domenica 20 ottobre 2024

Leopardi e la sapienza silenica (II parte)

 

V. Le riflessioni sul desiderio illimitato di piacere e sulla conseguente impossibilità di soddisfazione costituiscono il fondamento più chiaro del pessimismo leopardiano; le stesse costituiscono altresì evidente dimostrazione dell’affinità profonda che lega il pensiero di Leopardi alla sapienza silenica, se è vero che quelle riflessioni non fanno altro che dare sistemazione teorica all’idea, silenica, della connessione inestricabile fra esistenza ed infelicità.

Il ragionamento, sviluppato nello Zibaldone (in maniera più articolata nel luglio del 1820, ma più volte ripreso successivamente) è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Su questa connessione esistenza-infelicità Leopardi insiste particolarmente, e converrà citare con ampiezza:

 

Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita... Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza... [1]

 

La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. [2]

 

Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale... [3]

 

Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:

 

Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). [4]

 

... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. [5]

 

Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. [6]

 

E dunque, se è vero che l’infelicità è direttamente proporzionale alla capacità di sentire la vita, e pertanto è inferiore nelle forme inferiori di vita, se ne deve concludere che per l’uomo la condizione migliore è quella meno “vitale”, ovvero quella del sonno, del letargo, dello stordimento dato dall’oppio o dall’ebbrezza:

 

un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. [7]

 

E non godendo mai, né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è sensibile, e perché in certo modo ei non vive. [8]

 

E un individuo... allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non penosa, ec. ... Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl’istanti che precedono la morte... [9]

 

E’ da notare però che l’ubbriachezza ec., anche quando esalta le forze, e cagiona una non ordinaria vivacità ed attività... sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, d’ἀναισθησία (…) Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocché sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita, sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto, l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio vano della felicità...[10]

 

Alla fine di questo ragionamento - che mette in campo, abbiamo visto, anche il motivo dionisiaco per eccellenza, l’ebbrietà, come rimedio provvisorio - ci attende inevitabile la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non essere, essere niente.

 

Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice. [11]

 

 Leopardi avverte il carattere paradossale e contraddittorio di una simile verità - giacché alla fine si scopre la fallacia dell’assunto di partenza, che identifica l’amor proprio, quindi del proprio bene, con l’amore della propria conservazione - ma non vi rinuncia:

 

E però, secondo tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere.  Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa?  [12]

 

Ed è una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali, ma anche per i viventi di vita vegetativa:

 

... se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. [13]

 

 

VI. Colpisce, a questo punto, la somiglianza fra queste riflessioni di Leopardi e quelle che, quasi contemporaneamente, Schopenhauer veniva formulando nel suo Die Welt als Wille und Vorstellung. Si tratta, come è noto, di una somiglianza già rilevata in un saggio memorabile da De Sanctis, il quale per altro, avendo dello Zibaldone una conoscenza limitata, non poteva avvertire di quella somiglianza tutte le dettagliate articolazioni.

La “volontà di vivere” (Wille zum Leben) di Schopenhauer, inesauribile ed incolmabile nel suo “aspirare” (Streben) senza fine,  ricorda quell’“amor proprio”, che alimenta il desiderio perennemente insoddisfatto, di cui parla Leopardi; parimenti, anche per Schopenhauer tutto ciò che vive è in condizioni di sofferenza, secondo una scala che conduce dalle forme inferiori di vita a quelle superiori:

 

Ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione... Non ha termine l’aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente, nella vita animale, il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in questo grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore; un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l’intelligenza si sviluppa...[14]

 

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura...[15]

 

Simile, in Leopardi e Schopenhauer, è anche l’idea, logicamente conseguente, secondo cui fra gli individui umani la capacità di soffrire è direttamente proporzionale all’intelligenza[16]; ed ancora, simile è la concezione della noia come sentimento di una mancanza non appagabile da alcun bene determinato, e quindi come sintomo, più propriamente umano, del “male di vivere”[17].

La conclusione, anche per Schopenhauer, ci rimanda alla sapienza silenica. Se il “peccato originale” è l’esistenza di per sé (la forma fenomenica nella quale la volontà si è determinata, secondo il principium individuationis), se è vero che, come dice il “poeta veggente” Calderón de la Barca, il delitto maggiore dell’uomo è l’essere nato (el delito mayor del hombre es haber nacido)[18], se ne deve concludere che “non essere, essere nulla” sia la condizione migliore:

 

E forse non si darà mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri sceglierà il completo non essere. [19]

 

Ed è la stessa conclusione, è ancora Schopenhauer a ricordarcelo, cui giunge Amleto nel celeberrimo monologo: not to be è senz’altro lo stato preferibile e desiderabilissimo (a consummation devoutly to be wish’d). Ed Amleto si trattiene dal suicidio solo perché teme che nemmeno la morte comporti l’annientamento totale (the dread of something after death /.... puzzles th will / and makes us rather bear the ills we have / than fly to others that we know not of )[20].

Ma il suicidio, si sa, non è una scelta accettabile, né per Leopardi, né per Schopenhauer, apparentemente per ragioni diverse, sostanzialmente per la stessa. Il filosofo tedesco ritiene che il suicidio sia, paradossalmente, niente altro che un’estrema manifestazione di quella stessa volontà di vivere che si vorrebbe negare. Il poeta italiano ne parla, per bocca di Plotino, come di un atto estremo di egoismo, di amor proprio (ma l’“amor proprio” in Leopardi, abbiamo visto, sembra essere l’equivalente della “volontà” in Schopenhauer), un atto che non tiene in alcun conto il dolore “dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni”.  E’ invece da percorrersi - continua Plotino, ma gli stessi accenti risuonano nella Ginestra - la strada della solidarietà, dell’aiuto reciproco fra uomini che si riconoscono partecipi della stessa miseria. E la solidarietà è anche per Schopenhauer la scelta giusta e necessaria di chi ha visto nell’altro da sé il ripetersi del suo stesso destino: è il primo atto di chi ha cominciato a rifiutare di lasciarsi determinare dalla cieca  “volontà di vivere”, il primo atto in un processo che contempla, come suo compimento, l’annullamento totale della volontà nella scelta dell’ascesi.

 

VII. E dunque, il cosiddetto “pessimismo cosmico” di Leopardi viene da lontano: né la sua particolare biografia, né – con buona pace di Luporini - la “delusione storica” patita dalla sua generazione[21] possono spiegare appieno un pensiero che ha radici tanto profonde.

E’ un pensiero che emerge più volte, ancorché occasionalmente, nella cultura occidentale, trova una organizzazione sistematica con Leopardi e Schopenhauer, persiste oltre di loro. Basti pensare a Carlo Michelstaedter, il pensatore goriziano degli inizi del Novecento, che fa esplicito riferimento a Leopardi e Schopenhauer e che sembra evocare, ancora una volta, la sapienza silenica, nel momento in cui oppone, alle falsificazioni della “rettorica”, la verità della “persuasione”[22].

Ma il Sileno non ha bisogno di sistemi filosofici per far sentire la sua voce. E a me piace ricordare, per concludere, il più “intellettuale” dei personaggi verghiani, Rosso Malpelo, il quale così ammaestra Ranocchio presso la discarica ove giace la carcassa del grigio :

 

Gliele vedi quelle costole al  grigio? Adesso non soffre più. (...) Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: - Non più! Non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. [23]

 

 

 

 

 

 

Marcello TARTAGLIA

ordinario di Italiano e Latino

  presso il Liceo Scientifico “E. Fermi”

di Bologna

 

 

Articolo pubblicato su “Cultura e scuola

Anno XXXIV, n. 135-136 (luglio-dicembre 1995)

 

 

 



[1]Zib., 165

[2]Zib., 648.

[3]Zib., 3551-52.

[4]Zib., 3847-48.

[5]Zib., 4137.

[6]Zib., 4186.

[7]Zib., 172.

[8]Zib., 3551.

[9]Zib., 3848.

[10]Zib., 3905-3906.

[11]Zib., 829-830.

[12]Zib., 4100.

[13]Zib., 4176-77.

[14]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. Bari 1984 [1928], p. 409-410.

[15]A. Schopenhauer, ibidem, p. 411-412.

[16]Così Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani.” (Zib., 4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).

[17]Così Schopenhauer: “Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno.” (Die Welt..., op. cit., p. 414). In Leopardi, come si sa, è un pensiero ampiamente diffuso; basterà ricordarne la formulazione nei Pensieri : “... immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Pensieri, LXVIII; cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, II, Milano 1968 [1940], p. 42).

[18]P. Calderón de la Barca, La vida es sueño  (atto I, scena II).

[19]A. Schopenhauer, Die Welt..., op.  cit., p. 427.

[20]W. Shakespeare, Hamlet  (atto III, scena I).

[21] cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947.

[22] Mi riferisco alla sua opera più significativa, La persuasione e la rettorica, laddove Michelstaedter, per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta, sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da Schopenhauer: quello del peso che, in quanto tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe quello che è, cioè un peso (cfr. A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 176 e 408; e C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 1982, pp. 39-40).

[23]G. Verga, Rosso Malpelo, in Opere  (Milano-Napoli 1961, p. 169); sottolineatura mia.

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