venerdì 27 maggio 2022

Pascoli (IV parte)

 

L’ossessione della morte: L’assiuolo

23) Ripeto dunque un concetto fondamentale: quella che apparentemente è una poesia di piccole cose si rivela invece una poesia carica di simbolismi, fortemente allusiva, a volte inquietante. Ciò che sembra una semplice descrizione del mondo della campagna rimanda invece ad altro, alla solitudine e alla morte. La presenza dei morti è costante, come se nel mondo di Pascoliun mondo segnato, abbiamo visto, dalla morte violenta del padre e poi dalla perdita di altri famigliarinon ci fosse un confine, una separazione fra i vivi e i morti, bensì una contiguità, una compresenza. Se vogliamo immergerci in un testo per tanti versi esemplare, leggiamo L’assiuolo (per chi non lo sapesse l’assiuolo è un piccolo rapace notturno, simile al gufo) (metro: quartine doppie di settenari con un ultimo verso monosillabico):

Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla
,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...

Su tutte le lucide vette (le cime degli alberi illuminate dalla luna)
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili
porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
 

Nelle tre strofe c’è un ricorrente schema di contrapposizione fra una prima quartina, che propone immagini serene all’interno di un’atmosfera di attesa, e una seconda quartina gravida invece di suggestioni inquietanti, riferimenti alla morte (concentrati nel lugubre verso - il chiù - che chiude le strofe). Di strofa in strofa si avverte come un crescendo di angoscia, visto che quel chiù prima è chiamato “una voce dai campi”, poi “singulto”, infine “pianto di morte. In questo senso la terza strofa è esemplare, sia perché il verso dell’assiuolo è finalmente chiamato “pianto di morte”, sia perché l’immagine dei “finissimi sistri d’argento” (e la conseguente evocazione di “invisibili porte che forse non s’aprono più”) chiarisce inequivocabilmente l’angosciante sentimento di morte che pervade l’intera poesia (inequivocabilmente, pur con i modi pascoliani, fatti di allusioni misteriose, associazioni a-logiche - o pre-logiche - impressioni accostate e non spiegate discorsivamente). Il suono prodotto dalle cavallette è associato analogicamente ai sistri d’argento, che sono antichi strumenti egizi propri del culto misterico di Iside, formati da sottili lamine metalliche; il suono dei sistri prometteva la resurrezione dopo la morte, ma Pascoli avverte con angoscia quel suono, avverte che le “invisibili porte” della morte non si apriranno mai più.

24) L’atmosfera magica ed indefinita è creata da una serie di immagini analogiche (“alba di perla”, “soffi di lampi”, “nebbia di latte”, “cullare del mare”, ecc.), che, appunto per definizione, sottintendono ed elidono la logica argomentativa del paragone (esemplare quel “il cielo / notava in un’alba di perla”, che significa: il sorgere della luna è come un’alba, in cui si diffonde una luce chiara che ricorda il bianco della perla e che sembra invadere il cielo come un liquido - ove il cielo sembra nuotare; lo stesso vale per il verso delle cavallette, che ricorda il suono che fanno i sistri: ma il paragone è saltato, e si dice, con associazione immediata, che “squassavano le cavallette / finissimi sistri d’argento”). Di grande rilievo è anche il simbolismo fonico (o fonosimbolismo): l’allitterazione “nero di nubi”  evoca un’impressione minacciosa ed inquietante; lo stesso si può dire del fru fru tra le fratte” (allitterazione ed onomatopea); nei “finissimi sistri d’argento” il fonosimbolismo è scoperto, con l’insistenza sulle vocali dal suono sottile (sei ‘i’) e sulle sibilanti che intendono  riprodurre il verso delle cavallette (intenzione ripresa dai successivi “tintinni”  ed “invisibili”). Quanto alla struttura sintattica, la poesia è un affollarsi di sensazioni, accostate l’una all’altra sia attraverso la collocazione sistematica del verbo all’inizio del verso, sia attraverso un periodare rigorosamente paratattico (non vi è una struttura sintattica complessa, gerarchizzata secondo nessi logico-argomentativi, ovvero secondo ipotassi; i membri si succedono uno dopo l’altro, per accostamento; il reale si frantuma in impressioni isolate e il legame che le unisce non è logico, ma analogico, simbolico, allusivo, segreto).

L’ossessione della morte: Nebbia

25) Il pensiero della morte, un pensiero che attrae e fa paura allo stesso tempo, è ricorrente nella poesia di Pascoli. C’è una poesia, tratta dai Canti di Castelvecchio, che dietro l’apparente semplicità nasconde questo motivo della paura e dell’attrazione per la morte. Si intitola Nebbia (metro: strofe composte da quattro novenari, intervallati da un ternario e con un senario finale):

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l'alba,

da' lampi notturni e da' crolli,

d'aeree frane!

 

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch'è morto!

Ch'io veda soltanto la siepe

dell'orto,

la mura ch'ha piene le crepe

di valerïane.

 

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch'io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che danno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

 

Nascondi le cose lontane

Che vogliono ch'ami e che vada!

Ch'io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane...

 

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch'io veda il cipresso

là, solo,

qui, quest'orto, cui presso

sonnecchia il mio cane.

 

La nebbia è qui evocata come un muro che protegge la casa, il nido famigliare, dalle “cose lontane” (tutte le strofe cominciano con lo stesso verso: nascondi le cose lontane). Sono le cose lontane letteralmente nello spazio (come fa la nebbia), ma simbolicamente anche nel tempo, nel passato, che è il luogo dei lutti e della morte (nascondimi quello che è morto). Il poeta si sente rassicurato solo dalle cose vicine e presenti: la siepe dell’orto, le mura che han piene le crepe di valeriane, i due peschi, i due meli (notate ancora: la siepe e le mura, come la nebbia, sono elementi protettivi, che rinchiudono il nido, lo difendono dalla minaccia esterna, dall’indefinito lontano; non può non venire in mente il confronto con la siepe dell’Infinito leopardiano: quella siepe consentiva di lanciarsi con l’immaginazione nell’infinito al di là di essa, e in quell’infinito di naufragare con dolcezza; al contrario la siepe pascoliana deve proteggere da quell’infinito che fa paura, deve consentire di vedere soltanto ciò che è vicino, presente e concreto). Il male del mondo deve essere dimenticato, e questo dolce oblio è sottilmente evocato dalle valeriane che crescono sulle mura (alla valeriana è associata la proprietà di favorire il sonno, e quindi di sedare, di far dimenticare le ansie quotidiane), e altrettanto si può dire dei soavi lor mieli, ovvero dalle marmellate che il poeta si propone di ottenere dai peschi e dai meli dell’orto. La paura del mondo esterno, oltre la siepe e oltre la nebbia, è ribadita nella quarta strofa: nascondi le cose lontane / che vogliono ch'ami e che vada!.Andare e “amare” sono i due verbi che significano uscire dal nido e affrontare il mondo esterno, pur a rischio del dolore e del pianto.

26) Ma infine ecco la conclusione, per certi versi inaspettata: il vero oblio sarà solo al cimitero, nel sonno della morte. Io voglio vedere, dice il poeta, oltre alle cose vicine, alle cose del mio orto protetto dalla siepe, solo quel bianco di strada, la strada che conduce al cimitero, solo il cipresso (pianta cimiteriale, evocativa della morte): solo queste cose, oltre quest’orto, cui presso / sonnecchia il mio cane. Il cane di Pascoli si chiamava Gulì, ed anche lui, in questo contesto, sembra evocare la morte. Il cane, nella classicità, è il custode dell’oltretomba, è Cerbero che sta al confine fra il regno dei vivi e il regno dei morti; nel mondo egizio è Anubi, che accompagna nell’oltetomba l’anima del defunto.

Eros e thanatos: Il gelsomino notturno

27) Vediamo ora un’altra poesia, sempre tratta dai Canti di Castelvecchio, una poesia dove il motivo di thanatos, della morte, si fonde e confonde con quello di eros, della vita: Il gelsomino notturno:

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
     Sono apparse in mezzo ai viburni (arbusti dai fiori bianchi)
     le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
     Sotto l’ali dormono i nidi,
     come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
     Splende un lume là nella sala.
     Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
     La Chioccetta per l’aia azzurra
     va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
     Passa il lume su per la scala;
     brilla al primo piano: s’è spento...

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
     dentro l’urna molle e segreta,
     non so che felicità nuova.

Composto – come ci dice lo stesso autore in un nota – per le nozze dell’amico Gabriele Briganti, si tratta di un epitalamio, che celebra, in modi simbolici ed allusivi, l’atto amoroso che si compie fra i due sposi e che porta al concepimento del piccolo Dante Gabriele Giovanni. Il trasparente simbolismo proposto è quello del fiore che apre i suoi petali sul far della sera, esala un profumo penetrante per tutta la notte e si dispone quindi al processo di fecondazione che al mattino è compiuto (nel calice “si cova non so che felicità nova”). Parallelamente, il processo di fecondazione si compie anche nella casa, come viene indicato da una serie di immagini allusive (la casa che “bisbiglia”, il lume che si spegne “al primo piano”). Ma è un epitalamio moderno, in quanto quell’evento notturno, invece di risolversi in un inno gioioso alla fecondità, è osservato dal poeta con turbamento ed è associato a riferimenti inquietanti. Tali sono i riferimenti al mondo dei morti (v. 2: nell’ora che penso ai miei cari; v. 12: nasce l’erba sopra le fosse; e ancora, inaspettatamente, v. 23, dove l’urna, elemento funerario, diventa metafora del ventre femminile; ma anche, secondo alcuni, al v. 4, in quanto le farfalle crepuscolari, che pure contribuiscono alla fecondazione dei fiori, hanno sul dorso una macchia a forma di teschio); ma tali sono anche i riferimenti ricorrenti al nido (v. 7: sotto l’ali dormono i nidi; vv. 13-14: un’ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle; v. 16: la Chioccetta va col suo pigolio di stelle), un nido da cui il poeta si sente escluso (è lui stesso l’ape tardiva che trova già prese le celle), come si sente escluso dal rito di fecondazione che si compie nella casa: non a caso è sottolineata, attraverso la ripetizione insistita dell’avverbio “, la collocazione esterna rispetto alla casa del poeta che osserva (v. 6: là sola una casa bisbiglia; v. 11: splende un lume là nella sala).

28) Bisognerà concludere che i sentimento di estraneità rispetto a quel nido induce il poeta a rifugiarsi nell’unico nido da lui conosciuto, quello della sua infanzia al quale è rimasto bloccato, quello traumaticamente distrutto, ma che continua ad esistere nella memoria dei suoi cari defunti. La componente erotica associata all’evento nuziale è avvertita dalla sensibilità fanciullesca del poeta (mai giunta, come sappiamo, ad una esperta maturità da questo punto di vista; e proprio perciò ricca delle inquietudini e dei turbamenti propri del fanciullo) ed è comunicata sia con l’insistere sulle intense sensazioni olfattive e cromatiche (esemplare l’odore di fragole rosse, in cui il colore rosso - che richiama la passionalità, la carica sensuale - è associato sinesteticamente all’odore dolce delle fragole, che parimenti evoca sensualità) sia con il riferimento (appena accennato, ma ben riconoscibile) alla violenza insista nell’atto (i petali / un poco gualciti).

29) Dal punto di vista formale, colpisce la struttura assolutamente paratattica del componimento. La narrazione procede per giustapposizione di immagini, che si affiancano l’una all’altra senza alcuna articolazione gerarchica, ma secondo quella immediata intuizione analogica che è propria del “fanciullino”: si vedano, ad esempio, le sequenze dalla seconda alla quarta strofa, dove il piccolo è associato al grande (l’ape al cielo stellato), la vita alla morte (il lume acceso nella casa alle fosse dei cimiteri), e dove risalta quel paragone surreale fra i nidi che dormono sotto le ali e gli occhi sotto le ciglia. 

30) Dal punto di vista metrico, si nota che i primi due novenari di ogni strofa hanno il primo accento in seconda sede (e dunque un ritmo discendente), i secondi due hanno il primo accento in terza sede (con ritmo ascendente). Tale bipartizione ritmica ha il suo corrispondente anche sintattico, perché il secondo verso della strofa si chiude sempre con un punto fermo. Ma a questo schema si sottrae l’ultima strofa, sulla quale evidentemente si vuole attirare l’attenzione (l’atto si è compiuto, il concepimento è avvenuto): i primi due versi sono spezzati dalla punteggiatura interna e forti enjambement segnano i passaggi nei primi tre versi (il primo dei quali è messo in ulteriore evidenza dalla rima ipermetra petali – segreta). 

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