mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi: il pensiero (VI parte)


Il pensiero politico: la valorizzazione della ragione ne La ginestra



1.      Ed ora La ginestra, canto straordinario, non solo perché innovativo nello stile, in quanto tutto ragionato, filosofico, con poche concessioni alle seduzioni dell’immaginazione, ma anche perché si porta a compimento quel rovesciamento del rapporto fra natura e ragione di cui parlavo all’inizio e si chiarisce definitivamente il pensiero politico di Leopardi, anzi, rispetto alla precedente totale chiusura, sembra aprirsi uno spiraglio nuovo, si intravede un senso dell’azione umana nella storia.

2.      Due parole sul senso complessivo della poesia. Anzitutto l’epigrafe, tratta dal vangelo di Giovanni, con cui si apre: kai egàpesan oi ànthropoi mallon to skotos e to phos, e gli uomini preferirono le tenebre alla luce. In Giovanni significa che gli uomini preferiscono le tenebre del peccato alla luce della salvezza, ma qui il significato è di stampo chiaramente illuminista: gli uomini preferiscono le tenebre dell’ignoranza perché hanno paura di guardare la verità alla luce della ragione. Leopardi è esplicitamente polemico nei confronti dei fideismi sia di tipo religioso che di tipo laico, e, di fronte al ritorno dello spiritualismo nell’età romantica, si richiama alla precedente età dell’illuminismo, rivendicando il valore imprescindibile dell’analisi razionale della realtà.  

3.      La ginestra è “il fiore del deserto”, cresce sull’“arida schiena” del Vesuvio, dunque in un terreno ostile, ricoperto dalla lava, memoria perenne della potenza distruttiva del vulcano. A tale potenza distruttiva la ginestra, col suo colore vivo e col suo profumo, sembra opporre resistenza, proprio perché umile, proprio perché consapevole della propria debolezza e del destino che l’attende alla prossima eruzione. La ginestra è il simbolo di chi guarda in faccia con coraggio la verità della condizione umana e non si fa illusioni consolatorie né di tipo religioso né di tipo laico-progressista. Sentite questi versi:



(…) A queste piagge

venga colui che d'esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

è il gener nostro in cura

all'amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrà dell'uman seme,

cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

son dell'umana gente

le magnifiche sorti e progressive.



4.      Le magnifiche sorti e progressive” è in corsivo nel testo, perché si tratta di una citazione tratta da uno scritto di un suo cugino, il pesarese Terenzio Mamiani, e sono parole che Leopardi riporta con ironia, come è ben chiaro dal testo.



Il pensiero politico: la poesia “stellare” de La ginestra



5.      Più oltre c’è una strofa bellissima, laddove il poeta dice che a volte si siede di notte su questo terreno indurito dalla lava e guarda il cielo stellato. Guarda le costellazioni lontane anni luce, guarda quei “nodi di stelle” che sembrano nebbia, e quindi rovescia lo sguardo, immagina di guardare la terra da quelle lontananze infinite e capisce quanto insignificante sia il nostro pianeta, un granello di polvere nell’universo e quindi quanto risibile sia la presunzione dell’uomo che si ritiene (ora come nelle età antiche) privilegiato dalla divinità:



Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e sulla mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillar il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch'a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l'uomo non pur, ma questo

globo ove l'uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor più senz'alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o così paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell'uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell'universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.



6.      L’uomo che immagina che gli autori “dell’universe cose” scendano su questo granello di sabbia a conversare con lui è senz’altro l’uomo pagano; ma come non vedere anche un riferimento all’uomo cristiano che ha concepito ugualmente un dio che si fa uomo e che su questo granello di sabbia conversa con gli altri uomini?



Il pensiero politico: la nuova apertura de La ginestra



7.      Ma ora, ecco l’aspetto politico, la riflessione sul senso dell’azione umana almeno per ridurre, se non per eliminare, la condizione di infelicità, il male di vivere. Ed è un discorso che si riallaccia a quanto diceva Plotino a Porfirio, nell’operetta morale prima citata: uniamoci, amico mio, e sosteniamoci a vicenda in questa comune lotta contro la natura avversa. Qui Leopardi dice che solo a partire dalla consapevolezza della fragilità della condizione umana, senza stupidi orgogli e presunzioni, si può progettare una società migliore; solo capendo che gli uomini devono essere uniti, essere “confederati”, al di là di ogni differenza di nazionalità, di classe, di religione, contro il comune nemico che è la natura; capendo che attribuire ad altri uomini la colpa della propria infelicità e quindi combatterli – come è sempre successo nella storia – è come se, in un accampamento assediato dal nemico, gli assediati si mettessero a combattersi a vicenda:



Nobil natura è quella

che a sollevar s'ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire

fraterne, ancor più gravi

d'ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l'uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de' mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l'umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune. Ed alle offese

dell'uomo armar la destra, e laccio porre

al vicino ed inciampo,

stolto crede così, qual fora in campo

cinto d'oste contraria, in sul più vivo

incalzar degli assalti,

gl'inimici obbliando, acerbe gare

imprender con gli amici,

e sparger fuga e fulminar col brando

infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

quando fien, come fur, palesi al volgo,

e quell'orror che primo

contra l'empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper, l'onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata probità del volgo

così star suole in piede

quale star può quel ch'ha in error la sede.



8.      Solo il “verace sapere” può essere la radice di una società migliore, fondata su onestà e giustizia (questo si intende quando si parla di “onesto e retto conversar cittadino, e giustizia e pietade”), non le “superbe fole”, ovvero la illusoria e sciocca presunzione che per l’uomo ci sia un destino di felicità, in questo o nell’altro mondo.

9.      L’idea di una impossibile redenzione, espressa in termini netti nella Palinodia ("Sempre... sempre..."), subisce ne La ginestra un cambiamento radicale, perché l’umanità cosciente si ribella e concepisce un grandioso progetto contro la natura.

10.  Certo, più che di un progetto in positivo, si tratta di un progetto di resistenza al male: ma lucido e disilluso, perché non fondato su vane "fole", ma sulla consapevolezza che dimostra Tristano nell’ultima delle Operette morali:



...calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione ed ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.



11.  E’ perciò un progetto intrinsecamente "progressivo", perché "finché l’uomo è certo che esiste il male e lo chiama col suo nome, il male ha trovato una soglia dove arrestarsi".



L’ultima osservazione



12.  Ma io voglio fare un’ulteriore osservazione. E’ vero, che cosa voglia dire in positivo, cioè in concreto, la lotta contro la natura avversa da parte degli uomini confederati, Leopardi non lo dice esplicitamente, ma, a mio parere, lo si deduce facilmente da ciò che è scritto nello Zibaldone, nella Palinodia, nella stessa Ginestra: vuol dire impiegare le risorse economiche e le energie intellettuali non per perfezionare gli armamenti, ma per, ad esempio, bonificare i deserti, combattere la fame nel mondo, contrastare i terremoti, curare le malattie mortali. Certo, tutto ciò, secondo il pensiero di Leopardi, non può eliminare l’infelicità che è connaturata, abbiamo visto, allo stesso vivere, ma è l’unico senso giusto che uomini consapevoli possono dare alla propria vita.

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