mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi: il pensiero (II parte)


Il “pessimismo cosmico”

1.      Il passaggio al cosiddetto “pessimismo cosmico” non è così netto,  ma certo non si sbaglia individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al ’24) in cui la nuova concezione è messa a punto.

2.      In operette come il Dialogo della natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge con chiarezza l’idea di una natura non benevola nei confronti delle sue creature, ma indifferente al loro dolore, e quindi “madre di parto, e di voler matrigna(così nella Ginestra, peraltro unico luogo in cui si trova l’appellativo di “matrigna”). 

3.      E’ un islandese che vuol sapere dalla natura il senso della infelicità umana. L’islandese si è messo a viaggiare per il mondo, credendo che la causa della sua infelicità fosse il fatto di risiedere in una terra inospitale quale l’Islanda, una terra particolarmente sfavorita dalla natura. Ma viaggiando si è reso conto che sofferenza e infelicità sono ovunque, quindi ne chiede ragione alla Natura, che lui incontra nell’interno dell’Africa, in figura di una donna gigantesca “seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna”. Interrogata dall’Islandese, la Natura si dichiara indifferente alla sorte delle sue creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo, attraverso un “perpetuo ciclo di produzione e distruzione”:



Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie… sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo…: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.



4.       Ma l’Islandese insiste, pone la questione in altri termini, si serve di un esempio:



Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.



5.      La risposta della Natura a questo punto, più che con parole è data con i fatti. Ecco la conclusione dell’operetta, una conclusione terribile, anche se esposta con sorridente leggerezza:



Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.



6.      Dunque se così è, se “quel che è distrutto patisce, e quel che distrugge non gode”, si tratta di una “vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”. Non c’è possibilità di felicità, in nessuna condizione, civilizzata o naturale, antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si rivolge al sole il gallo silvestre

Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra e del mare? Qual cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi, qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? 

7.      Ma ricordate anche il finale del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, laddove il pastore, che dichiara di sentirsi sempre insoddisfatto, assalito dal tedio, si rivolge al gregge che gli pare, invece, capace di sentirsi appagato:



O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perchè giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?



Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E' funesto a chi nasce il dì natale.

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