Il confronto dei proemi: l’argomento
19) Se confrontiamo
ora le ottave introduttive dei due poemi, tutto questo si vede chiaramente.
Ecco il Furioso:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le
cortesie, l’audaci imprese io canto,
che
furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa
il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo
l’ire e i giovenil furori
d’Agramante
lor re, che si diè vanto
di
vendicar la morte di Troiano
sopra
re Carlo imperator romano.
L’incipit
è già una chiara dichiarazione che non c’è una vicenda unica e centrale, ma si narreranno le molteplici avventure di
guerra e d’amore di cui sono protagonisti le donne e i cavalieri. Quanto
ai Mori che vengono in Francia dall’Africa per fare guerra a Carlo (per
vendicare la morte di Troiano: si riferisce a vicende che erano nell’Orlando innamorato, di cui il Furioso
vuole essere la continuazione) non è un fatto storico, visto che un simile
passaggio, caso mai, c’è stato al tempo di Carlo Martello; e nemmeno sono
personaggi storici Agramante e Troiano. Poi continua:
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa
non detta in prosa mai né in rima:
che
per amor venne in furore e matto,
d’uom
che sí saggio era stimato prima;
Qui
si annuncia che un argomento, non l’unico, sarà la vicenda di Orlando che
divenne pazzo per amore. Infatti nella quarta ottava aggiunge:
Voi
sentirete fra i piú degni eroi,
che
nominar con laude m’apparecchio,
ricordar
quel Ruggier, che fu di voi
e
de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto
valore e’ chiari gesti suoi
vi
farò udir
Si
tratta dunque di un altro filone
narrativo, degno quanto quello di Orlando, che riguarda la vicenda d’amore di
Ruggero (cavaliere pagano, che per amore si convertirà al cristianesimo) e Bradamante (guerriera cristiana), dal
cui matrimonio si voleva che fossero discesi i signori d’Este. Sentiamo invece
la prima ottava della Liberata:
Canto
l’arme pietose, e ’l Capitano
Che
’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto
egli oprò col senno e con la mano;
Molto
soffrì nel glorioso acquisto:
E
invan l’Inferno a lui s’oppose; e invano
s’armò
d’Asia e di Libia il popol misto:
Chè
’l Ciel gli diè favore, e sotto ai santi
Segni
ridusse i suoi compagni erranti.
Nei
primi due versi sono enunciati con precisione l’azione centrale e il
protagonista, il Capitano, cioè Goffredo. Qui non ci sono “cortesie” e “audaci imprese”, ma si cantano le “arme pietose”, cioè si canta una guerra combattuta per pietas, per dovere religioso, per
liberare “il gran sepolcro” “di Cristo”, non per mostrare il proprio
valore. Si dice poi che al Capitano si opposero l’inferno e il “popol
misto” d’Asia e di Libia, ma furono dalla sua parte il cielo e un
popolo non misto, ma unito, perché Goffredo fu capace di ricondurre sotto il
segno della croce “i compagni erranti”, cioè quei compagni che si erano
allontanati dall’esercito e dall’assedio (e sono Tancredi e Rinaldo: erranti nel doppio senso della parola,
che vagano altrove rispetto al luogo dell’azione e che sono in errore,
sbagliano, perché vengono meno al loro dovere). Notate il riferimento al cielo e all’inferno, perchè questa è un’altra
questione importante. Il cosiddetto “meraviglioso”,
ovvero magie, incantesimi, insomma il soprannaturale, erano elementi
caratteristici del poema cavalleresco. Nel Furioso
c’è il mago Atlante, c’è la maga Alcina, c’è un cavallo alato e altre cose
simili. Anche Tasso accoglie il soprannaturale, ma deve essere un soprannaturale cristiano, e pertanto verosimile:
agiscono demoni infernali a fianco dei pagani e agiscono gli angeli del cielo a
sostegno dell’esercito cristiano.
Il confronto dei
proemi: l’invocazione alla Musa
20)
Confrontiamo ora l’invocazione alla Musa, una invocazione ricorrente nel
proemio di un poema. Ariosto si limita ad aggiungere queste parole, dopo aver
detto che tratterà di Orlando impazzito per amore:
se
da colei che tal quasi m’ha fatto,
che
’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me
ne sará però tanto concesso,
che
mi basti a finir quanto ho promesso.
Qui, invece
della tradizionale invocazione alla Musa, abbiamo una sorta di preghiera,
sorridente, non del tutto seria, rivolta alla propria donna (era una certa
Alessandra Benucci) perché non lo faccia
impazzire d’amore come ha fatto Angelica con Orlando, perché gli lasci il senno
necessario per portare a termine l’opera. Ed ecco ora le due ottave di invocazione
alla musa nella Liberata, ottave
difficili, segnate da un tono solenne, perché si tratta di una invocazione seria, profondamente convinta, non sorridente ed
anche un po’ irridente come quella che Ariosto rivolgeva alla propria donna:
O Musa, tu, che di caduchi allori
Non
circondi la fronte in Elicona,
Ma
su nel Cielo infra i beati cori
Hai
di stelle immortali aurea corona;
Tu
spira al petto mio celesti ardori,
Tu
rischiara il mio canto, e tu perdona
S’intesso
fregj al ver, s’adorno in parte
D’altri
diletti, che de’ tuoi le carte.
Sai che là corre il mondo, ove più versi
Di
sue dolcezze il lusinghier Parnaso;
E
che ’l vero condito in molli versi,
I
più schivi allettando ha persuaso.
Così
all’egro fanciul porgiamo aspersi
Di
soavi licor gli orli del vaso:
Succhi
amari, ingannato, intanto ei beve,
E
dall’inganno suo vita riceve.
La
musa è una musa cristiana, non pagana, non abita in Elicona (come le muse
pagane), ma in cielo; il poeta le
chiede non solo ispirazione, ma anche perdono perché “intesse fregi al ver”, cioè perché non si limita a riportare la
verità storica, ma la abbellisce con delle invenzioni. Ma questo lo faccio,
dice il poeta, perché così, con le storie piacevoli, attraggo i lettori e
questi, una volta attratti, traggono beneficio dal grande valore morale dell’opera.
E’ quello che si fa quando si dà una medicina amara ad un bambino: si cosparge di zucchero l’orlo del
bicchiere, così lui sente il dolce, ma intanto beve la medicina che lo farà
guarire.
Il confronto dei
proemi: la dedica
21)
Confrontiamo anche la dedica al signore, anche questa tradizionale. Così nel Furioso:
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e
splendor del secol nostro,
Ippolito,
aggradir questo che vuole
e
darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel
ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte
e d’opera d’inchiostro;
né
che poco io vi dia da imputar sono,
che
quanto io posso dar, tutto vi dono.
Questa
è la dedica cortigiana, encomiastica, al cardinale Ippolito d’Este, al cui
servizio si trovava Ariosto. L’innalzamento del tono, quando ci si riferisce al
cardinale, cui il poeta contrappone umilmente, con falsa modestia, se stesso e
la propria opera, è da intendersi
ironicamente, visto che sappiamo che Ariosto non aveva grande stima del
cardinale, non lo riteneva generoso né capace di apprezzare la poesia. E
ancora nell’ultima ottava, dopo avere annunciato che tratterà anche delle
vicende di Ruggero e Bradamante, aggiunge:
se
voi mi date orecchio,
e
vostri alti pensier cedino un poco,
sí
che tra lor miei versi abbiano loco.
E qui mi sembra
evidente che ritorni l’ironia nei confronti del cardinale sui cui “alti
pensieri” Ariosto aveva forti dubbi. Ed ecco invece la dedica al signore,
Alfonso d’Este, da parte di Tasso, una dedica così diversa da quella falsamente
solenne e sostanzialmente ironica che Ariosto aveva rivolto al cardinale
Ippolito
Tu magnanimo Alfonso, il qual ritogli
Al
furor di fortuna, e guidi in porto
Me
peregrino errante, e fra gli scoglj,
E
fra l’onde agitato, e quasi absorto;
Queste
mie carte in lieta fronte accogli,
Che
quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse
un dì fia, che la presaga penna
Osi
scriver di te quel ch’or n’accenna.
È ben ragion, (s’egli averrà ch’in pace
Il
buon popol di Cristo unqua si veda,
E
con navi e cavalli al fero Trace
Cerchi
ritor la grande ingiusta preda,)
Ch’a
te lo scettro in terra o, se ti piace
L’alto
imperio de’ mari a te conceda.
Emulo
di Goffredo, i nostri carmi
Intanto
ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
Tu sei colui,
dice il poeta rivolto ad Alfonso, che ha dato un porto a me che rischiavo di
naufragare, hai dato un po’ di pace alla mia vita travagliata (e noi sappiamo
che questa è la pura verità, perché solo lì, a Ferrara, e solo in
quegli anni, Tasso ha trovato la tranquillità ed ha interrotto il suo continuo
peregrinare di corte in corte). Dunque accetta questo poema, che io offro a te
come un voto sacro. Ed io ti auguro di poter guidare l’esercito o la flotta
cristiana, se mai capiterà che il popolo cristiano voglia indire una nuova
crociata per togliere di nuovo ai Turchi (“al
fero Trace”) “la grande ingiusta
preda”, cioè il santo sepolcro, di cui loro si sono impadroniti
ingiustamente (i tempi erano quelli, ricordiamo che nel 1571 c’era stata la battaglia di Lepanto, in cui la flotta
cristiana aveva sconfitto quella turca e in Europa circolava l’idea di una
nuova crociata).
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