mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi: il pensiero (III parte)



La noia

1.      Queste considerazioni sull’insoddisfazione, sul tedio, sulla noia del vivere a prescindere da occasioni specifiche di sofferenza, si ritrovano in un altro scritto di Leopardi, in un pensiero specifico sulla noia, con il conseguente corollario, che l’animo infinito sarebbe soddisfatto solo abbracciando l’infinito universo, un corollario presente anche nel Canto notturno, laddove il poeta dice che vorrebbe “volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo”

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani… Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (dai Pensieri, LXVIII)

2.      Qualcosa di simile si trova anche in Schopenhauer:

Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)

La teoria del piacere

3.      Sono considerazioni che ci mettono di fronte ad un’altra argomentazione, decisiva per la convinzione di Leopardi che l’infelicità sia un dato insopprimibile di natura, sia connaturata all’esistenza.  
4.      Mi pare che tale argomentazione si debba individuare nella elaborazione della teoria del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente (Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. L’infelicità è quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:
La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)
“Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).” 
5.      Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
“Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)  
“... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)    
“Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.”  (4186, 13/7/26)
6.      L’idea che la sofferenza degli esseri viventi sia proporzionale alla capacità di sentire la vita, e sia quindi più intensa nelle forme di vita superiori, è un’idea che si ritrova anche in Schopenhauer, con il conseguente corollario che fra gli individui umani la sofferenza sia proporzionale allo sviluppo dell’intelligenza:

Così Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani.” (Zib., 4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).

7.       Che sia una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita, abbiamo visto, nella chiusa del Canto notturno) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus amoenus:
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta… Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.… Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere. (4175-77, 22/4/26)


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