mercoledì 20 febbraio 2019

Pirandello umorista (II parte)


Il treno ha fischiato

7) Il treno ha fischiato (pubblicata nel 1914) ha per protagonista  un modesto impiegato, un computista, cioè un ragioniere, certo Belluca, sempre puntuale, ligio al suo dovere, obbediente alle richieste del capufficio. Senonchè un giorno, inaspettatamente il suo comportamento cambia, si ribella in modo tanto sorprendente che prima suscita l’ilarità dei colleghi, quindi viene legato e trasportato di forza al manicomio: 

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.

Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.

(…)

Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.

Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capoufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna – era venuto con piú di mezz'ora di ritardo.

Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.

Cosí ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

— E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.

— Che significa? — aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. — Ohé, Belluca!

— Niente, — aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. — Il treno, signor Cavaliere.

— Il treno? Che treno?

— Ha fischiato.

— Ma che diavolo dici?

— Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare…

— Il treno?

— Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi.

Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.



8) Colui che sta narrando l’episodio è il vicino di casa di Belluca ed è lui che ci propone quella riflessione che consente il passaggio dal comico all’umoristico. E’ lui che quando i colleghi che vanno a trovare Belluca in ospedale gli dicono che continua a straparlare e che dunque è proprio impazzito, risponde:

Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.



Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa piú ovvia, l'incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile"(...)»



9) Il narratore conosce la vita “impossibile” di Belluca e ce la spiega: viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera; in più, aveva accolto in casa le due figlie vedove, una con quattro e l’altra con tre figli; dodici in tutto, che dormivano in tre letti matrimoniali; manteneva tutti col suo lavoro, a cui aggiungeva degli straordinari in casa la sera; lavorava fino a tarda notte in mezzo alla confusione dei bambini e delle tre cieche che strillavano per una ragione o per l’altra; quindi, quando non ce la faceva più, si addormentava su un vecchio divano per risvegliarsi intontito la mattina seguente e ricominciare la giornata daccapo. Finchè, una notte, come lo stesso Belluca racconta al vicino di casa:

(…) Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.

S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.

C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí… c'erano gli oceani… le foreste…

E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.

Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:

— Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…



10) La presa di coscienza di Belluca, il suo avvertire lo scorrere della vita al di fuori della sua vita, non comporta, come invece per altri personaggi (Mattia Pascal o, meglio ancora, Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila), un rifiuto totale della “forma” entro cui si sentono imprigionati. Infatti, come è detto, Belluca riprenderà il suo lavoro di ragioniere, riprenderà la sua vita “impossibile” e potrà sopportarla perché si concederà di tanto in tanto una evasione da quella vita con la fantasia.

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