Lo “strappo nel cielo di carta”…
34) Anselmo Paleari, il proprietario della
pensione in cui a Roma alloggia Mattia, alias Adriano Meis, è un appassionato di spiritismo e teosofia.
La teosofia è una dottrina filosofico-religiosa di derivazione indiana che, fra
le altre cose, contempla anche la metempsicosi, ovvero la continuazione della
vita in esistenze successive dopo la morte; una dottrina che, come del resto lo
spiritismo, ebbe un certo successo fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i
primi del Novecento. Anche Pirandello, sappiamo, aveva le stesse passioni e
dunque non c’è dubbio che si serva del suddetto personaggio per esprimere le
proprie idee.
35) All’inizio del cap. XII, Anselmo Paleari dice che delle marionette
automatiche rappresenteranno la tragedia di Oreste (l’Elettra di
Sofocle); e però, se nel bel mezzo della rappresentazione si strappasse il cielo di carta, Oreste rimarrebbe
sconcertato e si trasformerebbe in Amleto: qui sta la differenza fra la
tragedia antica e quella moderna:
— La tragedia d'Oreste in un teatrino di
marionette! — venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. — Marionette
automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei
Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. — La
tragedia d'Oreste? — Già! D'après
Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra.
Ora senta un po', che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante,
proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte
del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta
del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. — Non saprei, — risposi, stringendomi
ne le spalle. — Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente
sconcertato da quel buco nel cielo. — E perché? — Mi lasci dire. Oreste
sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa
passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde
ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe
cader le braccia. Oreste, insomma,
diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia
antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di
carta.
36) Il parallelo fra
le due tragedie non è casuale: in ambedue il protagonista vendica l’uccisione
del padre (Agamennone/re di Danimarca) uccidendo la madre
(Clitemnestra/Gertrude) e il di lei amante (Egisto/Claudio). Ma Oreste vive in un mondo di certezze,
aderisce pienamente alla vita, la sua
identità e il suo mondo sono certi, i suoi sentimenti sono elementari e
determinati; se “il cielo si strappa” (e il teatro è evidentemente
metafora della vita), Oreste perde i
propri punti di riferimento, non è più sicuro dell’universo in cui vive, si
rende conto che la realtà che ha sempre creduto vera non è la vera realtà, c’è
una realtà più vera, estranea alla sua visione; e allora non può non
porsi domande su se stesso, sul senso del suo rapporto con gli altri e con il
mondo; è irrimediabilmente sdoppiato, non
vive ma si vede vivere, non agisce ma medita sull’azione (diventa, appunto,
Amleto). Questa, per Pirandello,
è proprio la condizione dell’uomo moderno, che non ha più le grandi certezze e
i grandi ideali del passato, su cui tutti convenivano; quell’uomo, come
Oreste, non era corroso da dubbi e perplessità, andava diritto allo scopo –
cosa che non riesce più a fare l’uomo moderno, paralizzato da quei dubbi ed insicuro della
realtà che vede e della verità in cui crede.
37) Questo episodio mi
fa sempre venire in mente quel grande film di qualche anno fa, il Truman
show, un film straordinariamente significativo. Truman vive sin da
neonato in un reality, vive in una realtà finta, con relazioni umane
finte, un mare finto, un cielo finto; ma per lui quella è l’unica realtà,
è la sola realtà che ha sempre percepito, finchè anche per lui, idealmente, si
strappa “il cielo di carta” e finalmente capisce che era imprigionato in quella visione
limitata e soggettiva, che il mondo vero è un altro e sta al di
fuori della sua visione.
… e la “lanterninosofia”
38) Questo discorso
ha la sua continuazione ideale in un altro capitolo del romanzo, nel cap.
XIII, intitolato Il lanternino. Sempre Anselmo Paleari, espone una sua
teoria (la “lanterninosofia”, ovvero la filosofia del lanternino) ad
Adriano, quando questi deve stare per un certo periodo al buio a seguito
dell’operazione a un occhio (fatta per “raddrizzare” lo strabismo e nello
stesso tempo cambiare i connotati di Mattia):
E il signor Anselmo… mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non
si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che
sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece,
nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la
bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi
questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi,
i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo
era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; (…) un
lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce,
di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il
lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera,
fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci
accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé
dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
39) Insomma, a differenza degli altri elementi naturali (alberi, animali),
noi ci sentiamo vivere, ci sentiamo cioè distinti dalla realtà che ci
circonda; tale realtà è per noi come un grande
buio, rispetto al quale noi
siamo come un lanternino che illumina una piccola sfera circostante. Il
Paleari continua spiegando che la luce del lanternino altro non è che la nostra
visione della realtà, determinata dalle idee dominanti nelle diverse epoche:
più forti sono le certezze, più grande è la luce; in altri tempi ci sono stati
dei “lanternoni”, oggi ci sono luci
piccole e allo sbando (mancano fedi, ideali, certezze):
Ma domando io ora, signor Meis: E se
tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale indarno i filosofi
dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all'indagine di esso, la
scienza non esclude, non fosse in fondo
che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente (…)? Se noi
finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi,
ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento
che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta
paura, non esistesse e fosse soltanto, non l'estinzione della vita, ma il
soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi
abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo
cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve
àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo
attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per
alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un
giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più
questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è
relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della
natura non esiste. Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre
vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo
a tutte le manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo,
perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto
quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com'esso è in
realtà!
40) Ecco dunque la
conclusione: se questo buio non fosse che un’illusione, privilegio e
maledizione dell’uomo, che ha il lanternino? Se questo buio (della realtà fuori di noi e dopo di noi) non fosse che
una creazione, per contrasto, della luce? Fuor di metafora, se questo
buio non fosse che una proiezione ingannevole della nostra percezione
soggettiva, del nostro sentirci individui a sé stanti, “io” separato dal mondo,
individui separati dalla totalità dell’essere? Allora la morte non sarebbe un precipitare nel buio, ma solo uno
spegnersi del lanternino, finalmente, che ci consentirebbe di appartenere
(come siamo sempre appartenuti, del resto, ma non più con il sentimento della
propria individualità separata, e con la relativa paura) alla vita
universale, all’Essere, alla Verità.
41) E dunque, se è
così, Vitangelo Moscarda non è altro
che l’uomo che ha spento il lanternino ed ora appartiene alla vita
universale, all’Essere, alla Verità. Per
il Paleari il lanternino si spegne con la morte, che non è un annullamento
della vita, ma la possibilità di entrare nella verità della vita. Moscarda ci entra da vivo,
spogliandosi della sua identità (appunto, spegnendo il lanternino) e dunque
sentendosi tutt’uno con la natura, con la vita universale, non più separato da
essa.
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