L’ossessione della morte: L’assiuolo
23) Ripeto dunque un
concetto fondamentale: quella
che apparentemente è una poesia di piccole cose si rivela invece una poesia
carica di simbolismi, fortemente allusiva, a volte inquietante. Ciò che
sembra una semplice descrizione del mondo della campagna rimanda invece ad
altro, alla solitudine e alla morte. La
presenza dei morti è costante, come se nel mondo di Pascoli – un mondo
segnato, abbiamo visto, dalla morte violenta del padre e poi dalla perdita di
altri famigliari – non ci fosse un
confine, una separazione fra i vivi e i morti, bensì una contiguità, una
compresenza. Se vogliamo immergerci in un testo per tanti versi
esemplare, leggiamo L’assiuolo (per
chi non lo sapesse l’assiuolo è un piccolo rapace notturno, simile al gufo) (metro: quartine doppie di settenari con un ultimo verso monosillabico):
Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
Su tutte le lucide vette (le cime degli alberi illuminate dalla luna)
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Nelle tre strofe c’è un ricorrente schema di
contrapposizione fra una prima quartina, che propone immagini serene
all’interno di un’atmosfera di attesa, e una seconda quartina gravida invece di
suggestioni inquietanti, riferimenti alla morte (concentrati nel lugubre verso
- il chiù - che chiude le strofe). Di strofa in strofa si avverte
come un crescendo di angoscia, visto che quel chiù prima è chiamato “una voce
dai campi”, poi “singulto”,
infine “pianto di morte”. In
questo senso la terza strofa è esemplare, sia perché il verso dell’assiuolo è finalmente chiamato
“pianto di morte”, sia perché l’immagine dei “finissimi sistri
d’argento” (e la conseguente evocazione di “invisibili porte che forse
non s’aprono più”) chiarisce inequivocabilmente l’angosciante sentimento di
morte che pervade l’intera poesia (inequivocabilmente, pur con i modi pascoliani, fatti di allusioni
misteriose, associazioni a-logiche - o pre-logiche - impressioni accostate e
non spiegate discorsivamente). Il suono prodotto dalle cavallette è
associato analogicamente ai sistri
d’argento, che sono antichi strumenti egizi propri del culto misterico di
Iside, formati da sottili lamine metalliche; il suono dei sistri prometteva la resurrezione dopo la morte,
ma Pascoli avverte con angoscia quel suono, avverte che le “invisibili
porte” della morte non si apriranno mai più.
24) L’atmosfera magica ed indefinita è creata da una
serie di immagini analogiche (“alba di perla”, “soffi di lampi”,
“nebbia di latte”, “cullare del mare”, ecc.), che, appunto per definizione,
sottintendono ed elidono la logica argomentativa del paragone (esemplare
quel “il cielo / notava in un’alba di perla”, che significa: il sorgere
della luna è come un’alba, in cui si diffonde una luce chiara che ricorda il
bianco della perla e che sembra invadere il cielo come un liquido - ove il
cielo sembra nuotare; lo stesso vale per il verso delle cavallette, che ricorda
il suono che fanno i sistri: ma il paragone è saltato, e si dice, con
associazione immediata, che “squassavano le cavallette / finissimi sistri
d’argento”). Di grande rilievo è anche il simbolismo fonico (o
fonosimbolismo): l’allitterazione “nero di nubi” evoca
un’impressione minacciosa ed inquietante; lo stesso si può dire del “fru fru tra le fratte” (allitterazione ed onomatopea); nei “finissimi sistri d’argento”
il fonosimbolismo è scoperto, con l’insistenza sulle vocali dal suono
sottile (sei ‘i’) e sulle sibilanti che intendono
riprodurre il verso delle cavallette (intenzione ripresa dai successivi “tintinni”
ed “invisibili”). Quanto alla struttura sintattica, la poesia è
un affollarsi di sensazioni, accostate l’una all’altra sia attraverso la collocazione
sistematica del verbo all’inizio del verso, sia attraverso un periodare
rigorosamente paratattico (non vi è una struttura sintattica
complessa, gerarchizzata secondo nessi logico-argomentativi, ovvero secondo
ipotassi; i membri si succedono uno dopo l’altro, per accostamento; il reale si frantuma in impressioni
isolate e il legame che le unisce non è logico, ma analogico, simbolico,
allusivo, segreto).
L’ossessione della morte: Nebbia
25) Il pensiero della morte, un pensiero che attrae e fa paura allo stesso tempo, è ricorrente nella poesia di Pascoli. C’è una poesia, tratta dai Canti di Castelvecchio, che dietro l’apparente semplicità nasconde questo motivo della paura e dell’attrazione per la morte. Si intitola Nebbia (metro: strofe composte da quattro novenari, intervallati da un ternario e con un senario finale):
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli,
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valerïane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
La nebbia è qui evocata come un muro che protegge la casa, il nido famigliare,
dalle “cose lontane” (tutte le strofe cominciano con lo stesso verso: nascondi le cose lontane). Sono le
cose lontane letteralmente nello spazio (come fa la nebbia), ma simbolicamente
anche nel tempo, nel passato, che è il luogo dei lutti e della morte (nascondimi quello che è morto). Il poeta
si sente rassicurato solo dalle cose vicine e presenti: la siepe dell’orto, le mura che
han piene le crepe di valeriane, i due peschi, i due meli (notate ancora:
la siepe e le mura, come la nebbia, sono elementi protettivi, che rinchiudono
il nido, lo difendono dalla minaccia esterna, dall’indefinito lontano; non può
non venire in mente il confronto con
la siepe dell’Infinito leopardiano:
quella siepe consentiva di lanciarsi con
l’immaginazione nell’infinito al di là di essa, e in quell’infinito di
naufragare con dolcezza; al contrario la
siepe pascoliana deve proteggere da quell’infinito che fa paura, deve
consentire di vedere soltanto ciò che è vicino, presente e concreto). Il male del mondo deve essere dimenticato,
e questo dolce oblio è sottilmente
evocato dalle valeriane che crescono
sulle mura (alla valeriana è associata la proprietà di favorire il sonno, e
quindi di sedare, di far dimenticare le ansie quotidiane), e altrettanto si può dire dei soavi
lor mieli, ovvero dalle marmellate che il poeta si propone di ottenere dai
peschi e dai meli dell’orto. La paura del mondo esterno, oltre la siepe e
oltre la nebbia, è ribadita nella quarta strofa: nascondi le cose lontane / che vogliono ch'ami e che vada!. “Andare e “amare” sono i due
verbi che significano uscire dal nido e affrontare il mondo esterno, pur a
rischio del dolore e del pianto.
26) Ma infine ecco la conclusione, per certi versi inaspettata: il vero oblio sarà
solo al cimitero, nel sonno della morte. Io voglio vedere, dice il poeta, oltre
alle cose vicine, alle cose del mio orto protetto dalla siepe, solo
quel bianco di strada, la strada che conduce al cimitero, solo il cipresso
(pianta cimiteriale, evocativa della morte): solo queste cose, oltre quest’orto, cui presso / sonnecchia il
mio cane. Il cane di Pascoli si chiamava Gulì, ed anche lui, in questo
contesto, sembra evocare la morte. Il cane, nella classicità, è il custode
dell’oltretomba, è Cerbero che sta al confine fra il regno dei vivi e il regno
dei morti; nel mondo egizio è Anubi, che accompagna nell’oltetomba l’anima del
defunto.
Eros e thanatos: Il gelsomino
notturno
27) Vediamo ora un’altra poesia, sempre tratta dai Canti di Castelvecchio, una poesia dove
il motivo di thanatos, della morte, si fonde e confonde con quello di eros,
della vita: Il gelsomino notturno:
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in
mezzo ai viburni (arbusti dai fiori bianchi)
le farfalle
crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali
dormono i nidi,
come gli occhi
sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là
nella sala.
Nasce l’erba sopra
le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per
l’aia azzurra
va col suo pigolio
di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento...
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Composto – come ci dice lo stesso autore in un nota – per le nozze dell’amico Gabriele Briganti, si tratta di un epitalamio, che celebra, in modi simbolici ed allusivi, l’atto amoroso che si compie fra i due sposi e che porta al concepimento del piccolo Dante Gabriele Giovanni. Il trasparente simbolismo proposto è quello del fiore che apre i suoi petali sul far della sera, esala un profumo penetrante per tutta la notte e si dispone quindi al processo di fecondazione che al mattino è compiuto (nel calice “si cova non so che felicità nova”). Parallelamente, il processo di fecondazione si compie anche nella casa, come viene indicato da una serie di immagini allusive (la casa che “bisbiglia”, il lume che si spegne “al primo piano”). Ma è un epitalamio moderno, in quanto quell’evento notturno, invece di risolversi in un inno gioioso alla fecondità, è osservato dal poeta con turbamento ed è associato a riferimenti inquietanti. Tali sono i riferimenti al mondo dei morti (v. 2: nell’ora che penso ai miei cari; v. 12: nasce l’erba sopra le fosse; e ancora, inaspettatamente, v. 23, dove l’urna, elemento funerario, diventa metafora del ventre femminile; ma anche, secondo alcuni, al v. 4, in quanto le farfalle crepuscolari, che pure contribuiscono alla fecondazione dei fiori, hanno sul dorso una macchia a forma di teschio); ma tali sono anche i riferimenti ricorrenti al nido (v. 7: sotto l’ali dormono i nidi; vv. 13-14: un’ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle; v. 16: la Chioccetta va col suo pigolio di stelle), un nido da cui il poeta si sente escluso (è lui stesso l’ape tardiva che trova già prese le celle), come si sente escluso dal rito di fecondazione che si compie nella casa: non a caso è sottolineata, attraverso la ripetizione insistita dell’avverbio “là”, la collocazione esterna rispetto alla casa del poeta che osserva (v. 6: là sola una casa bisbiglia; v. 11: splende un lume là nella sala).
28) Bisognerà concludere che i sentimento di estraneità
rispetto a quel nido induce il poeta a rifugiarsi nell’unico nido da
lui conosciuto, quello della sua infanzia al quale è rimasto bloccato,
quello traumaticamente distrutto, ma che continua ad esistere nella memoria dei
suoi cari defunti. La componente erotica associata all’evento nuziale è
avvertita dalla sensibilità fanciullesca del poeta (mai giunta, come
sappiamo, ad una esperta maturità da questo punto di vista; e proprio perciò
ricca delle inquietudini e dei turbamenti propri del fanciullo) ed è comunicata sia con l’insistere
sulle intense sensazioni olfattive
e cromatiche (esemplare l’odore di fragole rosse, in
cui il colore rosso - che richiama la passionalità, la carica sensuale
- è associato sinesteticamente all’odore dolce delle fragole, che
parimenti evoca sensualità) sia con il
riferimento (appena accennato, ma ben riconoscibile) alla violenza insista
nell’atto (i petali / un poco gualciti).
29) Dal punto di vista formale, colpisce la struttura assolutamente paratattica del componimento. La narrazione procede per giustapposizione di immagini, che si affiancano l’una all’altra senza alcuna articolazione gerarchica, ma secondo quella immediata intuizione analogica che è propria del “fanciullino”: si vedano, ad esempio, le sequenze dalla seconda alla quarta strofa, dove il piccolo è associato al grande (l’ape al cielo stellato), la vita alla morte (il lume acceso nella casa alle fosse dei cimiteri), e dove risalta quel paragone surreale fra i nidi che dormono sotto le ali e gli occhi sotto le ciglia.
30) Dal punto
di vista metrico, si nota che i primi due novenari di ogni strofa hanno il
primo accento in seconda sede (e dunque un ritmo discendente), i secondi due
hanno il primo accento in terza sede (con ritmo ascendente). Tale
bipartizione ritmica ha il suo corrispondente anche sintattico, perché il
secondo verso della strofa si chiude sempre con un punto fermo. Ma a questo
schema si sottrae l’ultima strofa, sulla quale evidentemente si vuole attirare
l’attenzione (l’atto si è compiuto, il concepimento è avvenuto): i primi due
versi sono spezzati dalla punteggiatura interna e forti enjambement segnano i
passaggi nei primi tre versi (il primo dei quali è messo in ulteriore evidenza
dalla rima ipermetra petali – segreta).
Nessun commento:
Posta un commento