martedì 14 gennaio 2020

I tormenti di Tasso (V parte)


L’attrazione per l’eros: Tancredi e Clorinda

26) Lo stesso contrasto, la stessa conflittualità interna, si può avvertire fra un sincero anelito religioso e un altrettanto sincera attrazione per ciò che è sensuale, una raffinata sensibilità per l’erotismo. Questo si vede già nella favola pastorale (l’Aminta), ma si ritrova in alcune ottave della Liberata. Fra le altre, a me sembrano particolarmente rivelatrici quelle che descrivono l’innamoramento di Tancredi per Clorinda e infine il loro duello mortale. Prima di leggerle, bisognerà dire qualcosa sui due personaggi. Clorinda è una valorosa guerriera pagana, che però, con elmo ed armatura, sembra un uomo. E’ stata addestrata come un guerriero, ed è stata educata nella religione musulmana, non sa di essere figlia di una madre cristiana che l’avrebbe voluta cristiana, lo scoprirà solo prima del duello fatale. Tancredi se ne è innamorato perdutamente quando l’ha vista un giorno sulla riva di un fiume dove si era tolta l’elmo per rinfrescare la faccia:

Quivi a lui d'improviso una donzella

tutta, fuor che la fronte, armata apparse:

era pagana, e là venuta anch'ella

per l'istessa cagion di ristorarse.

Egli mirolla, ed ammirò la bella

sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.

Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,

già grande vola, e già trionfa armato.



Ella d'elmo coprissi, e se non era

ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.

Partì dal vinto suo la donna altera,

ch'è per necessità sol fuggitiva;

ma l'imagine sua bella e guerriera

tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;

e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco

in che la vide, esca continua al foco.



Il secondo incontro



27) L’aveva poi incontrata di nuovo, nel furore di una battaglia, e anche allora un colpo le aveva fatto saltare l’elmo e Tancredi non aveva avuto più la forza di combattere, anzi le aveva dichiarato il suo amore, lasciandola interdetta:



Clorinda intanto ad incontrar l’assalto

Va di Tancredi, e pon la lancia in resta.

Ferirsi alle visiere, e i tronchi in alto

Volaro, e parte nuda ella ne resta:

Chè, rotti i laccj all’elmo suo, d’un salto

(Mirabil colpo!) ei le balzò di testa:

E le chiome dorate al vento sparse,

Giovane donna in mezzo ’l campo apparse.



     Lampeggiar gli occhj, e folgorar gli sguardi

Dolci nell’ira, or che sarian nel riso?

Tancredi, a chè pur pensi? a chè pur guardi?

Non riconosci tu l’amato viso?

Quest’è pur quel bel volto, onde tutt’ardi:

Tuo core il dica, ov’è il suo esempio inciso:

Questa è colei che rinfrescar la fronte

Vedesti già nel solitario fonte.



     Ei ch’al cimiero, ed al dipinto scudo

Non badò prima, or, lei veggendo, impetra.

Ella, quanto può meglio, il capo ignudo

Si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.

Va contra gli altri, e ruota il ferro crudo;

Ma però da lei pace non impetra;

Che minacciosa il segue, e volgi, grida:

E di due morti in un punto lo sfida.



     Percosso il cavalier non ripercote;

Nè sì dal ferro a riguardarsi attende,

Come a guardar i begli occhj e le gote,

Ond’Amor l’arco inevitabil tende.

Fra sè dicea: “van le percosse vote

Talor che la sua destra armata scende:

Ma colpo mai del bello ignudo volto

Non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto”.



     Risolve alfin, benchè pietà non spere,

Di non morir, tacendo, occulto amante.

Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere

Già inerme, e supplichevole e tremante.

Onde le dice: “o tu che mostri avere

Per nemico me sol fra turbe tante,

Usciam di questa mischia; ed in disparte

Io potrò teco, e tu meco provarte.



     Così me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia

Il mio valore”; ella accettò l’invito:

E come esser senz’elmo a lei non caglia,

Gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.

Recata s’era in atto di battaglia

Già la Guerriera, e già l’avea ferito;

Quand’egli, “or ferma, disse; e siano fatti

Anzi la pugna della pugna i patti”.



     Fermossi, e lui di pauroso audace

Rendè in quel punto il disperato amore.

“I patti sian, dicea, poichè tu pace

Meco non vuoi, che tu mi tragga il core.

Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace

Ch’egli più viva, volontario more.

È tuo gran tempo: e tempo è ben che trarlo

Omai tu debba; e non debb’io vietarlo:



     Ecco, le braccia inchino, e t’appresento

Senza difesa il petto: or che nol fiedi?

Vuoi ch’agevoli l’opra? io son contento

Trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi”.

Distinguea forse in più duro lamento

I suoi dolori il misero Tancredi;

Ma calca l’impedisce intempestiva

De’ Pagani e de’ suoi che soprarriva.



Cedean cacciati dallo stuol Cristiano

I Palestini, o sia temenza od arte.

Un de’ persecutori, uomo inumano,

Videle sventolar le chiome sparte,

E da tergo in passando, alzò la mano

Per ferir lei ne la sua ignuda parte;

Ma Tancredi gridò, che se n’accorse,

E con la spada a quel gran colpo accorse.



     Pur non gì tutto invano, e ne’ confini

Del bianco collo il bel capo ferille.

Fu levissima piaga, e i biondi crini

Rosseggiaron così d’alquante stille,

Come rosseggia l’or che di rubini

Per man d’illustre artefice sfaville.

Ma il Prence infuriato, allor si spinse

Addosso a quel villano, e ’l ferro strinse.



     Quel si dilegua, e questi acceso d’ira

Il segue; e van come per l’aria strale.

Ella riman sospesa, ed ambo mira

Lontani molto, nè seguir le cale:

Ma co’ suoi fuggitivi si ritira;

Talor mostra la fronte, e i Franchi assale:

Or si volge, or rivolge, or fugge, or fuga;

Nè si può dir la sua caccia, nè fuga.



28) Notate come lei rimanga interdetta per le parole e per il comportamento di Tancredi: ascolta, incredula, la dichiarazione d’amore di Tancredi e poi, come stordita, subisce le vicende seguenti (è salvata da Tancredi, che devia un colpo a lei diretto; ferita di striscio, osserva “sospesa” Tancredi che insegue l’assalitore) e, vieppiù, quando si ritira coi suoi (il suo fuggire e poi voltarsi contro il nemico è, sì, una tattica di combattimento, ma è anche il segno di una perplessità esistenziale, messa in moto da quelle inaspettate parole d’amore). E notate come ripetutamente compaia il richiamo alla nudità (per ben cinque volte): del capo o del collo di lei (una volta del petto di lui), ma è uno svelamento della natura femminile che porta con sé trasparenti implicazioni sensuali. Ed anche il sangue che riga il collo di lei e schizza sui suoi capelli biondi non evoca orrore, ma qualcosa di piacevole, visto il paragone che descrive l’immagine: “ne’ confini / del bianco collo il bel capo ferille. / Fu levissima piaga, e i biondi crini / rosseggiaron così d’alquante stille, / come rosseggia l’or che di rubini / per man d’illustre artefice sfaville.”



Il duello finale



29) Qualcuno ha parlato di un destino larvale di Clorinda, nel senso che la educazione virile che ha ricevuto, il suo indossare l’armatura, costituiscono una sorta di scorza che copre e nasconde la sua vera natura che è femminile. Ma è nel duello finale con Tancredi che questa scorza è destinata a rompersi, la larva si schiude e Clorinda si rivela pienamente donna.

30) Insieme ad Argante, un valoroso guerriero pagano, Clorinda è uscita da Gerusalemme assediata e ha dato fuoco alla torre di legno che i crociati hanno costruito per assaltare le mura della città. Dopo l’azione Argante riesce a rientrare dentro le mura, Clorinda invece, trattenuta in uno scontro con un guerriero cristiano, trova chiuse le porte; Tancredi la vede, non la riconosce perché per l’occasione non indossa la sua solita armatura, la insegue e la affronta in duello. E’ un duello feroce, senza risparmio di colpi:

     Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima

degno a cui sua virtú si paragone.

Va girando colei l’alpestre cima

verso altra porta, ove d’entrar dispone.

Segue egli impetuoso, onde assai prima

che giunga, in guisa avien che d’armi suone,

ch’ella si volge e grida: "O tu, che porte,

che corri sí?" Risponde: "E guerra e morte."

     "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto

darlati, se la cerchi", e ferma attende.

Non vuol Tancredi, che pedon veduto

ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.

E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,

ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;

e vansi a ritrovar non altrimenti

che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

     (….)

     Non schivar, non parar, non ritirarsi

voglion costor, né qui destrezza ha parte.

Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:

toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.

Odi le spade orribilmente urtarsi

a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;

sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,

né scende taglio in van, né punta a vòto.

     L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,

e la vendetta poi l’onta rinova;

onde sempre al ferir, sempre a la fretta

stimol novo s’aggiunge e cagion nova.

D’or in or piú si mesce e piú ristretta

si fa la pugna, e spada oprar non giova:

dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi

cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

     Tre volte il cavalier la donna stringe

con le robuste braccia, ed altrettante

da que’ nodi tenaci ella si scinge,

nodi di fer nemico e non d’amante.

Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge

con molte piaghe; e stanco ed anelante

e questi e quegli al fin pur si ritira,

e dopo lungo faticar respira.



A questo punto Tancredi rompe il silenzio e chiede all’avversario, che sta battendosi così valorosamente, di rivelargli il suo nome.



     Risponde la feroce: "Indarno chiedi

quel c’ho per uso di non far palese.

Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi

un di quei due che la gran torre accese."

Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,

e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese

"il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,

barbaro discortese, a la vendetta."

     Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,

benché debili in guerra. Oh fera pugna,

u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,

ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!

Oh che sanguigna e spaziosa porta

fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,

ne l’arme e ne le carni! e se la vita

non esce, sdegno tienla al petto unita.

     (…)

     Ma ecco omai l’ora fatale è giunta

che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.

Spinge egli il ferro nel bel sen di punta

che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;

e la veste, che d’or vago trapunta

le mammelle stringea tenera e leve,

l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente

morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

     Segue egli la vittoria, e la trafitta

vergine minacciando incalza e preme.

Ella, mentre cadea, la voce afflitta

movendo, disse le parole estreme;

parole ch’a lei novo un spirto ditta,

spirto di fé, di carità, di speme:

virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella

in vita fu, la vuole in morte ancella.

     "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona

tu ancora, al corpo no, che nulla pave,

a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona

battesmo a me ch’ogni mia colpa lave."



Tancredi si precipita ad un vicino ruscello, riempie d’acqua l’elmo e torna per battezzare Clorinda morente. Le toglie l’elmo e naturalmente la riconosce. Si fa forza per non svenire e la battezza. Lei muore e anche lui perde i sensi (anche lui ha perso molto sangue nel duello). Morirebbe, se non fosse che passa una pattuglia di Franchi e lo porta in salvo.



Il duello si configura, a tratti, come un abbraccio, dietro i due guerrieri si intravedono i due amanti (Tre volte il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia; ed altrettante / da que’ nodi tenaci ella si scinge; / nodi di fer nemico, e non d’amante: si noti il contrasto fra l’irruenza maschile di lui e l’eleganza muliebre di lei che “si scinge). Infine, nell’ottava che descrive il colpo mortale si attua lo scioglimento-rivelazione (Spinge egli il ferro nel bel sen di punta / che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; / e la veste, che d’or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e leve, / l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente / morirsi, e ‘l pié le manca egro e languente). Non vediamo più la corazza, il rivestimento militare di Clorinda, ma la veste “tenera e leve”, “d’or vago trapunta”; né vediamo le membra indurite, cui si accennava nella presentazione, ma il “bel seno”, “le mammelle” su cui aderisce, leggera e trasparente, la sottoveste. Di contro, la violenza del “ferro”, che viene “spinto” “di punta” e che fa sì che sgorghi un “caldo fiume” di sangue: nell’atto in cui si squarcia la larva d’acciaio, il destino di donna di Clorinda si realizza nell’immagine dell’evento nuziale. La metamorfosi si compie nel momento della morte, ma l’atto che dà la morte è, in maniera trasparente, l’atto coniugale (tutti gli elementi vi alludono: la durezza del ferro che trafigge, la tenerezza delle membra di lei, il caldo fiume, il languore finale: la violenza trapassa in raffinato erotismo)



La sensualità di Armida e quella di Clorinda



31) Elementi di erotismo si possono trovare anche in altri episodi, elementi a volte sottintesi, magari nascosti dietro i buoni sentimenti, come nell’episodio di Olindo e Sofronia, a volte invece espliciti, come nell’episodio di Rinaldo sedotto e soggiogato da Armida nelle isole Fortunate. Ma Armida è una maga incantatrice, che ha il compito di sedurre i cavalieri cristiani perché dimentichino il loro dovere di liberare il santo sepolcro. Dunque la sua sensualità è assolutamente peccaminosa, il male a cui ci si deve sottrarre, il negativo demoniaco che si oppone alla volontà di Dio e che quindi sarà sconfitto. Ma nel caso di Clorinda la sensualità emerge inaspettata, involontaria, non è opera del male, perché Clorinda ha buoni sentimenti, è sì pagana, ma per errore, tant’è che alla fine chiede il battesimo; ciò nonostante la sensualità è sempre peccaminosa, perché confligge con il dovere religioso, dunque sarà in qualche modo camuffata, allusa, lasciata intravvedere, a testimonianza, ancora una volta, della doppiezza della coscienza di Tasso.

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