venerdì 26 gennaio 2018

Lucrezio: la passione d'amore (1)

L’insensatezza della passione d’amore, dal punto di vista dell'atto fisico
(De rerum natura, IV, vv.1058-1120)
L'amore è accettato come soddisfazione di un bisogno naturale (quello sessuale), ma è rifiutato come passione: allora, lo stesso atto fisico è visto, nella sua furia, come un vano tentativo, da parte dell'amante, di appropiarsi del corpo dell'amata. Un vano tentativo perché, per quanto si rinnovi, non può mai essere soddisfatto. E dunque l'amante è paragonabile a colui che, avendo sete mentre dorme, sogna di trovarsi in mezzo a un fiume e di bere a volontà, ma naturalmente la sua sete non si estingue.

Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen Amoris,
hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor
stillavit gutta et successit frigida cura;
nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen sunt
illius et nomen dulce obversatur ad auris.
sed fugitare decet simulacra et pabula amoris
absterrere sibi atque alio convertere mentem
et iacere umorem coniectum in corpora quaeque
nec retinere semel conversum unius amore
et servare sibi curam certumque dolorem;
ulcus enim vivescit et inveterascit alendo
inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,
si non prima novis conturbes volnera plagis
volgivagaque vagus Venere ante recentia cures
aut alio possis animi traducere motus.
Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit;
nam certe purast sanis magis inde voluptas
quam miseris; etenim potiundi tempore in ipso
fluctuat incertis erroribus ardor amantum
nec constat quid primum oculis manibusque fruantur.
quod petiere, premunt arte faciuntque dolorem
corporis et dentes inlidunt saepe labellis
osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas
et stimuli subsunt, qui instigant laedere id ipsum,
quod cumque est, rabies unde illaec germina surgunt.
sed leviter poenas frangit Venus inter amorem
blandaque refrenat morsus admixta voluptas.
namque in eo spes est, unde est ardoris origo,
restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
quod fieri contra totum natura repugnat;
unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,
tam magis ardescit dira cuppedine pectus.
nam cibus atque umor membris adsumitur intus;
quae quoniam certas possunt obsidere partis,
hoc facile expletur laticum frugumque cupido.
ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.

Traduzione

Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore,
di qui quella goccia della dolcezza di Venere stillò
prima nel cuore, e le susseguì il gelido affanno.
Infatti, se è assente l'oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti
le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie.
Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé
ciò che alimenta l'amore e volgere la mente ad altro oggetto
e spandere in altri corpi, quali che siano, l'umore raccolto,
e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all'amore
d'una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro dolore.
Giacché la piaga s'inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla,
e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s'aggrava,
se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi
vagando con Venere vagabonda mentre sono ancora fresche,
o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell'animo.
Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l'amore,
ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.
Giacché certo agli assennati ne viene un piacere più puro
che ai malati d'amore. Infatti nel momento stesso del possedere
fluttua ed erra incerto l'ardore degli amanti, né sanno
che cosa debbano prima godere con gli occhi e le mani.
Quel che hanno desiderato, lo premono strettamente, e fanno
male al corpo, e spesso infiggono i denti nelle labbra,
e urtano bocca con bocca nei baci, perché non è puro il piacere
e assilli occulti li stimolano a ferire l'oggetto stesso,
quale che sia, da cui sorgono quei germi di furore.
Ma lievemente attenua le pene Venere nell'atto di amore
e il carezzevole piacere, commisto, raffrena i morsi.
Giacché in ciò è la speranza: che dallo stesso corpo
da cui è nato l'ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma la natura oppone che ciò avviene tutto al contrario;
e questa è l'unica cosa per cui, quanto più ne possediamo,
tanto più il petto riarde d'una crudele brama.
Difatti cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra;
e poiché possono occupare determinate parti,
perciò la sete e la fame si saziano facilmente.
Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui
si possa godere, penetra nel corpo, tranne tenui simulacri,
che spesso trascinano la mente con una misera speranza.
Come quando in sogno un assetato cerca di bere e non gli è data
bevanda che nelle membra possa estinguere l'arsura,
ma a simulacri di acque aspira e invano si travaglia
e in mezzo a un fiume impetuoso bevendo patisce la sete,
così in amore Venere con simulacri illude gli amanti,
né possono saziare i propri corpi contemplando corpi pur vicini,
né sono in grado di strappar via qualcosa dalle tenere membra
con le mani errando incerti su per tutto il corpo.
E quando, alfine, congiunte le membra, si godono il fiore
di giovinezza, quando il corpo già presagisce il piacere,
e Venere è sul punto di effondere il seme nel femmineo campo,
s'avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell'altro corpo con tutto il corpo;
infatti sembra talora che vogliano farlo e che per questo lottino:
tanto ardentemente si tengono avvinti nelle strette di Venere,
finché le membra si sciolgono, sfinite dalla forza del piacere.
Infine, quando il desiderio costretto nei nervi ha trovato sfogo,
segue una piccola pausa dell'ardore violento, per poco.
Quindi torna la stessa rabbia, e di nuovo li invade quel furore,
quando essi stessi non sanno ciò che bramano ottenere,
né sono in grado di trovare che mezzo possa vincere quel male:
in tanta incertezza si consumano per una piaga nascosta.

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