mercoledì 29 novembre 2017

Leopardi e Michelstaedter


Il pensiero di Leopardi: appendice



Così Leopardi si ribella al pregiudizio (diffuso peraltro anche presso i contemporanei) secondo cui sarebbero le sue personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo:



“Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione…. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo a causa della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie personali sofferenze e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e pregare i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (dalla lettera al De Sinner del 24/5/1832, in francese nell’originale)



Carlo Michelstaedter, per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta (propria dell’esistere, secondo Leopardi), sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1984, p. 176 e 408): quello del peso che, in quanto tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe quello che è, cioè un peso:

“Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti, un punto più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto di ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito di esistere.” (da C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 1982, pp. 39-40)


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