Il fu Mattia Pascal
18) Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel
1904, è un romanzo fortemente innovativo
per tanti aspetti, per quanto riguarda sia la tecnica narrativa sia la originalità
degli spunti tematici. Ed è un romanzo in cui si esplica pienamente la cosiddetta poetica dell’umorismo, tant’è
che il saggio Sull’umorismo che
Pirandello pubblicherà quattro anni dopo recherà la seguente dedica: “Alla buon anima di Mattia Pascal, bibliotecario”.
19) Quanto alle novità
della tecnica narrativa, mi limito a dire che la narrazione è in prima persona (contro la terza delle due precedenti
prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un semplice
testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha fischiato),
ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara di volere
scrivere la propria storia; l’effetto è quello di uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta
di ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così;
adesso capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del “normale” ordine
cronologico: la consequenzialità del “prima” e del “poi” è interrotta dalla
interferenza del presente del narratore
sul passato della vicenda: una interferenza
che, preminente nelle due premesse e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il romanzo; ad
esempio, quando Mattia sta per cominciare a raccontare del suo matrimonio, si
interrompe e si rivolge al suo amico
bibliotecario che già conosce la storia:
Il mio matrimonio,
invece...
— Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi
risponde:
— E come no? Sicuro. Pulitamente...
— Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi
consiglia:
— S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella
del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono...
Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.
Coraggio, dunque; avanti!
Inoltre la narratività tradizionale
si dilata fino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla
“lanternino-sofia”) o un dialogato di
tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti,
corsivi; la necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la
riproduzione dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).
20) Ma veniamo alla
vicenda, che cercherò di riassumere brevemente. Ci sono due premesse, in cui Mattia presenta se stesso e dice di vivere
nella biblioteca del paese, dove, su insistenza dell’attuale bibliotecario, don Eligio Pellegrinotto, si è deciso a
scrivere – seppure controvoglia – la propria incredibile storia. Quindi comincia, appunto, la storia vera e propria, che si
può suddividere in più parti.
21) Una
prima parte (dal cap. III al cap. V)
in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (paese immaginario, inventato dall’autore e
collocato in Liguria) dall’infanzia,
all’inferno coniugale, alla fuga da quell’inferno. Le ricchezze dell’agiata
famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia,
inesperto ed inetto, mette incinta Romilda
(nipote del Malagna) e quindi si vede costretto a sposarla, anche se di
malavoglia perché ha scoperto – ahimè, troppo tardi! – che sia Romilda che la
di lei madre – la terribile vedova
Pescatore – sono soltanto della calcolatrici che gli faranno vivere una
vita infernale; infatti così è, inizia una convivenza impossibile fra Mattia,
la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; inoltre,
data la miseria economica in cui è precipitato, Mattia si deve adattare al lavoro mortificante e poco redditizio di
bibliotecario.
22) Si
ripropone dunque la condizione tipica di tanti personaggi pirandelliani, la
condizione di sentirsi prigioniero di
una trappola sociale, costretto, come Belluca, ad una vita impossibile, fra una famiglia
oppressiva ed un lavoro frustrante. Ma alcuni
eventi del tutto casuali danno a Mattia la possibilità di
fuoriuscire da quella “forma” e lasciarsi andare nel fiume della “vita”. Ed è
questa una seconda parte del romanzo
(dal cap. VI al cap. IX).
23) Muoiono
le due gemelle nate da Romilda, muore anche la madre, maltrattata dalle due
megere; per il funerale della madre il fratello Berto manda a Mattia 500
lire, cui però ha già provveduto la zia
Scolastica; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a Marsiglia
e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo e al casinò vince 82.000 lire. E’
questo il primo evento fortuito,
82.000 lire sono una cifra notevole e non c’è niente di più casuale che vincere
al casinò. Mattia tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non fosse che in
treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento di un cadavere mezzo putrefatto nella gora di
un mulino, e tuttavia riconosciuto come
suo da moglie e suocera; è questo il
secondo evento fortuito che consente a Mattia di cogliere l’occasione
per vivere una nuova vita, viaggiando
per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis.
24) Segue una terza parte (dal cap. X al cap.
XVI) in cui si raccontano le vicende di Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio. Mattia-Adriano è stanco
di viaggiare, senza relazioni umane se non superficiali, senza affetti, senza
una casa, si sente un “forestiere
della vita”:
M'ero
spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in
quell'anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si
raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli
sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta! Così mi pareva;
e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora,
giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio
dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una
piccola? Non sapevo risolvermi. Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a
quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi in
ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel
tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: «Ecco, io vi
sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là
variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: — Qua vorrei aver casa! Come ci
vivrei volentieri! —. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro
abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere
quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi viaggia.»
Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il
letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno.(…) Ma
una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? (...) una
casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene
prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così,
con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario
d'una casa, eh, allora: registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto
all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?,
forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci,
imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti
miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera
mobiliata. (…) La mia fortuna – dovevo convincermene – la mia fortuna
consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della
suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero
libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita
innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io! «Sì, ma
questi tali,» m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia
maledetta, «o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o
l'altro potranno far ritorno, o se non hanno
casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di
qualche amico. Tu invece, a volerla
dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere
della vita, Adriano Meis.»
25) Quindi
Mattia-Adriano si stabilisce a Roma, presso la pensione di certo Anselmo Paleari (un vecchio
pensionato, appassionato di spiritismo), della cui figlia, Adriana, s’innamora, e dove soggiornano anche una maestra di
pianoforte fallita, dedita anche all’attività di medium – la signorina Caporale – e un
losco individuo, che ha delle mire su Adriana, della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano;
Mattia-Adriano, privo di una vera
identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può
denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore (Bernaldez), può
sfidarlo a duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando
bastone e cappello su un ponte del Tevere.
26) La parte
finale (cap. XVII e XVIII)
tratta del ritorno di Mattia a Miragno. Nel
suo tentativo di vivere libero, di seguire senza costrizioni il flusso della
vita, Mattia è uno sconfitto; è disposto a riprendere la sua vita
impossibile, pur di avere consistenza sociale. E’ felice di poter tornare
ad essere Mattia Pascal; certo, rafforzato dalla esperienza che ha fatto, è
sicuro di poter mettere al loro posto sia lo moglie che la suocera. Ma lo
attende una sorpresa: Romilda si è risposata con Pomino, il
vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto
una figlia; Mattia rinuncia a far valere i suoi diritti (con la sua
ricomparsa il nuovo matrimonio sarebbe nullo) e decide di vivere come “fu
Mattia Pascal”; non può reinserirsi nella vita normale, non gli rimane altra
possibilità che guardare da lontano gli altri; vive con la vecchia zia Scolastica e passa le giornate nella vecchia
biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per portare fiori sulla
tomba che reca il suo nome. E a chi gli chiede:
“Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”
Mi stringo sulle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
“Eh, caro mio… Io sono il
fu Mattia Pascal”
27)
Possiamo comprendere la natura “umoristica”, nel senso pirandelliano, della
vicenda e del personaggio. Essere il “fu
Mattia Pascal” è una contraddizione in termini, è quel “contrario” che
appare comico nel primo “avvertimento”; ma tutto il romanzo non è altro
che la riflessione che induce al “sentimento del contrario”, e dunque,
mostrandoci l’aspetto doloroso della vicenda, ci fa ridere e piangere allo
stesso tempo.
28) Ma
riflettiamo ancora. Mattia si trova, sì, alla fine, in quella condizione
paradossale, ma torna a Miragno perché
si rende conto che non può vivere senza una “forma”, senza un’identità
socialmente riconosciuta. Con qualche variante, è la stessa conclusione cui
erano arrivati Belluca de Il treno ha
fischiato e il professore-avvocato de La
carriola. Ma c’è un personaggio che invece percorre fino in fondo la
strada che conduce dal rifiuto della forma in cui si è imprigionati
all’immersione totale nel fiume della vita, senza più alcuna identità. Si
tratta di Vitangelo Moscarda (detto Gengè dalla moglie), il protagonista di Uno nessuno centomila.
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