Il pensiero di Leopardi: appendice
Così Leopardi si
ribella al pregiudizio (diffuso peraltro anche presso i contemporanei) secondo
cui sarebbero le sue personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero
radicalmente negativo:
“Quali che siano le mie
sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare, io ho
avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole
speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile
rassegnazione…. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato
condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad
abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo a causa della
debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore
dell’esistenza, che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il
risultato delle mie personali sofferenze e che ci si ostina ad attribuire alle
mie circostanze materiali, ciò che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di
morire, io voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della
volgarità, e pregare i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni
e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (dalla lettera
al De Sinner del 24/5/1832, in francese nell’originale)
Carlo Michelstaedter,
per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta (propria dell’esistere,
secondo Leopardi), sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da
Schopenhauer (Il mondo come volontà e
rappresentazione, Bari 1984, p. 176 e 408): quello del peso che, in quanto
tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non
sarebbe quello che è, cioè un peso:
“Un peso pende ad un
gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio,
poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo
liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del
più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in
nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il
prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno
dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita,
fintanto che lo aspetti, un punto più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni
punto gli sarà fatto vuoto di ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più
bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame del più
basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un
punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto
esso non sarebbe più quello che è: un peso.
La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di
niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito
di esistere.” (da C. Michelstaedter, La
persuasione e la rettorica, Milano
1982, pp. 39-40)
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