mercoledì 20 febbraio 2019

Pirandello umorista (V parte)


Uno nessuno centomila

29) A questo romanzo Pirandello ha lavorato a lungo; l’ha pubblicato nel 1925, ma era in gestazione dal 1909. In più occasioni Pirandello l’ha indicato come il romanzo in cui si compiva il suo pensiero, ne parlava come del romanzopiù amaro di tutti, profondamente umoristico”: “E’ il romanzo – disse in un’intervista – della scomposizione della personalità. Esso giunge alle conclusioni più estreme, alle conseguenze più lontane. Spero che apparirà in esso più chiaro di quel che non sia apparso finora, il lato positivo del mio pensiero.”

30) Come Il fu Mattia Pascal, Uno nessuno centomila  è  scritto in prima persona e analogamente il protagonista narra la sua storia a vicenda conclusa. Per Moscarda l’occasione di partenza per il grande viaggio verso la disintegrazione della propria identità è un evento quanto mai banale, un rilievo della moglie: hai il naso storto, ti pende da una parte, gli dice, destando la sua grande meraviglia perché di quel difetto lui non s’era mai accorto. Ecco la scoperta che gli altri ci vedono in maniera diversa da come noi pensiamo di essere, e se questo è vero per l’aspetto fisico ancor di più lo sarà per l’aspetto morale, per il ruolo sociale che ricopriamo. E infatti la scoperta successiva di Moscarda è che su di lui grava l’immagine di usuraio che ha ereditato dal padre. Il padre era effettivamente un usuraio, che gli ha lasciato in eredità una banca – di cui per altro lui si disinteressa, avendola affidata ad un amministratore e contentandosi di vivere di rendita. Ma allora, si chiede Moscarda, se gli altri mi vedono in maniera diversa, anzi in tante maniere diverse, da quello che io penso di essere, qual è il mio vero io? Ecco allora la volontà di affermare il se stesso autentico, di vivere senza lasciarsi condizionare dagli obblighi sociali, senza le maschere che la società gli ha messo addosso, prima di tutte quella di usuraio. Per fare ciò comincia a compiere una serie di atti stravaganti, vere e proprie pazzie. Prima sfratta un poveraccio, un certo Marco di Dio, cui il padre aveva concesso di vivere in una catapecchia; poi gli regala un appartamento; quindi esige di occuparsi direttamente della banca e dei beni paterni; se ne occupa proponendo di liquidare la banca, tanto che la moglie, il suocero e gli amministratori della banca si adoperano per farlo interdire; ma, con l’aiuto, interessato, del vescovo, Moscarda riesce a realizzare il suo proposito, devolve il tutto per la fondazione di un ospizio di carità e in tale ospizio lui stesso prende dimora, vivendo e vestendosi come gli altri ricoverati.

31) Non vuole più essere Vitangelo Moscarda, non vuole più avere un nome, perché un nome è già una forma che separa dal fluire della vita. Vuole identificarsi totalmente con la natura, senza pensieri e senza identità, senza passato e senza futuro, morendo e rinascendo in ogni attimo. Così nell’ultima pagina:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. (...) E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

32) Moscarda è dunque il personaggio pirandelliano che va fino in fondo, che non accetta compromessi con le convenzioni sociali come Belluca de Il treno ha fischiato o il professore-avvocato de La carriola, e neppure come Mattia Pascal, che si è, sì, estraniato dalla società, ma perchè costretto, dopo aver cercato invano di vivere con una nuova identità e poi di recuperare la vecchia. Moscarda invece fa il salto nel vuoto, nega ogni identità ed è felice della sua condizione, si sente albero, nuvola, vento. “La città è lontana”, dice, e la città è il luogo del vivere sociale, mentre lui ora si sente in sintonia con la natura, vive nel suo ritmo, finalmente è immerso nel fiume della vita.

33) Per questa conclusione del romanzo, per questa esaltazione della vitalità della natura in cui si annulla l’io individuale, si è parlato di una sorta di misticismo laico. Ma se facciamo un passo indietro e torniamo a Il fu Mattia Pascal troviamo in un paio di episodi quella che può essere una vera e propria spiegazione di questa idea di Pirandello.

Nessun commento:

Posta un commento