venerdì 27 maggio 2022

Pascoli (V parte)

 

La poesia più bella e inquietante: Digitale purpurea

31) Infine, una delle poesie di Pascoli più belle e più suggestive, a mio giudizio; una poesia dove attraverso un simbolismo piuttosto trasparente emerge quella particolare sensibilità di Pascoli per l’eros, una sensibilità che alcuni hanno definito morbosa, altri fanciullesca; un eros che attrae con la sua dolcezza, ma che allo stesso tempo è respinto perchè inibito da divieti, dalla minaccia di pericoli mortali. Parlo di Digitale purpurea, tratta dai Primi poemetti. La digitale purpurea, per chi non lo sapesse, è una spiga di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline color rosso cupo. Racconta Mariù, la sorella di Pascoli, che in una parte del giardino del collegio che lei aveva frequentato da ragazza c’era questa pianta, dall’odore intenso e inebriante. La suora maestra aveva detto alle educande di non avvicinarsi mai a quel fiore perché quell’odore era velenoso e faceva morire. Questo mio racconto, dice sempre Mariù, ispirò a Giovanni il poemetto. “Il dialogo fra due ex compagne di convento, Maria e Rachele, è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma Rachele l’ha creata lui”. E appunto il poemetto è costruito immaginando che le due compagne di un tempo, la bionda Maria e la bruna Rachele, si incontrino e ricordino i tempi della loro adolescenza in collegio. Il testo è diviso in tre sezioni: nella prima c’è l’incontro fra le due compagne che ricordano i luoghi e i tempi del collegio; nella seconda, come in una sorta di flash back, Maria e Rachele si sentono quasi trasportate nel passato e rivedono quei tempi e quei luoghi; nella terza c’è la confessione di Rachele. Il metro è quello delle terzine dantesche:

32) Leggiamo la prima sezione:                I

Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,

l'altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono
. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni così dolci al cuore…»
L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»

«morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele
.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;

e l'una e l'altra guardano lontano.

Notate subito la contrapposizione fra le due donne: Maria, la bionda, è semplice di vesti / e di sguardi; Rachele, la bruna, è l’altra, cui seguono dei puntini di sospensione che alludono alla differenza rispetto a Maria, tant’è che i suoi sguardi non sono semplici, ma ha occhi ch’ardono (più oltre si dirà che ha occhi neri). L’opposizione fra donna bionda e donna bruna rimanda alla opposizione fra donna angelo e donna demonio; la bionda, con la semplicità del suo sguardo, è associata alla purezza verginale, la bruna che ha occhi che ardono evoca intensità di passione, sensualità morbosa

33) Segue la seconda sezione:

Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.

Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche…

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete…

Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l'alito ignoto spande di sua vita.

In quell’ambiente c’è un sentor d’innocenza e di mistero, e questi sono due sostantivi in contrasto, perché c’è l’innocenza delle litanie, dell’incenso, del bianco delle vesti, del libro buono che leggono, ma c’è anche il mistero che ha a che fare con le inquietudini delle ragazze, di cui loro stesse non capiscono bene la natura; sono i turbamenti dell’adolescenza, per cui le ragazze dopo l’incontro in parlatorio con un ospite caro (chissà, un parente, forse un cugino per il quale provano un’attrazione), tornano più rosse e liete alle camerate, e poi piangono senza un perché. Ma soprattutto, a contrasto con l’innocenza, e con le stesse ragazze chiamate agili e sane, compare all’improvviso nel finale quella spiga di fiori, malefici e ripugnanti, che sembrano dita / spruzzolate di sangue, dita umane

34) Quindi ecco l’ultima sezione, con la confessione di Rachele:

«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»

mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento
.

Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M'inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi
. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!»

Al momento del commiato, Rachele, senza osare di guardare in faccia l’amica (forse per vergogna), confessa di avere compiuto l’atto trasgressivo, di aver voluto sentire fino in fondo il profumo di quel fiore proibito. E il suo racconto è denso di riferimenti alla dolcezza del richiamo e poi al piacere dell’esperienza stessa di quel profumo. Tutti i dettagli evocano sensualità, a partire da quel languido fermento / d’un sogno che notturno arse (forse un sogno erotico, che all’alba si era spento, ma che aveva lasciato nell’ignara anima un turbamento che la spinge ad andare verso il fiore); c’è il vento che porta odor di rose e di viole a / ciocche, c’è la luce di baleni silenziosi, una luce che è sentita, per sinestesia, come un soffio che investe dolcemente la ragazza; c’è la leggerezza di lei (m’inoltrai leggiera) che cammina piedi nudi sull’erba umida (su per i molli terrapieni / erbosi) e i piedi che sono avviluppati dalla folta erba; quindi c’è il richiamo irresistibile (E dirmi sentia: Vieni! / Vieni!) e infine fu molta la dolcezza! Molta! Tanta, che, vedi… si muore.

35) Su questa conclusione, che associa la molta, tanta dolcezza alla morte, ci sono diverse interpretazioni. Il carattere ambiguo, allusivo, enigmatico di tale conclusione è certamente voluto da Pascoli. C’è chi nega l’associazione fra il profumo inebriante del fiore e l’erotismo e suggerisce invece l’esperienza delle droghe, per cui Rachele sarebbe diventata tossicomane fino ad ammalarsi (e i suoi occhi che ardono sarebbero il segnale di tale malattia) e sentirsi prossima alla morte. A me pare difficile escludere la carica di sensualità che si avverte nella confessione di Rachele, e quindi escludere l’associazione simbolica fra il profumo del fiore e l’esperienza del sesso. Tuttavia resta enigmatica quella conclusione, a cui io non so dare altra risposta che quella che rimanda alla particolare sensibilità di Pascoli, una sensibilità predisposta a sentire una vicinanza, direi quasi una sovrapposizione, fra eros e thanatos, fra l’amore e la morte.

 

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