mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi: il pensiero (IV parte)


La sapienza silenica

1.      Alla fine di questo ragionamento ci attende inevitabile la cosiddetta “sapienza silenica”, ovvero la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità. Sileno era il precettore di Dioniso e, secondo il mito, era il possessore di una grande saggezza. Per questo, come racconta Nietzsche nella Nascita della tragedia, il re Mida lo voleva catturare:



L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non  essere, essere  niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”.



2.      Nietzsche intende svelare, attraverso il mito del Sileno, l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta armonia del mondo greco. Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Ed è una concezione che ritorna più volte negli autori greci, nei lirici, nei tragici, anche negli storici. Leopardi (ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche per Schopenhauer) sembra ereditarla:



se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero (si riferisce agli esseri viventi di vita vegetativa), certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.

Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice.  (829-30, 20/3/21)

3.      Ed è un’eredità di cui Leopardi è consapevole. Così si esprime Tristano nel Dialogo di Tristano ed un amico:



Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.

  1. Il riferimento a Salomone è un riferimento all’Antico Testamento, giacchè anche lì si trovano i segni della sapienza silenica: laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio, e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”,  ricordano proprio quelle del Sileno:

E proclamai i morti più beati dei vivi,

e più felici d’entrambi chi non è nato ancora



Contro il suicidio

5.      Se poi qualcuno si chiedesse quale fosse, a questo punto, il pensiero di Leopardi sul suicidio, troverebbe la risposta in una delle Operette morali, il Dialogo di Plotino e Porfirio, laddove Porfirio argomenta in maniera stringente a favore del suicidio come unica scelta per sottrarsi al dolore di vivere, ma infine è convinto a desistere dall’ultima obiezione di Plotino:



Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso?.... Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.

(…) Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.



6.      E con questa idea, che il senso della vita consista nella solidarietà fra uomini che si sostengono a vicenda nella comune lotta contro il male di vivere, siamo all’ultimo canto, La ginestra. Ma poiché questo canto ha anche un significato politico, sarà bene, prima di affrontarlo, fare un breve excursus sull’atteggiamento politico di Leopardi nel contesto storico del suo tempo.

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