La carriola
11) Qualcosa di simile
succede al protagonista dell’altra novella, La carriola (pubblicata
nel 1917): la presa di coscienza della falsità della propria vita che si
traduce non in una ribellione totale, ma in uno sfogo tutto privato che lascia intatta, esternamente, la sua figura
sociale, non modifica, per chi la veda dall’esterno, l’andamento della sua vita.
Qui il protagonista non è un piccolo borghese come Belluca, ma un alto borghese,
di cui non è fatto il nome ma si dice che è
avvocato e professore universitario di diritto, marito e padre inappuntabile.
E’ lui stesso che dice di sé:
Sono
affidati a me la vita, l'onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che
m'assedia dalla mattina alla sera per avere la mia
opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d'altri doveri altissimi sono
gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere
come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d'esser tenuti a freno di continuo
dalla mia autorità severa, dall'esempio costante della mia obbedienza
inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno piú
serio dell'altro, di marito, di padre,
di cittadino, di professore di diritto, d'avvocato.
12) Ma anche per lui sorge inaspettatamente il pensiero della
falsità della propria vita e di una vita autentica che scorre altrove.
Stavo ritornando in treno da Perugia, dice (il narratore è lui stesso), dove
ero andato per affari della mia professione, e immerso nei miei pensieri
guardavo fuori dal finestrino il paesaggio umbro. A poco a poco i pensieri
svaniscono e la sua mente avverte, seppur confusamente, in quella “infinita
lontananza” “il brulichio di una
vita diversa”:
Non
pensavo a ciò che vedevo e non pensai piú a nulla:
restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma
pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s'era quasi alienato dai sensi, in una lontananza
infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva
sua, il brulichio d'una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser
sua, non qua, non ora, ma là, in quell'infinita lontananza; d'una vita remota, che forse era stata sua,
non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d'atti, non
d'aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti.
13) Si assopisce e
quando si risveglia alla stazione d’arrivo, si sente diverso, sente altra da sé la propria figura sociale
al punto che, quando si trova davanti alla porta di casa, sente come estranea
la persona – lui stesso – il cui nome è inciso sulla targhetta d’ottone:
Io vidi a un tratto, innanzi a quella
porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d'ottone, su cui è inciso il
mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da' miei attributi scientifici e
professionali, vidi a un tratto, come da
fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla
come mia.
Spaventosamente d'un tratto mi s'impose
la certezza, che l'uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo
sotto il braccio, l'uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero
stato mai io. Conobbi d'un tratto d'essere stato sempre come assente da quella
casa, dalla vita di quell'uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni
vita. Io non avevo mai vissuto; non ero
mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me
voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale
adesso improvvisamente m'appariva, così vestita, così messa su, mi parve
estranea a me; come se altri me l'avesse imposta e combinata, quella figura,
per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da
cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente,
il mio spirito s'accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai!
14) Anche la moglie e i figli non gli sembrano
suoi, ma di un altro uomo, di un’altra vita:
Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero
stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa
certezza) quell'uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi
erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell'uomo, di quell'uomo
che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero
corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato,
distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e
il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors'anche la moglie...
Ma i ragazzi?
Mi portai le mani alle tempie e me le
strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma attraverso un
sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me,
quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie
cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso
d'atroce afa col quale m'ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell'uomo insoffribile che stava davanti alla
porta.
Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in
quella casa e nella vita di prima.
15) Dunque l’avvocato
professore non può che rassegnarsi a quella forma che ormai si porta addosso;
come l’impiegato Belluca, accetta di
rientrare in quella vita che non sente più come sua; da quella vita non può più
liberarsi:
E come puoi piú liberarti? Come potrei io nella prigione di questa
forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per
tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e
muovere una vita diversa, una mia vera vita? una
vita in una forma: che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per
tutti quelli che l'hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev'essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai
miei figli, alla società, cioè ai signori studenti
universitari della facoltà di legge, ai signori clienti che m'hanno affidato la
vita, l'onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non
posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con
l'atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e
circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.
16) Ed ecco la
conclusione: come Belluca si sarebbe
concesso momenti d’evasione con la fantasia, così l’avvocato
professore trova un suo sfogo privato, un atto di apparente follia,
così come appariva follia il comportamento di Belluca:
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da
undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già
appannati dalla vecchiaja.
Tra me e lei non c'erano mai stati buoni
rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non
permetteva si facessero rumori per casa; s'era messa però ad approvarla a poco
a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei
ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giú nel giardino, aveva preso da
un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire
sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri,
qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a
guardarmi, come per dire:
«Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere
di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a
disturbare il mio sonno.»
Così pensava certamente la povera
bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici
giorni or sono, all'improvviso, nel vedermi guardato così.
Non le faccio male; non le faccio nulla.
Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo
cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s'accorga che la mia
sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto
e d'avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco
staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all'uscio
a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l'uscio a chiave,
per un momento solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d'esser pazzo,
d'esser pazzo per un attimo solo, d'uscire per un attimo solo dalla prigione di
questa forma morta, di distruggere, d'annientare per un attimo solo,
beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia;
corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le
faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non
piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro
subito a riaprire l'uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto
in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l'austera
dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni,
rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore.
Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla; che stia tranquilla, che non
mi guardi così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell'atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma
sa ch'io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per
un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.
17) Anche per il
protagonista del romanzo più famoso di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, c’è
la necessità di rientrare in quella vita falsa da cui aveva cercato di fuggire;
ma per lui, come vedremo, questo sarà impossibile e gli toccherà vivere da
emarginato, da morto vivente, tant’è
che lui stesso, a conclusione della sua vicenda, dice di sé: “Io sono il fu
Mattia Pascal”.
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