L’attrazione per l’eros:
Tancredi e Clorinda
26) Lo stesso contrasto, la
stessa conflittualità interna, si può avvertire fra un sincero anelito
religioso e un altrettanto sincera attrazione per ciò che è sensuale, una
raffinata sensibilità per l’erotismo. Questo si vede già nella favola pastorale
(l’Aminta), ma si ritrova in alcune ottave della Liberata. Fra le
altre, a me sembrano particolarmente
rivelatrici quelle che descrivono l’innamoramento di Tancredi per Clorinda e
infine il loro duello mortale. Prima di leggerle, bisognerà dire qualcosa
sui due personaggi. Clorinda è una valorosa guerriera pagana, che però, con
elmo ed armatura, sembra un uomo. E’ stata addestrata come un guerriero, ed è
stata educata nella religione musulmana, non sa di essere figlia di una madre
cristiana che l’avrebbe voluta cristiana, lo scoprirà solo prima del duello
fatale. Tancredi se ne è innamorato perdutamente quando l’ha vista un giorno
sulla riva di un fiume dove si era tolta l’elmo per rinfrescare la faccia:
Quivi a lui d'improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
era pagana, e là venuta anch'ella
per l'istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
già grande vola, e già trionfa armato.
Ella d'elmo coprissi, e se non era
ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.
Partì dal vinto suo la donna altera,
ch'è per necessità sol fuggitiva;
ma l'imagine sua bella e guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
in che la vide, esca continua al foco.
Il secondo incontro
27) L’aveva poi incontrata di nuovo, nel furore di
una battaglia, e anche allora un colpo le aveva fatto saltare l’elmo e Tancredi
non aveva avuto più la forza di combattere, anzi le aveva dichiarato il suo
amore, lasciandola interdetta:
Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
Va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferirsi alle visiere, e i tronchi in alto
Volaro, e parte nuda ella ne resta:
Chè, rotti i laccj all’elmo suo, d’un salto
(Mirabil colpo!) ei le balzò di testa:
E le chiome dorate al vento sparse,
Giovane donna in mezzo ’l campo apparse.
Lampeggiar gli occhj, e folgorar gli sguardi
Dolci nell’ira, or che sarian nel riso?
Tancredi, a chè pur pensi? a chè pur guardi?
Non riconosci tu l’amato viso?
Quest’è pur quel bel volto, onde tutt’ardi:
Tuo core il dica, ov’è il suo esempio inciso:
Questa è colei che rinfrescar la fronte
Vedesti già nel solitario fonte.
Ei ch’al
cimiero, ed al dipinto scudo
Non badò prima, or, lei veggendo, impetra.
Ella, quanto può meglio, il capo ignudo
Si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e ruota il ferro crudo;
Ma però da lei pace non impetra;
Che minacciosa il segue, e volgi, grida:
E di due morti in un punto lo sfida.
Percosso
il cavalier non ripercote;
Nè sì dal ferro a riguardarsi attende,
Come a guardar i begli occhj e le gote,
Ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sè dicea: “van le percosse vote
Talor che la sua destra armata scende:
Ma colpo mai del bello ignudo volto
Non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto”.
Risolve
alfin, benchè pietà non spere,
Di non morir, tacendo, occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere
Già inerme, e supplichevole e tremante.
Onde le dice: “o tu che mostri avere
Per nemico me sol fra turbe tante,
Usciam di questa mischia; ed in disparte
Io potrò teco, e tu meco provarte.
Così me’
si vedrà s’al tuo s’agguaglia
Il mio valore”; ella accettò l’invito:
E come esser senz’elmo a lei non caglia,
Gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
Già la Guerriera, e già l’avea ferito;
Quand’egli, “or ferma, disse; e siano fatti
Anzi la pugna della pugna i patti”.
Fermossi, e lui di pauroso audace
Rendè in quel punto il disperato amore.
“I patti sian, dicea, poichè tu pace
Meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace
Ch’egli più viva, volontario more.
È tuo gran tempo: e tempo è ben che trarlo
Omai tu debba; e non debb’io vietarlo:
Ecco, le
braccia inchino, e t’appresento
Senza difesa il petto: or che nol fiedi?
Vuoi ch’agevoli l’opra? io son contento
Trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi”.
Distinguea forse in più duro lamento
I suoi dolori il misero Tancredi;
Ma calca l’impedisce intempestiva
De’ Pagani e de’ suoi che soprarriva.
Cedean cacciati dallo stuol Cristiano
I Palestini, o sia temenza od arte.
Un de’ persecutori, uomo inumano,
Videle sventolar le chiome sparte,
E da tergo in passando, alzò la mano
Per ferir lei ne la sua ignuda parte;
Ma Tancredi gridò, che se n’accorse,
E con la spada a quel gran colpo accorse.
Pur non
gì tutto invano, e ne’ confini
Del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
Rosseggiaron così d’alquante stille,
Come rosseggia l’or che di rubini
Per man d’illustre artefice sfaville.
Ma il Prence infuriato, allor si spinse
Addosso a quel villano, e ’l ferro strinse.
Quel si
dilegua, e questi acceso d’ira
Il segue; e van come per l’aria strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
Lontani molto, nè seguir le cale:
Ma co’ suoi fuggitivi si ritira;
Talor mostra la fronte, e i Franchi assale:
Or si volge, or rivolge, or fugge, or fuga;
Nè si può dir la sua caccia, nè fuga.
28) Notate come lei rimanga interdetta per le
parole e per il comportamento di Tancredi: ascolta,
incredula, la dichiarazione d’amore di Tancredi e poi, come stordita,
subisce le vicende seguenti (è salvata da Tancredi, che devia un colpo
a lei diretto; ferita di striscio, osserva “sospesa” Tancredi che
insegue l’assalitore) e, vieppiù, quando si ritira coi suoi (il suo fuggire e
poi voltarsi contro il nemico è, sì, una
tattica di combattimento, ma è anche il segno di una perplessità esistenziale,
messa in moto da quelle inaspettate parole d’amore). E notate come
ripetutamente compaia il richiamo alla
nudità (per ben cinque volte): del capo o del collo di lei (una volta del
petto di lui), ma è uno svelamento della
natura femminile che porta con sé trasparenti implicazioni sensuali. Ed
anche il sangue che riga il
collo di lei e schizza sui suoi capelli biondi non evoca orrore, ma qualcosa di piacevole, visto il
paragone che descrive l’immagine: “ne’ confini /
del bianco collo il bel capo ferille. / Fu levissima piaga, e i biondi crini /
rosseggiaron così d’alquante stille, / come rosseggia l’or che di rubini / per
man d’illustre artefice sfaville.”
Il duello finale
29) Qualcuno ha parlato di un destino
larvale di Clorinda, nel senso che la
educazione virile che ha ricevuto, il suo indossare l’armatura, costituiscono
una sorta di scorza che copre e nasconde la sua vera natura che è femminile.
Ma è nel duello finale con Tancredi che questa scorza è destinata a rompersi, la
larva si schiude e Clorinda si rivela pienamente donna.
30) Insieme ad Argante, un valoroso guerriero pagano, Clorinda è uscita
da Gerusalemme assediata e ha dato fuoco alla torre di legno che i crociati
hanno costruito per assaltare le mura della città. Dopo l’azione Argante riesce
a rientrare dentro le mura, Clorinda invece, trattenuta in uno scontro con un
guerriero cristiano, trova chiuse le porte; Tancredi la vede, non la riconosce
perché per l’occasione non indossa la sua solita armatura, la insegue e la
affronta in duello. E’ un duello feroce, senza risparmio di colpi:
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui
sua virtú si paragone.
Va girando
colei l’alpestre cima
verso altra
porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli
impetuoso, onde assai prima
che giunga,
in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si
volge e grida: "O tu, che porte,
che corri
sí?" Risponde: "E guerra e morte."
"Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto
darlati, se
la cerchi", e ferma attende.
Non vuol
Tancredi, che pedon veduto
ha il suo
nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna
l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza
l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a
ritrovar non altrimenti
che duo tori
gelosi e d’ira ardenti.
(….)
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor,
né qui destrezza ha parte.
Non danno i
colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie
l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade
orribilmente urtarsi
a mezzo il
ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il
piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende
taglio in van, né punta a vòto.
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la
vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre
al ferir, sempre a la fretta
stimol novo
s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or
piú si mesce e piú ristretta
si fa la
pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’
pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con
gli elmi insieme e con gli scudi.
Tre volte
il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed
altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al
ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte
piaghe; e stanco ed anelante
e questi e
quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo
faticar respira.
A questo punto Tancredi rompe il silenzio e chiede all’avversario, che sta
battendosi così valorosamente, di rivelargli il suo nome.
Risponde la feroce: "Indarno chiedi
quel c’ho
per uso di non far palese.
Ma chiunque
io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei
due che la gran torre accese."
Arse di
sdegno a quel parlar Tancredi,
e: "In
mal punto il dicesti"; indi riprese
"il tuo
dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro
discortese, a la vendetta."
Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché
debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in
bando, u’ già la forza è morta,
ove, in
vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che
sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e
l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e
ne le carni! e se la vita
non esce,
sdegno tienla al petto unita.
(…)
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver
di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di
punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido
beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già
sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e
languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine
minacciando incalza e preme.
Ella, mentre
cadea, la voce afflitta
movendo,
disse le parole estreme;
parole ch’a
lei novo un spirto ditta,
spirto di
fé, di carità, di speme:
virtú ch’or
Dio le infonde, e se rubella
in vita fu,
la vuole in morte ancella.
"Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora,
al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí;
deh! per lei prega, e dona
battesmo a
me ch’ogni mia colpa lave."
Tancredi si
precipita ad un vicino ruscello, riempie d’acqua l’elmo e torna per battezzare
Clorinda morente. Le toglie l’elmo e naturalmente la riconosce. Si fa forza per
non svenire e la battezza. Lei muore e anche lui perde i sensi (anche lui ha
perso molto sangue nel duello). Morirebbe, se non fosse che passa una pattuglia
di Franchi e lo porta in salvo.
Il duello si
configura, a tratti, come un abbraccio, dietro i due guerrieri si intravedono i
due amanti (Tre
volte il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia; ed altrettante /
da que’ nodi tenaci ella si scinge; / nodi di fer nemico, e non d’amante: si noti il contrasto fra l’irruenza
maschile di lui e l’eleganza muliebre di lei che “si scinge”).
Infine, nell’ottava che descrive il colpo mortale si attua lo
scioglimento-rivelazione (Spinge egli il ferro nel bel sen di punta / che vi
s’immerge e ‘l sangue avido beve; / e la veste, che d’or vago trapunta / le
mammelle stringea tenera e leve, / l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente /
morirsi, e ‘l pié le manca egro e languente). Non vediamo più la corazza,
il rivestimento militare di Clorinda, ma la veste “tenera e leve”, “d’or
vago trapunta”; né vediamo le membra indurite, cui si accennava nella
presentazione, ma il “bel seno”, “le
mammelle” su cui aderisce, leggera e trasparente, la sottoveste. Di contro,
la violenza del “ferro”, che viene “spinto” “di punta” e
che fa sì che sgorghi un “caldo fiume” di sangue: nell’atto in cui si
squarcia la larva d’acciaio, il destino
di donna di Clorinda si realizza nell’immagine dell’evento nuziale. La
metamorfosi si compie nel momento della morte, ma l’atto che dà la morte è, in maniera trasparente, l’atto coniugale (tutti gli elementi vi alludono: la
durezza del ferro che trafigge, la tenerezza delle membra di lei, il caldo
fiume, il languore finale: la violenza trapassa in raffinato erotismo)
La sensualità di
Armida e quella di Clorinda
31) Elementi di erotismo si possono trovare anche in
altri episodi, elementi a volte sottintesi, magari nascosti dietro i buoni
sentimenti, come nell’episodio di Olindo e Sofronia, a volte invece espliciti,
come nell’episodio di Rinaldo sedotto e soggiogato da Armida nelle isole
Fortunate. Ma Armida è una maga
incantatrice, che ha il compito di sedurre i cavalieri cristiani perché
dimentichino il loro dovere di liberare il santo sepolcro. Dunque la sua
sensualità è assolutamente peccaminosa, il male a cui ci si deve sottrarre, il
negativo demoniaco che si oppone alla volontà di Dio e che quindi sarà
sconfitto. Ma nel caso di Clorinda la sensualità emerge inaspettata,
involontaria, non è opera del male, perché Clorinda ha buoni sentimenti, è
sì pagana, ma per errore, tant’è che alla fine chiede il battesimo; ciò
nonostante la sensualità è sempre
peccaminosa, perché confligge con il dovere religioso, dunque sarà in qualche
modo camuffata, allusa, lasciata intravvedere, a testimonianza, ancora una volta, della doppiezza della coscienza di
Tasso.
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