Ulisse è stanco di quella vita inerte, vuole
riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato,
tenendo pronta la nave), al pitocco Iro e all’aedo Femio; non vuole partire – come l’Ulisse di Dante – per conoscere nuove genti
e nuovi mondi, vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le
proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Vuole
ripercorrere i luoghi del suo viaggio, non tanto per divenire “del mondo esperto e de li vizi umani e del
valore”, come dice Dante, ma per
conoscere se stesso: vuole capire ciò che non ha capito, vuole capire il
senso della vita. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si
rivela ora banale e quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione
naturalistica). All’isola di Circe
non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se
non di notte, come in sogno; di giorno, si
sentono “ruggir le quercie / a qualche
rara raffica, e cantare / lontan lontano eternamente il mare”. L’aedo
muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu
l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non
avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio
rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare.
All’isola delle Sirene, dove l’eroe
vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, dove vorrebbe ottenere quella
conoscenza che esse promettono, non vede
altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida
e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe la conoscenza, una conoscenza
che dia significato alle peripezie della sua vita (“Son io! Son io, che
torno per sapere!”), vuole la conoscenza di se stesso, anche a costo di
aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi
resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). E sugli
scogli si sfascia la sua nave:
Ed
il prato fiorito era nel mare,
nel
mare liscio come un cielo; e il canto
non
risonava delle due Sirene,
ancora,
perché il prato era lontano.
E
il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare
calmo,
spingea la nave verso le Sirene;
e
disse agli altri d’inalzare i remi:
La nave corre ora da sé, compagni!
Non
turbi il rombo del remeggio i canti
delle
Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi
udite, il braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
(…)
E il vecchio vide che le due Sirene,
le
ciglia alzate su le due pupille,
avanti
sé miravano, nel sole
fisse,
od in lui, nella sua nave nera.
E
su la calma immobile del mare,
alta
e sicura egli inalzò la voce.
Son
io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi
vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai
nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi
sono?
E la corrente rapida e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini,
e pelli raggrinzate intorno,
presso
le due Sirene, immobilmente
stese
sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca
quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma
dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima
ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con
gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi
almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.
Ma
le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice (tale
è il significato del suo nome, dal greco kalýptein,
nascondere). La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo
che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare
al mare e al suo dolore:
E
il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse
Odisseo, per nove giorni e notti,
e
lo sospinse all’isola lontana,
alla
spelonca, cui fioriva all’orlo
carica
d’uve la pampinea vite.
(…)
Ed
ella che tessea dentro cantando,
presso
la vampa d’olezzante cedro,
stupì,
frastuono udendo nella selva,
e
in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle
cornacchie e il rifiatar dei gufi!
(…)
In
odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice.
E ben lo so, da quando
l’uomo
che amavo, rimandai sul mare
al
suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli
occhi tondi, e garrule cornacchie?
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro,
e guardò. Giaceva in terra, fuori
del
mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso
ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo
accennava di saper quell’antro,
tremando
un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea
con lunghi grappoli dell’uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla
sua dea: lo riportava morto
alla
Nasconditrice solitaria,
all’isola
deserta che frondeggia
nell’ombelico
dell’eterno mare.
Nudo
tornava chi rigò di pianto
le
vesti eterne che la dea gli dava;
bianco
e tremante nella morte ancora,
chi
l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei
suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile,
dove non l’udia nessuno:
—
Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma
meno morte, che non esser più! —
Ed è lei, Calypso, che
svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno
morte, che non esser più!”; il segreto è il non
essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un
nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno
morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del
dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si
precipita). E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho
Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il
ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è
pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo (nei
romanzi di cavalleria, per Don Chisciotte); nella vita reale esiste la banalità
del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è
altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della
sapienza silenica.
17) Il
sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali).
Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi
versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di
Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca,
aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla
navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di
significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). E’
un componimento particolarmente
elaborato, sia per l’uso insistito di espressioni omeriche (la nera nave, l’eccelsa casa, l’asta dalla bronzea punta, ecc.), sia per
la struttura perfettamente circolare, segnalata dai versi finali delle strofe e
da una fitta rete di richiami, parallelismi, simmetrie. Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”,
ma sfinito si addormenta. Le strofe
che seguono descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il
comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’ “eccelsa casa”
di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di
Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla
bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che
interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato
alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano,
Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non
sapea che nero”.
I
Per
nove giorni, e notte e dì, la nave
nera
filò, ché la portava il vento
e
il timoniere, e ne reggeva accorta
la
grande mano d’Odisseo le scotte;
né,
lasso, ad altri le cedea, ché verso
la
cara patria lo portava il vento.
Per
nove giorni, e notte e dì, la nera
nave
filò, né l’occhio mai distolse
l’eroe,
cercando l’isola rupestre
tra
il cilestrino tremolìo del mare;
pago
se prima di morir vedesse
balzarne
in aria i vortici del fumo.
Nel
decimo, là dove era vanito
il
nono sole in un barbaglio d’oro,
ora gli apparse non sapea che
nero:
nuvola
o terra? E gli balenò vinto
dall’alba
dolce il grave occhio: e lontano
s’immerse il cuore d’Odisseo nel
sonno.
II
E venne incontro al volo della nave,
ecco, una terra, e veleggiava
azzurra
tra il cilestrino tremolìo del
mare;
e
con un monte ella prendea del cielo,
e
giù dal monte spumeggiando i botri (scoscesi
fossati)
scendean
tra i ciuffi dell’irsute stipe; (sterpi
spinosi)
e
ne’ suoi poggi apparvero i filari
lunghi
di viti, ed a’ suoi piedi i campi
vellosi
della nuova erba del grano:
e
tutta apparve un’isola rupestre,
dura,
non buona a pascere polledri,
ma
sì di capre e sì di buoi nutrice:
e
qua e là sopra gli aerei picchi
morian
nel chiaro dell’aurora i fuochi
de’
mandrïani; e qua e là sbalzava
il
mattutino vortice del fumo,
d’Itaca,
alfine: ma non già lo vide
notando il cuore d’Odisseo nel
sonno.
III
Ed ecco a prua dell’incavata nave
volar
parole, simili ad uccelli,
con
fuggevoli sibili. La nave
radeva
allora il picco alto del Corvo
e
il ben cerchiato fonte; e se n’udiva
un
grufolare fragile di verri;
ed
ampio un chiuso si scorgea, di grandi
massi
ricinto ed assiepato intorno
di
salvatico pero e di prunalbo;
ed
il divino mandrïan dei verri,
presso
la spiaggia, della nera scorza
spogliava
con l’aguzza ascia un querciolo
e
grandi pali a rinforzare il chiuso
poi
ne tagliò coi morsi aspri dell’ascia;
e
sì e no tra lo sciacquìo dell’onde
giungeva
al mare il roco ansar dei colpi,
d’Eumeo
fedele: ma non già li udiva
tuffato il cuore d’Odisseo nel
sonno.
IV
E già da prua, sopra la nave, a poppa,
simili
a freccie, andavano parole
con
fuggevoli fremiti. La nave
era
di faccia al porto di Forkyne;
e
in capo ad esso si vedea l’olivo,
grande,
fronzuto, e presso quello un antro:
l’antro
d’affaccendate api sonoro,
quando
in crateri ed anfore di pietra
filano
la soave opra del miele:
e
si scorgeva la sassosa strada
della
città: si distinguea, tra il verde
d’acquosi
ontani, la fontana bianca
e
l’ara bianca, ed una eccelsa casa:
l’eccelsa casa d’Odisseo: già forse
stridea
la spola fra la trama, e sotto
le
stanche dita ricrescea la tela,
ampia,
immortale... Oh! non udì né vide
perduto il cuore d’Odisseo nel
sonno.
V
E su la nave, nell’entrare il porto,
il
peggio vinse: sciolsero i compagni
gli
otri, e la furia ne fischiò dei venti:
la
vela si svoltò, si sbatté, come
peplo,
cui donna abbandonò disteso
ad
inasprire sopra aereo picco:
ecco,
e la nave lontanò dal porto;
e
un giovinetto stava già nel porto,
poggiato
all’asta dalla bronzea punta:
e
il giovinetto sotto il glauco olivo
stava
pensoso; ed un veloce cane
correva
intorno a lui scodinzolando:
e
il cane dalle volte irrequïete
sostò,
con gli occhi all’infinito mare;
e
com’ebbe le salse orme fiutate,
ululò
dietro la fuggente nave:
Argo,
il suo cane: ma non già l’udiva
tuffato il cuore d’Odisseo nel
sonno.
VI
E la nave radeva ora una punta
d’Itaca
scabra. E tra due poggi un campo
era,
ben culto; il campo di Laerte;
del
vecchio re; col fertile pometo;
coi
peri e meli che Laerte aveva
donati
al figlio tuttavia fanciullo;
ché
lo seguiva per la vigna, e questo
chiedeva
degli snelli alberi e quello:
tredici
peri e dieci meli in fila
stavano,
bianchi della lor fiorita:
all’ombra
d’uno, all’ombra del più bianco,
era
un vecchio, poggiato su la marra:
il
vecchio, volto all’infinito mare
dove
mugghiava il subito tumulto,
limando
ai faticati occhi la luce,
riguardò
dietro la fuggente nave:
era suo padre: ma non già lo vide
notando il cuore d’Odisseo nel
sonno.
VII
Ed i venti portarono la nave
nera
più lungi. E subito aprì gli occhi
l’eroe,
rapidi aprì gli occhi a vedere
sbalzar
dalla sognata Itaca il fumo;
e
scoprir forse il fido Eumeo nel
chiuso
ben
cinto, e forse il padre suo nel
campo
ben
culto: il padre che sopra la marra
appoggiato
guardasse la sua nave;
e
forse il figlio che poggiato
all’asta
la
sua nave guardasse: e lo seguiva,
certo,
e intorno correa scodinzolando
Argo,
il suo cane; e forse la sua casa,
la
dolce casa ove la fida moglie
già
percorreva il garrulo telaio:
guardò:
ma vide non sapea che nero
fuggire
per il violaceo mare,
nuvola
o terra? e dileguar lontano,
emerso il cuore d’Odisseo dal
sonno.
Non
sappiamo se tutto ciò che è stato descritto sia apparso realmente mentre Ulisse
dormiva, o si sia trattato di un sogno: le formule verbali o avverbiali che
introducono le apparizioni sono volutamente ambigue (“e venne incontro”,
“apparve”, “ed ecco”, ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in
una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento
dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale
che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero” (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo
sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre
sfugge?), come sembra testimoniare l’uso
ripetuto del “forse” nell’ultima strofa.