Uno nessuno centomila
29) A questo romanzo
Pirandello ha lavorato a lungo; l’ha pubblicato nel 1925, ma era in gestazione
dal 1909. In più occasioni Pirandello l’ha indicato come il romanzo in cui si
compiva il suo pensiero, ne parlava come del romanzo “più amaro di tutti, profondamente umoristico”: “E’ il
romanzo – disse in un’intervista – della scomposizione della personalità. Esso
giunge alle conclusioni più estreme, alle conseguenze più lontane. Spero che apparirà in esso più chiaro di
quel che non sia apparso finora, il lato positivo del mio pensiero.”
30) Come Il fu Mattia Pascal, Uno
nessuno centomila è scritto in prima persona e analogamente il
protagonista narra la sua storia a vicenda conclusa. Per Moscarda l’occasione di partenza per il grande
viaggio verso la disintegrazione della propria identità è un evento quanto mai banale, un
rilievo della moglie: hai il naso
storto, ti pende da una parte,
gli dice, destando la sua grande meraviglia perché di quel difetto lui non
s’era mai accorto. Ecco la scoperta che gli altri ci vedono in maniera
diversa da come noi pensiamo di essere, e se questo è vero per l’aspetto
fisico ancor di più lo sarà per l’aspetto morale, per il ruolo sociale che
ricopriamo. E infatti la scoperta successiva di Moscarda è che su di lui grava l’immagine di usuraio che
ha ereditato dal padre. Il padre era effettivamente un usuraio, che gli ha
lasciato in eredità una banca – di cui per altro lui si disinteressa, avendola
affidata ad un amministratore e contentandosi di vivere di rendita. Ma allora,
si chiede Moscarda, se gli altri mi vedono in maniera diversa, anzi in tante
maniere diverse, da quello che io penso di essere, qual è il mio vero io? Ecco allora la volontà di affermare il se
stesso autentico, di vivere senza lasciarsi condizionare dagli obblighi
sociali, senza le maschere che la società gli ha messo addosso, prima di tutte
quella di usuraio. Per fare ciò comincia
a compiere una serie di atti stravaganti, vere e proprie pazzie. Prima
sfratta un poveraccio, un certo Marco di Dio, cui il padre aveva
concesso di vivere in una catapecchia; poi gli regala un appartamento; quindi
esige di occuparsi direttamente della banca e dei beni paterni; se ne occupa
proponendo di liquidare la banca, tanto che la moglie, il suocero e gli amministratori della banca si adoperano
per farlo interdire; ma, con l’aiuto, interessato, del vescovo,
Moscarda riesce a realizzare il suo proposito, devolve il tutto per la fondazione di un ospizio di carità e in tale
ospizio lui stesso prende dimora, vivendo e vestendosi come gli altri
ricoverati.
31) Non vuole più essere Vitangelo Moscarda, non vuole più avere un nome,
perché un nome è già una forma che separa dal fluire della vita. Vuole
identificarsi totalmente con la natura, senza pensieri e senza identità, senza
passato e senza futuro, morendo e rinascendo in ogni attimo. Così
nell’ultima pagina:
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta
fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come
cieca, non distinta e non definita; ebbene,
questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla
fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli
piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai
morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude.
E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani
libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori,
vagabondo.
L’ospizio sorge in
campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora
voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si
scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi
il respiro umido e le abbagli. (...) E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo,
è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú
nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere,
ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire
che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il
vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del
vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di
me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità
ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle
rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensare
alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce
le campane. Io non l’ho piú questo
bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo
e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.
32) Moscarda è dunque
il personaggio pirandelliano che va fino in fondo, che non accetta compromessi
con le convenzioni sociali come Belluca
de Il treno ha fischiato o il
professore-avvocato de La carriola, e
neppure come Mattia Pascal, che si è, sì, estraniato dalla società, ma
perchè costretto, dopo aver cercato invano di vivere con una nuova identità e
poi di recuperare la vecchia. Moscarda
invece fa il salto nel vuoto, nega ogni identità ed è felice della sua
condizione, si sente albero, nuvola,
vento. “La città è lontana”, dice, e la città è il luogo del vivere sociale,
mentre lui ora si sente in sintonia con la natura, vive nel suo ritmo,
finalmente è immerso nel fiume della vita.
33) Per
questa conclusione del romanzo, per questa esaltazione della vitalità della
natura in cui si annulla l’io individuale, si è parlato di una sorta di misticismo laico. Ma se facciamo
un passo indietro e torniamo a Il fu
Mattia Pascal troviamo in un paio di episodi quella che può essere una vera
e propria spiegazione di questa idea di Pirandello.
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