domenica 20 ottobre 2024

Leopardi e la sapienza silenica (I parte)

 

I. Quando faccio lezione su Leopardi, mi trovo a dover sbrogliare il campo dal  pregiudizio (diffuso, peraltro, anche presso i contemporanei del poeta, come ampiamente testimoniato[1]) secondo cui sarebbero le personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo. Ed è un pregiudizio, a dir poco, fastidioso, in quanto inficia la comprensione di quel pensiero, lo svaluta, quasi fosse un pensiero dimidiato, lo riduce al miserevole lamento di chi non è capace di astrarre dalla propria condizione individuale per dire parole di verità.  Né vale citare come testimone a difesa lo stesso Leopardi, quando nella esemplare lettera al De Sinner si ribella con forza a questo trattamento liquidatorio riservatogli da critici e lettori sbrigativi[2]; e nemmeno serve cercare di spiegare, con Timpanaro, come quelle disgrazie fisiche, caso mai, si trasformino in un “formidabile strumento conoscitivo”, giacché consentono uno sguardo più acuto su verità altrimenti misconosciute dalla “normalità” dominante.

Certo, i ragazzi amano il grande Leopardi degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, il poeta del maggio odoroso, delle care speranze, degli ameni inganni, perché lì avvertono, prima ancora di averne sentito parlare,  la profonda verità di quel giudizio di De Sanctis, secondo cui “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...”[3]. Ma permane una sorta di diffidenza verso il pensatore che sembra incattivito con la vita, quando argomenta, con Porfirio, a favore del suicidio[4], o quando dichiara, con Tristano, di desiderare solo la morte[5], o quando, senza altri travestimenti, dice direttamente, nello Zibaldone, di vedere un ospedale laddove gli altri vedono un giardino[6].

Mi sembra utile, allora, compiere un altro percorso, del resto indicato dallo stesso Leopardi nel sopra citato Dialogo di Tristano ed un amico[7]: si tratta di mostrare come quel pensiero, lungi dall’essere un pensiero singolare, frutto occasionale di una vita singolarmente “strozzata”, appartiene a buon diritto alla cultura occidentale, la pervade sin dalle sue origini greche, preesiste quindi a Leopardi e persiste oltre di lui.

In altre parole, Leopardi - e in questo, il solo Schopenhauer gli può stare a fianco - non è che un discepolo di Sileno, un divulgatore della sua sapienza.

Di che si tratta?

 

II. Nella Nascita della tragedia Nietzsche svela, attraverso il mito del Sileno[8], l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta armonia del mondo greco:

 

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non  essere, essere  niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”. [9]

 

 Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Chi parla è il precettore di Dioniso, la divinità che si contrappone ad Apollo così come al κόσμος si contrappone il χάος, senza ordine e senza misura; e il suo non è un lamento occasionale, dettato dall’esperienza di sventure particolari. Ciò che nelle sue parole si deve intendere è che il dolore, al di là delle condizioni personali, o sociali, o comunque contingenti, è connaturato all’esistenza, al punto che non esistere è la condizione migliore. Né Sileno si rivolge ad un miserabile che conduce una vita di stenti e di privazioni, e per il quale quindi il “non essere nato” o il “morire presto” sarebbero ben comprensibili; si rivolge ad un re, ricco e potente, chiamandolo “figlio del caso e della pena” (δαίμονος ἐπιπόνου καὶ τύχης χαλεπῆς ἐφήμερον σπέρμα) e svelandogli una verità inaspettata, paradossale, scandalosa: per un re, come per l’ultimo dei suoi sudditi, meglio sarebbe “non essere nato” (τὸ μὴ γενέσθαι) o, in secondo luogo, “morire presto” (ἀποθανεῖν ὡς τάχιστα).

  Altra cosa, come si può ben capire, è lo sconforto che sorprende, ad esempio, anche Omero quando fa esclamare a Zeus:

 

Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo 

fra tutto ciò che respira e cammina sopra la terra [10]

 

 Non si tratta di questo, perché la visione omerica resta sostanzialmente una visione serena, “apollinea”, convinta della bellezza della vita e fiduciosa nel favore degli dei; gli eroi omerici amano la vita, ne deprecano la brevità, sono rattristati dal pensiero della morte: famoso, ed emblematico, è il passo dell’Odissea dove Achille, incontrato da Ulisse fra le ombre dell’Ade, rimpiange la vita perduta:

 

Vorrei essere bifolco, servire un padrone,

un diseredato che non avesse ricchezza

piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte [11]

 

E’ lo stesso ordine di idee per cui Semonide e Mimnermo, pur compiangendo la miseria della condizione umana, esortano a godere le gioie della vita. E Mimnermo vuole vivere, non morire, quando esclama:

 

Senza malattie, senza funesti pensieri,

il destino di morte mi colga a sessant’anni ! [12]

 

Così pure vuole vivere Solone, che, avendo già varcato il limite dei sessant’anni, rilancia l’augurio un po’ più in là:

 

Il destino di morte mi colga ad ottant’anni ! [13]

 

Ed anche Saffo, per citare un ultimo esempio, dimostra di essere ben lontana dalla sapienza silenica quando, pur fra i tormenti d’amore, si chiede perché mai gli dei sarebbero immortali se la vita non fosse un bene[14].

 

III. Ma nemmeno si tratta di un pessimismo di tipo mistico-religioso, che svaluta la vita terrena, in quanto la intende come luogo (e tempo) dell’espiazione, e vede la morte come un bene perché l’anima può finalmente liberarsi dalla prigionia del corpo: il corpo (σῶμα) si identifica con la tomba (σῆμα), come la stessa affinità fonica delle due parole sembra indicare. E’ questo un motivo (di origine orfica) ampiamente presente in Platone, ma espresso anche, fra gli altri, da Aristotele, in un frammento di grande efficacia rappresentativa:

 

Poiché è una divina sentenza, quella detta da ben antichi, che la nostra anima paga quaggiù e sconta in questa vita la pena di grandi colpe precedenti... Onde noi siamo qui in un supplizio simile a quello di coloro che, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, per essere uccisi con raffinata crudeltà venivano legati con cadaveri, strettamente il vivo faccia a faccia col morto: le nostre anime sono unite ai corpi come quei vivi ai morti. [15]

 

E’ evidente che all’interno di questa concezione l’assurdità del “male di vivere” trova un senso, una giustificazione: ci si deve liberare da una sorta di peccato originale connesso con la materialità corporea, e si apre quindi, per l’anima individuale, la prospettiva di un’altra vita, finalmente felice, dopo la morte. E’ la prospettiva indicata, ad esempio, da Pindaro per chi abbia superato tre volte la prova della vita:

 

E quanti, per tre volte dimorando

nei mondi alterni, ressero

da colpe aliena l’anima,

fanno la via di Zeus fino alla torre

 di Crono, e là c’è l’isola

dei beati, le brezze dell’Oceano

fiatano intorno, brillano

i fiori d’oro,

quali da piante sulla terra splendide,

altri l’acqua li pasce,

e monili ne intricano e serti. [16]

 

E’ la concezione, come si può ben capire, che, confluendo poi nel cristianesimo, diventerà dominante nella civiltà occidentale: questo mondo è una valle di lacrime, la speranza di felicità è relegata fuori della vita terrena, nel Paradiso (o “isola dei beati” che dir si voglia), per chi abbia ben meritato.

Non si tratta di questo, perché il Sileno, nel momento in cui connette inestricabilmente esistenza ed infelicità, non fa riferimento ad un’altra possibilità di esistere, non indica la morte come la liberazione dell’anima incarcerata nel corpo e il suo avviarsi verso una dimensione alternativa e soddisfacente; semplicemente, dichiara che il nulla, il non-essere, sia dell’anima che del corpo (o anche, ma è la stessa cosa: il lasciarsi inghiottire dal χάος, senza più memoria della propria individualità), è l’unica condizione per la cessazione del dolore.

 

IV. Tutto il fulgore degli dei olimpici impallidisce dinnanzi alla sapienza di Sileno. Il precettore di Dioniso insegna una verità terribile: non c’è un senso, né terreno né ultraterreno, per la vita umana. E l’ebbrietà, di cui il dio è portatore, è la sola medicina in grado di lenire, per il tempo in cui essa dura, la malattia del vivere; l’ebbrietà che consente, tanto nella sua forma frenetica quanto in quella letargica, di spezzare i vincoli del principium individuationis  e di perdersi nel tutto.

Su tale sapienza si fonda la tragedia, la forma d’arte in cui Dioniso si concilia con Apollo, ed attraverso cui l’uomo greco, che ha intravvisto con orrore l’assurdità dell’esistenza, si difende dalla minaccia del χάος e si salva dal pericolo di perdere se stesso. Ma quell’orrore non può essere dimenticato, esso percorre la cultura greca come un fiume sotterraneo, e riemerge più volte nella forma, caratteristica ed inequivocabile, dell’aspirazione all’annientamento. Così si lamenta il coro nell’Edipo a Colono di Sofocle:

 

Non veder mai la luce

vince ogni confronto,

ma una volta venuti al mondo

tornar subito là onde si giunse

è di gran lunga la miglior sorte [17]

 

Analogo concetto è espresso più volte da Euripide:

 

Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo,

a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce,

considerando i molteplici mali dell’umana vita;

ma chi morendo pose fine ai gravi travagli,

a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie

con ogni lode e gioia [18]

 

Quelli dei mortali che vedono la luce sono afflitti da morbi,

e i morti nulla soffrono né patiscono mali [19]

 

Meglio per i mortali sarebbe non nascere che nascere. [20]

 

Ma è una sapienza conosciuta anche dai lirici. Così canta Teognide:

 

Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere nato,

né i raggi vedere del sole abbagliante,

e, quando si è nati, al più presto varcare le soglie di Ade

e sotto gran massa di terra giacere. [21]

 

 E così Bacchilide ammonisce il sire Gerone dei siracusani, vincitore col cavallo veloce ad Olimpia:

 

                              Non esistere:

è ben questa per l’uomo la ventura

delle venture, non vedere il sole. [22]

 

La stessa concezione è espressa da Erodoto attraverso alcuni episodi narrati nelle Storie . Così ci dice a proposito di una popolazione della Tracia:

 

Quanto ai Trausi... quando nasce o muore loro qualcuno, si comportano come segue: alla nascita di un bambino, i parenti, sedutigli attorno, piangono i mali che dovrà sopportare dal momento che è venuto al mondo ed elencano tutte le sciagure umane. Quando invece uno muore, tutti, lieti e gioiosi, lo sotterrano, dicendo che egli ormai, liberato da tanti affanni, vivrà nella perfetta felicità. [23]

 

In un altro momento, quando Serse, scrutando l’Ellesponto tutto coperto di navi e le spiagge formicolanti di uomini, si mette a piangere al pensiero di quanto sia breve la vita umana, è Artabano a consolarlo con una verità ben più dolorosa:

 

In questa vita, che pure è così breve, non esiste nessun uomo, né di questi né di altri, felice al punto che non gli capiti spesso, e non una volta sola, di desiderare di essere morto piuttosto che di vivere. Le sciagure che ci colpiscono e le malattie che ci affliggono ci fanno trovare lunga questa vita, per breve che sia. Così, essendo la vita travagliata, la morte è per l’uomo il rifugio più desiderabile. [24]

 

Ma il più significativo, ed anche il più famoso sin dall’antichità, è l’episodio di Cleobi e Bitone:

 

Di loro si racconta che un giorno celebrando gli Argivi la festa in onore di Era, la loro madre doveva essere necessariamente trasportata al santuario con un carro, ma i buoi non erano tornati in tempo dai campi; allora i due giovani, poiché l’ora incalzava, si misero sotto al giogo e tirarono il carro, su cui viaggiava la madre, per quarantacinque stadi, fino al tempio; dopo di che, al cospetto della folla dei fedeli, incontrarono la morte più bella. E di essi gli dei si servirono per dimostrare che per gli uomini è meglio morire che vivere. Gli Argivi, stringendosi attorno a loro, li felicitavano per la loro robustezza e le Argive chiamavano beata la loro madre che aveva figli siffatti; la madre infine, al colmo della gioia per l’azione che essi avevano compiuta e per le lodi che ne avevano ricevute, ritta davanti alla statua della dea, le chiese per i figli Cleobi e Bitone, che tanto l’avevano onorata, la cosa più bella che potesse toccare ad un uomo. Dopo il sacrificio e il banchetto, i due giovani si addormentarono nel tempio e non si svegliarono più, sorpresi dalla morte nel sonno. [25]

 

Una simile vicenda veniva attribuita a Trofonio ed Agamede, gli architetti del tempio di Apollo a Delfi[26]: costoro chiesero ed ottennero dal dio come compenso per la loro opera “ciò che fosse meglio per l’uomo”: e il dio concesse loro la morte. La morte come premio, dunque, e non per passare a miglior vita, ma per passare al nulla.

E’ un pensiero, per altro, non estraneo alla cultura ebraica: se ne sente l’eco nel Vecchio Testamento, laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio[27], e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”,  ricordano proprio quelle del Sileno:

 

E proclamai i morti più beati dei vivi,

e più felici d’entrambi chi non è nato ancora...[28]

 

Nel mondo latino, all’angoscia di Lucrezio che canta il lugubre vagitum del neonato, sbattuto come un naufrago sulla spiaggia della vita[29], risponde, in tutt’altro contesto, l’acuta ironia dell’autore del Satyricon[30]: in mezzo alla volgarità trionfante alla cena di Trimalchione, ci sono, attribuite alla Sibilla, parole di ben altro peso: il responso della profetessa cumana alla domanda dei fanciulli (“Σίβυλλα, τί θέλεις;”)[31]  è secco e apparentemente assurdo: Ἀποθανεῖν θέλω[32].

E quel responso sorvola le teste troppo ottuse dei liberti convitati  per giungere fin nel cuore del Novecento: Eliot lo raccoglie e lo pone ad epigrafe de La terra desolata, siccome un viatico per chi voglia visitarla.

 



[1]A parte Tommaseo, che manifestava normalmente il suo “dissenso” da Leopardi con riferimenti insultanti alla gobba, anche Capponi, il “candido Gino”, si esprimeva così, pochi anni dopo la morte del poeta: “Io per me credo proprio... che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole. Il povero Leopardi aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il non sapere vivere gobbi?” (da Pensieri diversi, in Scritti editi e inediti di Gino Capponi, a c. di M. Tabarrini, Firenze 1877, vol. II, p. 445).

[2] “Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione... E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, in francese nell’originale; cfr. Leopardi, Le lettere, Milano 1963 [1949], p. 1033).

[3]F. De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Bari 1965, p. 184.

[4]nel Dialogo di Plotino e Porfirio .

[5]nel Dialogo di Tristano e un amico .

[6]Zib., 4176. Cito, qui e in seguito, le pagine del manoscritto leopardiano nell’edizione a cura di G. Pacella, Milano 1991.

[7]“Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.” (cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, I, Milano 1968 [1940], p. 1021).

[8]Era ritenuto il precettore di Dioniso. Sul suo incontro con il re Mida circolavano diverse versioni. Quella riportata da Nietzsche è tramandata da Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 27), il quale a sua volta dichiara di assumerla da un dialogo di Aristotele, l’Eudemo  (fr. 44 Rose).

[9]F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie. Oder: Griechenthum und Pessimismus, tr. it. Milano 1982, pp. 31-32.

[10]Omero, Iliade, XVII, vv. 446-47 (trad. Calzecchi Onesti); ma un’esclamazione analoga si trova anche in Odissea, XVIII, vv. 130-131.

[11]Omero, Odissea, XI, vv. 489-91 (trad. Calzecchi Onesti). Bisognerà dire, quindi, che sia il Tristano di Leopardi (vedi sopra, alla nota 7) sia Schopenhauer negli Ergänzungen  (tr. it.  Bari 1986 [1930], p. 607) impropriamente fanno riferimento ad Omero quando indicano le radici del loro pessimismo.

[12]Mimnermo, fr. 6 Diehl.

[13]Solone, fr. 22 Diehl.

[14]Fr. 201 Lobel-Page.

[15]Aristotele, fr. 60 Rose (trad. Carlini).

[16]Pindaro, Ol. 2, vv. 68-74 (trad. Pontani).

[17]Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1225-28 (trad. Ferrari).

[18]Euripide, Cresfonte, TGF, fr. 449 = fr. 5 Musso.

[19]Euripide, TGF, fr. 833.

[20]Euripide, TGF, fr. 908. Espressioni analoghe si trovano anche in fr. 285 e in Ippolito, vv. 189-90.

[21]Teognide, vv. 425-28 Young.

[22]Bacchilide, 5 Snell, vv. 160-164 (trad. Pontani).

[23]Erodoto, Storie, V, 4 (trad. Mattioli).

[24]Erodoto, Storie, VII, 45.

[25]Erodoto, Storie, I, 31.

[26]Ce la attesta Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 14), il quale peraltro dichiara di assumerla da Pindaro.

[27]Giobbe, 3, 3-22.

[28]Ecclesiaste, 4, 2-3.

[29]De rerum natura,  V,  vv. 222-227.

[30]Satyricon,  XLVIII.

[31]“Sibilla, che cosa vuoi?”

[32]“Voglio morire”

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