V. Le riflessioni sul desiderio
illimitato di piacere e sulla conseguente impossibilità di soddisfazione
costituiscono il fondamento più chiaro del pessimismo leopardiano; le stesse
costituiscono altresì evidente dimostrazione dell’affinità profonda che lega il
pensiero di Leopardi alla sapienza silenica, se è vero che quelle riflessioni
non fanno altro che dare sistemazione teorica all’idea, silenica, della
connessione inestricabile fra esistenza ed infelicità.
Il ragionamento, sviluppato nello
Zibaldone (in maniera più articolata
nel luglio del 1820, ma più volte ripreso successivamente) è semplice e
stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria
conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il
desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor
proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere
particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”,
“addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne
conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza
e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Su questa connessione
esistenza-infelicità Leopardi insiste particolarmente, e converrà citare con
ampiezza:
Questo desiderio e
questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e
perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito,
ma solamente termina colla vita... Il detto desiderio del piacere non ha limiti
per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza... [1]
La felicità è
impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio
assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti
necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di
non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria,
anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza
necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi
si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità
senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere
soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente
felice. [2]
Dove non v’ha
piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere,
e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede,
tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità
di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non
gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire,
che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come
intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi
soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può
mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è
vivente, ed in quanto egli è tale... [3]
Ed è una condizione che riguarda
non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
Una specie di
viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè
tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno
dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai
generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice
delle viventi). [4]
... resta che non
solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia
felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia
di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione
e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della
felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita,
ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri
dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di
essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante
infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. [5]
Riconosciuta la
impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo
sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi,
universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da
questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in
ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o
individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo
possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista
nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui
animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado
possibile di tal sentimento. [6]
E dunque, se è vero che
l’infelicità è direttamente proporzionale alla capacità di sentire la vita, e
pertanto è inferiore nelle forme inferiori di vita, se ne deve concludere che
per l’uomo la condizione migliore è quella meno “vitale”, ovvero quella del
sonno, del letargo, dello stordimento dato dall’oppio o dall’ebbrezza:
un assopimento
dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato
all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come
un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un
intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare,
tuttavia non se n’avvede. [7]
E non godendo mai,
né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in
quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel
sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è
sensibile, e perché in certo modo ei non vive. [8]
E un individuo...
allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una
ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non
penosa, ec. ... Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl’istanti che precedono la morte... [9]
E’ da notare però
che l’ubbriachezza ec., anche quando esalta le forze, e cagiona una non
ordinaria vivacità ed attività... sempre però o quasi sempre cagiona eziandio
nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, d’ἀναισθησία (…)
Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocché sospendendo o scemando
in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la
forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita,
sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto,
l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio
vano della felicità...[10]
Alla fine di questo ragionamento
- che mette in campo, abbiamo visto, anche il motivo dionisiaco per eccellenza,
l’ebbrietà, come rimedio provvisorio - ci attende inevitabile la risposta del
Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non
essere, essere niente.
Desiderare la vita,
in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma
altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di
essere infelice. [11]
Leopardi avverte il carattere paradossale e
contraddittorio di una simile verità - giacché alla fine si scopre la fallacia
dell’assunto di partenza, che identifica l’amor proprio, quindi del proprio
bene, con l’amore della propria conservazione - ma non vi rinuncia:
E però, secondo
tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai
viventi il non essere che l’essere. Ma
questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio
di qualche cosa? [12]
Ed è una verità valida non solo
per i viventi “senzienti”, come uomini e animali, ma anche per i viventi di
vita vegetativa:
... se questi
esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe
per loro assai meglio che l’essere. [13]
VI. Colpisce, a questo punto, la
somiglianza fra queste riflessioni di Leopardi e quelle che, quasi
contemporaneamente, Schopenhauer veniva formulando nel suo Die Welt als Wille und Vorstellung. Si tratta, come è noto, di una
somiglianza già rilevata in un saggio memorabile da De Sanctis, il quale per
altro, avendo dello Zibaldone una
conoscenza limitata, non poteva avvertire di quella somiglianza tutte le
dettagliate articolazioni.
La “volontà di vivere” (Wille zum Leben) di Schopenhauer,
inesauribile ed incolmabile nel suo “aspirare” (Streben) senza fine, ricorda
quell’“amor proprio”, che alimenta il desiderio perennemente insoddisfatto, di
cui parla Leopardi; parimenti, anche per Schopenhauer tutto ciò che vive è in
condizioni di sofferenza, secondo una scala che conduce dalle forme inferiori
di vita a quelle superiori:
Ogni aspirare
proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il
principio di una nuova aspirazione... Non ha termine l’aspirare, non ha dunque
misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione
scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente,
nella vita animale, il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza
indugiare in questo grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa
conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita
dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così
diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità,
e quindi punto dolore; un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli
animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la capacità di
sentire e di soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei
vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più
l’intelligenza si sviluppa...[14]
Già vedemmo la
natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare,
senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione
considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro,
affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno,
mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura...[15]
Simile, in Leopardi e
Schopenhauer, è anche l’idea, logicamente conseguente, secondo cui fra gli
individui umani la capacità di soffrire è direttamente proporzionale
all’intelligenza[16]; ed ancora, simile è la
concezione della noia come sentimento di una mancanza non appagabile da alcun
bene determinato, e quindi come sintomo, più propriamente umano, del “male di
vivere”[17].
La conclusione, anche per
Schopenhauer, ci rimanda alla sapienza silenica. Se il “peccato originale” è
l’esistenza di per sé (la forma fenomenica nella quale la volontà si è
determinata, secondo il principium
individuationis), se è vero che, come dice il “poeta veggente” Calderón de
la Barca, il delitto maggiore dell’uomo è l’essere nato (el delito mayor del hombre es haber nacido)[18], se ne deve concludere che “non
essere, essere nulla” sia la condizione migliore:
E forse non si darà
mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e
in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri
sceglierà il completo non essere. [19]
Ed è la stessa conclusione, è
ancora Schopenhauer a ricordarcelo, cui giunge Amleto nel celeberrimo monologo:
not to be è senz’altro lo stato
preferibile e desiderabilissimo (a
consummation devoutly to be wish’d). Ed Amleto
si trattiene dal suicidio solo perché teme che nemmeno la morte comporti
l’annientamento totale (the dread of
something after death /.... puzzles th will / and makes us rather bear the ills
we have / than fly to others that we know not of )[20].
Ma il suicidio, si sa, non è una
scelta accettabile, né per Leopardi, né per Schopenhauer, apparentemente per
ragioni diverse, sostanzialmente per la stessa. Il filosofo tedesco ritiene che
il suicidio sia, paradossalmente, niente altro che un’estrema manifestazione di
quella stessa volontà di vivere che si vorrebbe negare. Il poeta italiano ne
parla, per bocca di Plotino, come di un atto estremo di egoismo, di amor
proprio (ma l’“amor proprio” in Leopardi, abbiamo visto, sembra essere
l’equivalente della “volontà” in Schopenhauer), un atto che non tiene in alcun
conto il dolore “dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni”. E’ invece da percorrersi - continua Plotino,
ma gli stessi accenti risuonano nella Ginestra
- la strada della solidarietà, dell’aiuto reciproco fra uomini che si
riconoscono partecipi della stessa miseria. E la solidarietà è anche per
Schopenhauer la scelta giusta e necessaria di chi ha visto nell’altro da sé il
ripetersi del suo stesso destino: è il primo atto di chi ha cominciato a
rifiutare di lasciarsi determinare dalla cieca “volontà di vivere”, il primo atto in un
processo che contempla, come suo compimento, l’annullamento totale della
volontà nella scelta dell’ascesi.
VII. E dunque, il cosiddetto
“pessimismo cosmico” di Leopardi viene da lontano: né la sua particolare biografia,
né – con buona pace di Luporini - la “delusione storica” patita dalla sua
generazione[21] possono spiegare appieno un
pensiero che ha radici tanto profonde.
E’ un pensiero che emerge più
volte, ancorché occasionalmente, nella cultura occidentale, trova una
organizzazione sistematica con Leopardi e Schopenhauer, persiste oltre di loro.
Basti pensare a Carlo Michelstaedter, il pensatore goriziano degli inizi del
Novecento, che fa esplicito riferimento a Leopardi e Schopenhauer e che sembra
evocare, ancora una volta, la sapienza silenica, nel momento in cui oppone,
alle falsificazioni della “rettorica”, la verità della “persuasione”[22].
Ma il Sileno non ha bisogno di
sistemi filosofici per far sentire la sua voce. E a me piace ricordare, per
concludere, il più “intellettuale” dei personaggi verghiani, Rosso Malpelo, il
quale così ammaestra Ranocchio presso la discarica ove giace la carcassa del grigio :
Gliele vedi quelle
costole al grigio? Adesso non soffre più. (...) Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle
guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per
andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: - Non più! Non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso
se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta
denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. [23]
Marcello TARTAGLIA
ordinario di Italiano e Latino
presso il Liceo Scientifico “E. Fermi”
di Bologna
Articolo
pubblicato su “Cultura e scuola”
Anno
XXXIV, n. 135-136 (luglio-dicembre 1995)
[1]Zib., 165
[2]Zib., 648.
[3]Zib., 3551-52.
[4]Zib., 3847-48.
[5]Zib., 4137.
[6]Zib., 4186.
[7]Zib., 172.
[8]Zib., 3551.
[9]Zib., 3848.
[10]Zib., 3905-3906.
[11]Zib.,
829-830.
[12]Zib., 4100.
[13]Zib.,
4176-77.
[14]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. Bari 1984 [1928], p. 409-410.
[15]A. Schopenhauer, ibidem, p. 411-412.
[16]Così
Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno
sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi
i meno infelici degli stati umani.” (Zib.,
4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio
costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non
possano mai sentire i più ottusi..” (Die
Welt..., op. cit., p. 414).
[17]Così
Schopenhauer: “Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera
tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione:
in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue
monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto
contro il bisogno.” (Die Welt..., op.
cit., p. 414). In Leopardi, come si sa, è un pensiero ampiamente diffuso;
basterà ricordarne la formulazione nei Pensieri
: “... immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e
sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì
fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e
patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza
e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli
uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Pensieri, LXVIII; cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, II, Milano 1968 [1940], p. 42).
[18]P.
Calderón de la Barca, La vida es sueño (atto I, scena II).
[19]A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 427.
[20]W.
Shakespeare, Hamlet (atto III, scena I).
[21]
cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo,
in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze
1947.
[22]
Mi riferisco alla sua opera più significativa, La persuasione e la rettorica, laddove Michelstaedter, per spiegare
lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta, sviluppa, con grande efficacia,
un esempio tratto da Schopenhauer: quello del peso che, in quanto tale, ha
sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe
quello che è, cioè un peso (cfr. A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 176 e 408; e C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano
1982, pp. 39-40).
[23]G.
Verga, Rosso Malpelo, in Opere
(Milano-Napoli 1961, p. 169); sottolineatura mia.
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