mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi: il pensiero (V parte)


Il pensiero politico: dalle canzoni giovanili ai moti del 1831



1.      Le canzoni giovanili, fra il 1818 e il 1820 (famosa quella All’Italia), sono ispirate da un forte sentimento patriottico. Sono gli anni successivi alla rivoluzione francese e alle imprese napoleoniche, sono gli anni della restaurazione. Leopardi lamenta la decadenza dell’Italia dall’antica grandezza, invoca il ritorno dell’antica virtù nel cuore degli italiani. Ma si ha sempre l’impressione di componimenti letterari, frutto di suggestioni letterarie, come se il giovane Leopardi avesse in mente la canzone All’Italia di Petrarca o anche, a me sembra, il carme Dei sepolcri di Foscolo.

2.      Seguono gli anni dei moti risorgimentali. Nel 1831 scoppiano i moti nei territori dello Stato della Chiesa. Il comitato del governo provvisorio di Recanati chiede a Leopardi (che in quegli anni si trova a Firenze) di essere il loro rappresentante all’assemblea di Bologna, che ha dichiarato decaduto il governo temporale dei papi e ha l’incarico di redigere la nuova costituzione. Leopardi declina l’invito. E’ vero che a Bologna erano già intervenuti gli austriaci e quindi l’assemblea era stata sciolta (e infatti Leopardi adduce questa ragione per rifiutare l’incarico), ma è anche vero che lo sviluppo del suo pensiero aveva portato Leopardi ad essere scettico nei confronti delle lotte risorgimentali e a trovarsi in forte contrasto con gli amici di Firenze, amici di ispirazione cattolico-liberale (Colletta, Capponi, Tommaseo) che invece quelle lotte sostenevano.



Il pensiero politico: l’errore di De Sanctis



3.      De Sanctis, patriota del Risorgimento, grande critico letterario e poi ministro della pubblica istruzione nel neonato regno d’Italia, aveva per primo notato, in un famoso saggio, l’affinità di pensiero fra Leopardi e Schopenhauer; ma poi aveva concluso che, mentre quel pensiero aveva portato Schopenhauer, al tempo delle insurrezioni del 1848, a posizioni politiche fortemente reazionarie, Leopardi invece, se fosse vissuto fino al ’48 “sarebbe stato con noi sulle barricate” (per inciso, nel film di Luchetti Il portaborse, Silvio Orlando, che è un insegnante liceale, in una scena in cui parla di Leopardi ai suoi studenti, attribuisce erroneamente a Binni la suddetta frase).

4.      Ma in sostanza io credo che su questo De Sanctis si sbagliasse. Se si leggono non solo le opere di satira politica, ma anche certe considerazioni che Leopardi fa nelle lettere, si vede come i rapporti con cosiddetti “amici di Firenze” si andassero sempre più deteriorando, proprio a causa del pessimismo leopardiano che si riversava anche sul suo pensiero politico.

Scrive in una lettera del 5-12-1831 alla Targioni Tozzetti: "Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici." Ma si veda anche la lettera al Giordani del 24-7-1828: "...considerando l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dalla età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli ed arzigogoli politici e legislativi... Io tengo - e non a caso - che la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa essere buono."


Il pensiero politico: i Paralipomeni e I nuovi credenti in polemica con i cattolico-liberali di Firenze e di Napoli


5.      Il poemetto eroicomico Paralipomeni della Batracomiomachia, scritto nel 1831, mette in campo una guerra fra topi (che rappresentano i liberali) rane (sono i reazionari) e granchi (rappresentano gli austriaci) ed è una satira feroce dei moti del 20-21 e del 30-31. Scontata l’ottusità di rane e granchi (questi ultimi sono "birri… d’Europa e boia" in virtù della loro "crosta" durissima e dell’"esser senza né cervel né fronte"), oggetto della satira sono i topi (per il loro settarismo e per la loro presunzione di poter cambiare la sostanza profonda delle cose - l’infelicità umana - con un altro travestimento del potere: la monarchia costituzionale).

6.      Del 1835 è la satira I nuovi credenti, in cui sono presi di mira i progressisti napoletani, ritenuti degli opportunisti, più interessati ai maccheroni che agli ideali  (S’arma Napoli a gara alla difesa / de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni / anteposto il morir, troppo le pesa). E ancora: Voi prodi e forti, a cui la vita è cara, / a cui grava il morir; noi femminette, / cui la morte è in desio, la vita amara.



Il pensiero politico: la visione profetica della Palinodia



7.      Ma le opere in cui più pienamente si dispiega il pensiero politico di Leopardi sono la Palinodia al marchese Gino Capponi e infine la Ginestra.

8.      Nella Palinodia (è della primavera del 1835: significa ritrattazione, e infatti il poeta finge di ritrattare le sue idee pessimiste e di condividere l’ottimismo progressista) Leopardi salta le tipiche problematiche ottocentesche, relative all’indipendenza e all’unità nazionale. Leopardi ha la vista lunga, non si lascia sedurre dall’ottimismo per le invenzioni della tecnica (macchina a vapore, mongolfiera, telegrafo, ferrovie) e per il conseguente sviluppo industriale; Leopardi è profetico, anticipa il Novecento, si rende conto che dominante è la logica del profitto e vede addirittura la minaccia di guerre mondiali per la conquista dei mercati; ecco cosa dice, dopo aver immaginato ironicamente il prossimo avvento di una nuova età dell’oro:



Ben molte volte

argento ed òr disprezzerá, contenta

a pólizze di cambio. E giá dal caro

sangue de’ suoi non asterrá la mano

la generosa stirpe: anzi coverte

fien di stragi l’Europa e l’altra riva

dell’atlantico mar, fresca nutrice

di pura civiltá, sempre che spinga

contrarie in campo le fraterne schiere

di pepe o di cannella o d’altro aroma

fatal cagione, o di melate canne,

o cagion qual si sia ch’ad auro torni.



9.      Qui si parla di spezie e di canna da zucchero, ma si dice anchecagion qual si sia ch’ad auro torni”, quale che sia la causa, la merce, che renda oro, che faccia arricchire. Dunque oggi, nel primo Ottocento di Leopardi, le spezie, domani, nel Novecento, il petrolio o l’uranio o chissà che altro.

10.  Il discorso continua: sotto ogni regime, monarchico o repubblicano, oligarchico o democratico, varrà sempre la legge del più forte, l’avidità provocherà guerre e ingiustizie; per le generazioni future ci sarà un aumento dei beni di consumo, ma anche una enorme diffusione delle “gazzette”, ovvero dei giornali, che tenderanno a diventare l’unica fonte di sapere.



(….) a milioni

impresse in un secondo, il piano e il poggio,

e credo anco del mar gl'immensi tratti,

(……..)

copriran le gazzette, anima e vita

dell'universo, e di savere a questa

ed alle età venture unica fonte!



11.  Leopardi insomma si rende conto della potenza di quelli che oggi chiamiamo mass-media, comprendendo anche radio e televisione, e avverte il rischio che questo comporti un ottundimento dell’intelligenza, una perdita dello spirito critico.

12.  Naturalmente sono idee non condivise dagli “amici di Firenze”, che non vanno tanto per il sottile quando parlano di Leopardi. Ecco qualche documento:

Capponi, a cui la Palinodia era indirizzata, in una lettera a Viesseux: “Quel maledetto gobbo s’è messo in capo di coglionarmi”. Colletta a Capponi: "Ho riletto parecchi dei componimenti antichi, qualcuno dei nuovi; e ti dico all’orecchio che niente mi è piaciuto. La medesima, eterna, ormai non sopportabile, melanconia; gli stessi argomenti; nessuna idea, nessun concetto nuovo; tristezza affettata e qualche secentismo". Tommaseo, sempre critico nei confronti di L., arrivava a dire, in una lettera a Capponi, di avergli dedicato simili versi: "Natura con un pugno lo sgobbò / 'Canta', gli disse irata; ed ei cantò". "Il povero L. aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il non saper viver gobbi?" : così commentava Capponi post mortem, incolpando, fra l’altro, Giordani di una sorta di subornazione d’incapace.

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