La
noia
1.
Queste considerazioni
sull’insoddisfazione, sul tedio, sulla noia del vivere a prescindere da
occasioni specifiche di sofferenza, si ritrovano in un altro scritto di
Leopardi, in un pensiero specifico sulla noia, con il conseguente corollario,
che l’animo infinito sarebbe soddisfatto
solo abbracciando l’infinito universo, un corollario presente anche nel Canto notturno, laddove il poeta dice
che vorrebbe “volar su le nubi, e noverar
le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo”
La noia è in qualche modo
il più sublime dei sentimenti umani… Il non potere essere soddisfatto da alcuna
cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza
inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e
trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio;
immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che
l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo;
e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e
voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si
vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (dai Pensieri, LXVIII)
2.
Qualcosa di simile si trova anche in Schopenhauer:
Il desiderio è, per sua
natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo
apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il
desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è
battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)
La
teoria del piacere
3.
Sono considerazioni che ci mettono di
fronte ad un’altra argomentazione, decisiva per la convinzione di Leopardi che l’infelicità sia un dato
insopprimibile di natura, sia connaturata all’esistenza.
4.
Mi pare che tale argomentazione si debba
individuare nella elaborazione della teoria
del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente
(Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente
nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria
conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il
desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor
proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere
particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”,
“mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che
l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità,
è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. L’infelicità è quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso
le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò
che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono
affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:
La felicità
è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio
assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti
necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di
non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria,
anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza
necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi
si ama, e quindi desidera assolutamente
la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e
quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico,
che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)
“Dove non
v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di
piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come
si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per
necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando
e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di
soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è
quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente.
In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere,
ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto
ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).”
5.
Ed è una condizione che riguarda non solo
l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
“Una specie di viventi rispetto
all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella
sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali.
(Dunque la specie de’ polipi, zoofiti
ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)
“... resta
che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere
né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che
l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad
essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome
d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa
infelicità, segue che la vita, ossia
il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù
dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità,
onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)
“Riconosciuta
la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo
sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi,
universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da
questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto
in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie
o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo
possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista
nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura
loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.” (4186, 13/7/26)
6.
L’idea che la sofferenza degli esseri viventi sia proporzionale alla capacità di
sentire la vita, e sia quindi più intensa nelle forme di vita superiori, è
un’idea che si ritrova anche in Schopenhauer, con il conseguente corollario
che fra gli individui umani la
sofferenza sia proporzionale allo sviluppo dell’intelligenza:
Così Leopardi:
“Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno
sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi
i meno infelici degli stati umani.” (Zib.,
4186). E così Schopenhauer: “La più
elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di
ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).
7.
Che
sia una verità valida non solo per i
viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita,
abbiamo visto, nella chiusa del Canto notturno) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto
nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus
amoenus:
Non gli uomini
solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti
gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe,
di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno.
Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del
patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual
individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la
vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da
un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si
fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili
tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri
fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da
mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato
dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o
nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato
nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo
caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo
secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello
stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per
arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di
sanità perfetta… Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le
ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.… Certamente queste piante
vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora
con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere
qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in
questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un
soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino
è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se
questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.
(4175-77, 22/4/26)
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