mercoledì 20 febbraio 2019

Pirandello umorista (IV parte)


Il fu Mattia Pascal

18) Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904, è un romanzo fortemente innovativo per tanti aspetti, per quanto riguarda sia la tecnica narrativa sia la originalità degli spunti tematici. Ed è un romanzo in cui si esplica pienamente la cosiddetta poetica dell’umorismo, tant’è che il saggio Sull’umorismo che Pirandello pubblicherà quattro anni dopo recherà la seguente dedica: “Alla buon anima di Mattia Pascal, bibliotecario”.

19) Quanto alle novità della tecnica narrativa, mi limito a dire che la narrazione è in prima persona (contro la terza delle due precedenti prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un semplice testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha fischiato), ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara di volere scrivere la propria storia; l’effetto è quello di uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta di ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così; adesso capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del “normale” ordine cronologico: la consequenzialità del “prima” e del “poi” è interrotta dalla interferenza del presente del narratore sul passato della vicenda: una interferenza che, preminente nelle due premesse e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il romanzo; ad esempio, quando Mattia sta per cominciare a raccontare del suo matrimonio, si interrompe e si rivolge al suo amico bibliotecario che già conosce la storia:

Il mio matrimonio, invece...

— Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?

Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:

— E come no? Sicuro. Pulitamente...

— Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...

Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:

— S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono...

Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.

Coraggio, dunque; avanti!



Inoltre la narratività tradizionale si dilata fino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla “lanternino-sofia”) o un dialogato di tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti, corsivi; la necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la riproduzione dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).

20) Ma veniamo alla vicenda, che cercherò di riassumere brevemente. Ci sono due premesse, in cui Mattia presenta se stesso e dice di vivere nella biblioteca del paese, dove, su insistenza dell’attuale bibliotecario, don Eligio Pellegrinotto, si è deciso a scrivere – seppure controvoglia – la propria incredibile storia. Quindi comincia, appunto, la storia vera e propria, che si può suddividere in più parti.

21) Una prima parte (dal cap. III al cap. V) in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (paese immaginario, inventato dall’autore e collocato in Liguria) dall’infanzia, all’inferno coniugale, alla fuga da quell’inferno. Le ricchezze dell’agiata famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia, inesperto ed inetto, mette incinta Romilda (nipote del Malagna) e quindi si vede costretto a sposarla, anche se di malavoglia perché ha scoperto – ahimè, troppo tardi! – che sia Romilda che la di lei madre – la terribile vedova Pescatore – sono soltanto della calcolatrici che gli faranno vivere una vita infernale; infatti così è, inizia una convivenza impossibile fra Mattia, la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; inoltre, data la miseria economica in cui è precipitato, Mattia si deve adattare al lavoro mortificante e poco redditizio di bibliotecario.

22) Si ripropone dunque la condizione tipica di tanti personaggi pirandelliani, la condizione di sentirsi prigioniero di una trappola sociale, costretto, come Belluca, ad una vita impossibile, fra una famiglia oppressiva ed un lavoro frustrante. Ma alcuni eventi del tutto casuali danno a Mattia la possibilità di fuoriuscire da quella “forma” e lasciarsi andare nel fiume della “vita”. Ed è questa una seconda parte del romanzo (dal cap. VI al cap. IX).

23) Muoiono le due gemelle nate da Romilda, muore anche la madre, maltrattata dalle due megere; per il funerale della madre il fratello Berto manda a Mattia 500 lire, cui però ha già provveduto la zia Scolastica; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a Marsiglia e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo e al casinò vince 82.000 lire. E’ questo il primo evento fortuito, 82.000 lire sono una cifra notevole e non c’è niente di più casuale che vincere al casinò. Mattia tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non fosse che in treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento di un cadavere mezzo putrefatto nella gora di un mulino, e tuttavia riconosciuto come suo da moglie e suocera; è questo il secondo evento fortuito che consente a Mattia di cogliere l’occasione per vivere una nuova vita, viaggiando per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis.

24) Segue una terza parte (dal cap. X al cap. XVI) in cui si raccontano le vicende di Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio. Mattia-Adriano è stanco di viaggiare, senza relazioni umane se non superficiali, senza affetti, senza una casa, si sente un “forestiere della vita”:

M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta! Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi. Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: «Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: — Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! —. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi viaggia.» Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno.(…) Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? (...) una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora: registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. (…) La mia fortuna – dovevo convincermene – la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io! «Sì, ma questi tali,» m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, «o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis

25) Quindi Mattia-Adriano si stabilisce a Roma, presso la pensione di certo Anselmo Paleari (un vecchio pensionato, appassionato di spiritismo), della cui figlia, Adriana, s’innamora, e dove soggiornano anche una maestra di pianoforte fallita, dedita anche all’attività di medium – la signorina Caporale – e un  losco individuo, che ha delle mire su Adriana, della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano; Mattia-Adriano, privo di una vera identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore (Bernaldez), può sfidarlo a duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando bastone e cappello su un ponte del Tevere.

26) La parte finale (cap. XVII e XVIII) tratta del ritorno di Mattia a Miragno. Nel suo tentativo di vivere libero, di seguire senza costrizioni il flusso della vita, Mattia è uno sconfitto; è disposto a riprendere la sua vita impossibile, pur di avere consistenza sociale. E’ felice di poter tornare ad essere Mattia Pascal; certo, rafforzato dalla esperienza che ha fatto, è sicuro di poter mettere al loro posto sia lo moglie che la suocera. Ma lo attende una sorpresa: Romilda  si è risposata con Pomino, il vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia; Mattia rinuncia a far valere i suoi diritti (con la sua ricomparsa il nuovo matrimonio sarebbe nullo) e decide di vivere come “fu Mattia Pascal”; non può reinserirsi nella vita normale, non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri; vive con la vecchia zia Scolastica e passa le giornate nella vecchia biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome. E a chi gli chiede:

“Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”

Mi stringo sulle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:

“Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal



27) Possiamo comprendere la natura “umoristica”, nel senso pirandelliano, della vicenda e del personaggio. Essere il “fu Mattia Pascal” è una contraddizione in termini, è quel “contrario” che appare comico nel primo “avvertimento”; ma tutto il romanzo non è altro che la riflessione che induce al “sentimento del contrario”, e dunque, mostrandoci l’aspetto doloroso della vicenda, ci fa ridere e piangere allo stesso tempo.

28) Ma riflettiamo ancora. Mattia si trova, sì, alla fine, in quella condizione paradossale, ma torna a Miragno perché si rende conto che non può vivere senza una “forma”, senza un’identità socialmente riconosciuta. Con qualche variante, è la stessa conclusione cui erano arrivati Belluca de Il treno ha fischiato e il professore-avvocato de La carriola. Ma c’è un personaggio che invece percorre fino in fondo la strada che conduce dal rifiuto della forma in cui si è imprigionati all’immersione totale nel fiume della vita, senza più alcuna identità. Si tratta di Vitangelo Moscarda (detto Gengè dalla moglie), il protagonista di Uno nessuno centomila.

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