mercoledì 20 febbraio 2019

Pirandello umorista (I parte)


L’umorismo

1) Ho intitolato in questo modo (Pirandello umorista) questo mio intervento perché Pirandello stesso in un famoso saggio (L’umorismo, 1908) ha espresso l’idea che l’umorismo sia il carattere qualificante di ogni grande opera letteraria – in ogni tempo, ma particolarmente nei tempi moderni, cioè da quando l’uomo, con la perdita della centralità della terra nell’universo, ha cominciato a dubitare di tutte le proprie certezze. C’è un passo in quel saggio in cui Pirandello si serve di un esempio celebre per indicare la differenza fra “comico” e “umoristico”, giacchè il primo nasce da quello che lui chiama “avvertimento del contrario” e il secondo dal “sentimento del contrario

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata, e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perchè pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sè l'amore del marito molto più giovine di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perchè appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza, tra il comico e l'umoristico.

2) Esemplari personaggi umoristici – dice sempre Pirandello – sono Don Chisciotte e don Abbondio: entrambi, seppure in modi diversi, appaiono comici in un primo momento, quando avvertiamo nel loro comportamento il contrario di quel che dovrebbe essere;  Don Chisciotte non si comporta come un uomo consapevole della realtà in cui è immerso e don Abbondio non si comporta come dovrebbe comportarsi un prete (e cioè come si comportano fra Cristoforo o il cardinale Borromeo); ma poi subentra la riflessione, che può essere implicita (come nel caso dell’opera di Cervantes) o esplicitata dallo stesso narratore (come fa Manzoni nei Promessi sposi) e allora il riso si spegne e il sentimento che proviamo è quello di commiserazione: per Don Chisciotte, che si scontra dolorosamente con la realtà, ma è animato da ideali nobilissimi; per don Abbondio, che viene meno al suo dovere di prete, ma – ce l’ha detto lo stesso Manzoni – è vittima di umanissime paure, sa di essere una vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Pertanto l’umorista non ride, ma ride e compatisce contemporaneamente.

3) La riflessione è dunque un elemento fondamentale dell’opera d’arte; funge da specchio del sentimento, ma è uno specchio – dice Pirandello – “d’acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza; il frigger dell’acqua è il riso che suscita l’umorista”. E ancora, grazie alla riflessione, l’arte umoristica appare come “un’erma bifronte che ride per una faccia del pianto della faccia opposta”. Piccola parentesi: Benedetto Croce, che per buona parte del Novecento è stato l’indiscusso maestro della critica letteraria in Italia, non amava Pirandello proprio per questa sovrabbondanza di riflessione che caratterizzava la sua opera; lo accusava di cerebralismo, di eccesso di ragionamento, oltre che di superficialità filosofica.

Forma e vita

4) Ma c’è un ulteriore passaggio nella riflessione teorica di Pirandello, un passaggio che consiste nel riconoscimento di una opposizione irriducibile fra la “forma” e la “vita. La vita è un continuo fluire, un fiume magmatico che scorre, ma noi non riusciamo ad aderire a questo flusso, a immergerci in questo fiume, siamo costretti entro forme rigide, che sono le convenzioni sociali, le maschere che indossiamo e che nascondono il nostro vero volto, un volto sconosciuto anche a noi stessi. Ma allora qual è la mia vera identità, qual è il mio vero volto al di là delle diverse maschere che mi identificano, al di là delle diverse forme che hanno irrigidito la mia vita? Ecco quindi che il personaggio pirandelliano sente come falsa la vita che sta vivendo e vuole una vita autentica, vuole immergersi nel fiume della vita e scorrere con esso, indifferente agli obblighi e alle convenzioni sociali che glielo impediscono. Così si esprime Pirandello:

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi (…) Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto. Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.

5) Anche le anime “più quiete” – dice possono assumere, per un momento, grazie a un caso qualunque, a un evento fortuito, la consapevolezza della falsità della loro vita e concepire il desiderio di sbarazzarsi di tutte le forme e di tutte le maschere e di fondersi con il flusso della vita. Non c’è una causa specifica che produce questo effetto, ma è una pura casualità che sconvolge la routine della vita quotidiana, le abitudini, l’identità sociale del personaggio, le sue relazioni affettive.

6) Allora il personaggio, nel suo tentativo di aderire al flusso della vita, di vivere una vita autentica, appare comico perché il suo comportamento contraddice (è il contrario di) quello che ci aspetteremmo da lui, per la forma, la maschera in cui ci è apparso fino ad allora. E’ l’avvertimento del contrario che ci fa ridere, ma se all’avvertimento aggiungiamo la riflessione, allora non si ride più: si ride e si piange allo stesso tempo. Ho in mente un paio di novelle, esemplari in questo senso: Il treno ha fischiato e La carriola.

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